Secondo le stime della Water Footprint Network, per una tonnellata di ortaggi, servono in media 300 metri cubi di acqua (300.000 litri); di frutta, 1.000; di cereali, 1.600; di legumi, 4.000. Coi prodotti derivati, ovviamente, va molto peggio: per 1.000 litri di bioetanolo dal mais servono 2,9 milioni di litri di acqua; per una tonnellata di burro, 5,5 milioni di litri; di bistecche di manzo, 15,5 milioni di litri. Poi c’è la guerra per i suoli, la cui forma commerciale è il land grabbing, che secondo Oxfam dal 2008 è decuplicato. Secondo la Fao, almeno il 55% di tutte le terre abitabili sono utilizzate per agricultura e allevamento. 

In questa situazione di scarsità globale di biomasse e di loro fattori di produzione, è cruciale dare risposta alla domanda, posta anche nell’articolo sopra citato: gli scarti agricoli e i rifiuti che nella nostra economia abbondano possono essere sufficienti ad alimentare la bioeconomia e a evitare che la nuova domanda di biomasse che essa genera vada a inasprire i conflitti? Cercheremo qui di seguito di fornire non la risposta – che richiederebbe analisi delle tendenze delle economie e delle prospettive tecnologiche ben al di là delle possibilità di questo articolo – ma alcuni elementi quantitativi essenziali per la ricerca di tale risposta.

A livello globale, secondo i dati di www.materialflows.net, l’uomo “governa” circa 27 miliardi di tonnellate annue di biomasse primarie, coltivate o naturali. Si tratta di circa il 22% dell’estrazione globale di materiali, e – secondo le stime di Haberl et al. relative all’anno 2000 – di circa un quarto di tutti i prodotti che la fotosintesi genera sulla terra.

Questa cifra dà la cornice del flusso complessivo sul quale ragionare, nell’ambito del quale vanno trovati il cibo, i biomateriali (tradizionali e nuovi) e i biofuels. Nel breve periodo, espandere questa cornice appare possibile solo intensificando o estendendo l’attività di coltivazione, due prospettive che aprono problematiche ampie e finiscono presto per cozzare contro diversi dei planetary boundaries già noti ai lettori di questa rivista. Le attività agricole e forestali attraverso le quali l’uomo si appropria della biomassa, e i modi in cui ne stimola la crescita, causano enormi pressioni su aree nelle quali i planetary boundaries sono già stati superati, quali la perdita di biodiversità, le interferenze con i cicli naturali dell’azoto e del fosforo, i cambiamenti climatici.

La prospettiva più interessante, quella in cui bioeconomia e sostenibilità si possono forse sposare, è quindi quella di un uso “multiplo” delle biomasse. La grandissima parte dei residui generati nel prelievo, nella trasformazione o nell’uso finale della biomassa primaria sono infatti idonei a successivi utilizzi e trasformazioni. Questi riutilizzi non ampliano la cornice, ma allungano la vita economica della materia, ritardando il momento in cui i materiali tornano alla Natura, oppure ottimizzano il modo in cui essi vi ritornano. 

Dentro la cornice dei 27 miliardi di tonnellate si dipana un quadro complesso. Il 20% di queste biomasse (5,5 miliardi di tonnellate, di cui 0,7 in Europa) costituisce un sottoprodotto non commercializzabile soprattutto della coltivazione di prodotti adatti all’alimentazione umana (oltre l’80%). Le altre coltivazioni e l’attività forestale generano, per unità di prodotto principale, una quantità di residui decisamente inferiore. Questi residui però sono tutt’altro che inutili, anche se non sono commercializzabili. Se lasciati sul suolo, essi restituiscono alla terra una parte di ciò che le è stato tolto e che serve per produrre nuove biomasse. Lo stesso avviene se la materia organica è restituita al suolo dopo il compostaggio. Tali forme di smaltimento, che permettono di limitare il ricorso a fertilizzanti artificiali e valorizzano (seppur implicitamente) gli scarti, rientrano a buon diritto nel campo della bioeconomia. Laddove invece si pratica il debbio (bruciatura in loco), che nel lungo periodo impoverisce il suolo privandolo della massa organica, o la biomassa di scarto è raccolta senza essere in qualche modo recuperata, la bioeconomia ha senz’altro un ruolo importante da giocare, sia in termini di diffusione delle pratiche virtuose di restituzione al suolo, sia con altre forme, più esplicite, di valorizzazione, quali la produzione di nuovi materiali e combustibili. Purtroppo non sono disponibili statistiche sulla incidenza delle varie modalità di smaltimento dei residui agricoli a livello globale, né è possibile formulare stime attendibili.

Delle 22 miliardi di tonnellate utilizzate – 2,7 miliardi in Europa – 8 sono adatti all’alimentazione umana, 11 sono utilizzati per nutrire gli animali; dalle foreste – vergini e non – vengono prelevati 2,5 miliardi di tonnellate di legname e altri prodotti. Solo una parte di quest’ultimo flusso è ottenuta dall’uomo attingendo ai preziosissimi stock di biomasse naturali (abbattimento delle foreste vergini e pesca eccessiva). Il resto, proviene quasi esclusivamente dalla nuova biomassa che si genera annualmente. Insieme con la bruciatura delle stoppie, quella della legna libera in atmosfera un miliardo di tonnellate di carbonio. Per quanto riguarda gli 8 miliardi di tonnellate di alimenti adatti agli uomini, occorre tenere conto dei “costi” (in termini di sottrazione di materia) della trasformazione, e dello spreco alimentare. Solo quest’ultimo, secondo la Fao, