Termini come “materiali biobased, sostenibili, circolari” stanno finalmente iniziando a entrare nel vocabolario anche dei non addetti ai lavori. Caratterizzare un oggetto per il suo materiale è, infatti, una leva che attrae sempre di più nuovi consumatori.

D’altronde, occuparsi dei materiali di cui sono composti gli oggetti che utilizziamo quotidianamente e saperli raccontare nella maniera più opportuna è un argomento centrale sia come opportunità di business, sia per gestire le materie prime in maniera più sostenibile. Dal materiale dipendono la durabilità, la piacevolezza e le prestazioni del prodotto; una volta terminato l’utilizzo rimane soltanto la materia di cui è composto. La scelta e la conoscenza del materiale sono essenziali per determinare l’impatto ambientale di un oggetto già dalla fase progettuale, motivo per cui un numero sempre maggiore di designer stanno affrontando la questione con interesse. 

 

Material Tinkering: un primo approccio nei laboratori universitari

In diversi atenei italiani ed europei di Product Design l’approccio sperimentale sta diventando una metodologia che si sta diffondendo nel percorso di insegnamento dei materiali. 

Se in passato la didattica si focalizzava maggiormente sulla conoscenza dei materiali esistenti, oggi alcuni docenti hanno iniziato ad affrontare il tema con un approccio esperienziale, guidando lo studente nella creazione di un materiale nuovo attraverso un metodo che porta a “sporcarsi le mani”. Gli alunni, con un approccio tecnico e scientifico, sono chiamati a riflettere sulle conseguenze ambientali delle loro scelte in fase progettuale, sulla sensorialità e sul significato emotivo che possono assumere gli oggetti prodotti con i diversi materiali.

Carlo Santulli, docente di Scienza e Tecnologia dei Materiali presso la Scuola di Architettura e Design dell’università UNICAM di Camerino, riassume nei suoi corsi i due modi con cui lo studente si relaziona con il tema dei materiali: nel modulo “Caratteristiche prestazionali e conformative dei materiali” lo studente viene guidato nella selezione del materiale per la realizzazione del progetto di design, mentre nel corso “Sperimentazione di Materiali Innovativi per il Design” è chiamato ad esplorare la materia alla ricerca di nuove soluzioni utilizzabili. Quest’ultimo corso è caratterizzato da un approccio laboratoriale focalizzato sull’ideazione di bioplastiche e altri materiali organici attraverso l’utilizzo di materiali di scarto possibilmente a km0 e riconoscibili dallo studente per la sua esperienza lavorativa o personale. L’entusiasmo e la dimestichezza nei confronti del materiale portano lo studente a costruirne la “personalità”, ideando il percorso e le procedure di prova che gli consentiranno di definire le caratteristiche espressive e tecniche e che, infine, lo porteranno ad identificare una possibile applicazione a livello di prodotto. “Per inserirli in una narrativa di progetto credibile, – afferma Santulli – mi avvalgo del contributo di altri docenti e designer professionisti che, grazie alla loro esperienza, sono in grado di inquadrare meglio le possibili destinazioni d’uso, evitando strade semplici e valorizzando le qualità estetiche dei materiali organici utilizzati in partenza.” 

Anch’esso legato alla realizzazione di materiali DIY (Do It Yourself), il corso “Designing Materials Experiences” condotto da Valentina Rognoli, Stefano Parisi e Camilo Ayala Garcia al Politecnico di Milano, Scuola del Design, è finalizzato allo sviluppo di un concetto materico, un materiale autoprodotto attraverso un approccio lowtech.

Gli studenti svolgono attività di Material Tinkering “pensare attraverso i sensi”, costruendo un know-how profondo che spazia da una conoscenza tecnico-fisica del materiale a una dimensione espressivo-sensoriale ed esperienziale. Non sono esclusi dal metodo studi sull’utente e la capacità di immaginare scenari d’applicazione. 

Secondo Valentina Rognoli si sta verificando un cambio di paradigma per cui è il designer che tangibilmente autoproduce delle proposte che “incorporano già in partenza i desideri e i bisogni dell’utente; spesso innovative dal punto di vista delle proprietà, della sostenibilità, delle risorse e dei processi” e che possono servire da fonte di ispirazione per lo sviluppo di altri materiali. 

In un contesto di studi altrettanto multiculturale come quello del Politecnico, si svolge alla NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, il corso di “Materiali e nuove tecnologie per l’innovazione del progetto”. Gli studenti sono invitati a ricercare nuovi materiali a partire da sostanze organiche, preferibilmente di scarto o da sostanze autogenerative come funghi, alghe o batteri. Il corso si concentra sin dal primo momento su un approccio di sostenibilità ambientale e di riduzione degli impatti e trova, nel concetto stesso di sostenibilità, un fattore chiave per l’innovazione. 

 

Celluosa batterica 

 

RC+L, materiale ottenuto dall’impiego di fondi di caffè e realizzato dagli studenti Matteo Brasili, Elisa Castelletta, Giovanni Dipilato, Gaia Ravera, Martina Sacco, Dario Javier Sosio durante il corso “Materiali e nuove tecnologie per l’innovazione del progetto” in NABA

 

Alla fine del corso è prevista una presentazione finale alla quale spesso sono invitati professionisti legati al mondo dei materiali e del progetto. Gli studenti presentano e discutono i risultati ottenuti: uno scambio che rende l’apprendimento collettivo e non limitato a una ricerca individuale. 

Oltre ai corsi semestrali, alcune università offrono percorsi formativi altamente specializzati sul tema dei materiali. È il caso del Master “Design through New Materials” condotto alla Elisava Barcelona School of Design and Engineering. Per la direttrice del corso Laura Clèries “è importante essere in grado di pensare attraverso la manualità, oltre ad essere una risorsa creativa, l’attenzione verso il materiale assume un ruolo protagonista nel processo di progettazione; nel caso del nostro Master un atteggiamento scientifico e allo stesso tempo creativo è vincolato a un aspetto multidisciplinare, sociale, antropologico, tecnologico ed estetico”. Il programma sostiene laboratori pratici, visite a industrie e a importanti centri di innovazione dei materiali. Il master affronta con serietà anche le questioni legate alla proprietà intellettuale e al marketing, un tema fondamentale quando si tratta di posizionare con successo un materiale all’interno di un mercato o di un settore, oppure per riconoscere il potenziale di nuovi modelli di business associati ai materiali.

 

Dall’oggetto manifesto alla produzione in serie

L’entusiasmo degli studenti nella sperimentazione di materiali DIY ha più di una spiegazione: influiscono sia radici storiche profonde rappresentate dai cambiamenti che le persone hanno apportato nei territori e nel tempo, sia sulle matrici culturali più recenti, come il movimento dei makers e la democratizzazione del sapere scientifico.

Anche se oggi siamo circondati per lo più da oggetti prodotti industrialmente, il piacere del saper fare tipico dell’artigiano risponde ancora, dalla parte più antica nostro cervello, al bisogno di migliorare il nostro status, sottolineando un aspetto di design emozionale, in primis per chi lo sperimenta come progettista. Per le attività di material tinkering, le mani, la tattilità, sono uno strumento chiave assieme agli altri sensi. Lo conferma l’artista e designer tailandese Nithikul Nimkulrat, docente alla Estonian Accademy of Art, Faculty of Design (Tallin) quando afferma che l’artigianato non è solo un modo di produrre oggetti, ma anche un mezzo per pensare attraverso le mani che manipolano il materiale. Questo è il concetto fondamentale alla base della sperimentazione dei materiali DIY. Ma affinché questa risulti applicabile ed efficace, è necessario affiancarle una metodologia sia scientifica, per le qualità del materiale da raggiungere, sia applicativa, come il Material Driven Design. In questo percorso progettuale il materiale non si sceglie alla fine, ma coincide con l’input progettuale, invertendo la domanda da “Con che materiale posso realizzare il mio progetto?” a “Che progetto posso realizzare date le caratteristiche del materiale che ho ottenuto?”. È proprio questo nuovo punto di vista che può migliorare la qualità del matching tra materiale e progetto, portando a soluzioni innovative.

 

Nithikul Nimkulrat. The black&white striped armchair, 2014. Photo credit: Nithikul Nimkulrat (www.inicreation.com)

 

Una grossa spinta al trend dei progetti DIY è stata data anche dal movimento open source, in cui persino una scienza complessa come quella dei materiali, che necessita di laboratori e macchinari costosi, è arrivata nei garage dei makers aprendosi all’impiego di risorse e tecnologie low-tech, permettendo l’emergere di soluzioni inaspettate ma altrettanto efficaci che, spesso, nascono proprio dall’impreparazione di chi sperimenta e dalla prospettiva non convenzionale che ne consegue. Del resto in questa pratica, così come nella disciplina scientifica, l’errore non è visto con un’accezione negativa, bensì come un fattore di conoscenza nell’ambito di un processo conoscitivo in divenire.

Sia che a sperimentare sia uno studente o un designer, gli esiti della ricerca sfoceranno in due scenari possibili: il primo – volto a mostrare principalmente il processo di ricerca – coincide con il pezzo unico, l’oggetto manifesto che intende mostrare le potenzialità del materiale attraverso i primi prototipi e campioni, frutto di un’arte che si è tra i pochi alchimisti a conoscere, ma il cui processo di produzione è già intuibile. Poi, se i risultati ottenuti sono promettenti può aprirsi uno scenario successivo, quello della riproducibilità industriale, dove si standardizza il sistema produttivo in modo seriale. Alcune sperimentazioni sul materiale vanno infatti oltre il piacere del “farselo da soli” e hanno caratteristiche di innovazione e sostenibilità per cui vale la pena provare a standardizzarne la produzione.

È proprio quello che è accaduto a Tom van Soest con il suo progetto di tesi, presentato alla Design Academy di Eindhoven nel 2011 e incentrato su una sperimentazione materica volta all’upcycling dei materiali edili. Il suo obiettivo era il recupero dei materiali delle demolizioni: una volta reperiti i materiali di scarto per due anni li ha tritati e processati in un garage, ottenendo dei nuovi mattoni sempre più performanti e mettendo a segno alcune prime collaborazioni con aziende del settore. Nel 2013 Tom van Soest assieme a Ward Massa ha fondato una start-up, che prende il nome dal progetto stesso: StoneCycling. L’azienda oggi offre diverse collezioni di mattoni “Waste Based Bricks” caratterizzate ognuna da colorazioni e texture particolari date dai diversi mix di materiali di partenza. Fino ad arrivare al 2016 quando è stato ultimato il primo edificio costruito con questi mattoni. Ma quando chiediamo a Ward Massa se, ora che sono arrivati a fondare un’azienda, la ricerca resta ancora la parte predominante della loro attività, ci risponde “Certo, siamo una piccola organizzazione, il che ci obbliga a pensare ai prossimi materiali futuri: possiamo esistere solo se continuiamo ad innovare”.

 

StoneCycling. Photo credit: Dim Balsem (www.stonecycling.com)

 

Tom van Soest e Ward Massa di StoneCycling. Photo credit: Dim Balsem (www.stonecycling.com)

 

Quello di StoneCycling non è un esempio isolato, perché il trend dei materiali Do It Yourself è in crescita e consente una nuova possibilità ai designer: la progettazione del materiale stesso. Dal momento che molte sono le ricerche a carattere innovativo e sostenibile in questa direzione, sembra corretto menzionarle tra i banchi di scuola o, perché no, adottare la ricerca sul materiale come metodo didattico per un maggior coinvolgimento emotivo degli studenti nella scelta dei materiali e nella comprensione delle loro potenzialità.

Questo argomento diventa particolarmente importante quando pensiamo che la scelta del materiale necessiti, in un’ottica di progettare per l’economia circolare, di una marcia in più, dal momento che, spesso, la fase di pre-produzione (cioè l’estrazione e la lavorazione della materia prima) e quella di lavorazione (cioè la produzione vera e propria del prodotto) generano il maggior impatto ambientale soprattutto per quei prodotti, ad esempio i mobili, che non richiedono il consumo di risorse per il loro funzionamento.

Lo conferma Carlo Proserpio che lavora nel laboratorio di Design per la Sostenibilità Ambientale del dipartimento di Design del Politecnico di Milano, esperto di Life Cycle Assessment e Life Cycle Design, che sottolinea come tutte le scelte effettuate in fase di progettazione siano determinanti rispetto alle emissioni che il prodotto avrà lungo l’intero ciclo di vita e come la selezione del materiale sia una di queste scelte ma non la sola. In particolare, Proserpio consiglia di scegliere il materiale non in termini relativi (individuando in un range di materiali quello più sostenibile), ma considerando le caratteristiche che il materiale può conferire all’intero ciclo di vita del prodotto, eseguendo o consultando un LCA sul prodotto e definendo su questa base le strategie prioritarie di Life Cycle Design da adottare.

L’aspetto esperienziale legato all’ideazione e manipolazione di nuovi materiali vede oggi maggiori possibilità: i software di analisi del ciclo di vita, le strategie di ecodesign, il coinvolgimento di più persone nella sperimentazione e lo scambio di informazioni sono efficaci strumenti didattici per creare materiali a basso impatto ambientale, garantendo un utilizzo sostenibile delle risorse.  

 

 

Info

www.nuup.it

Immagine in alto: Bioplastiche DIY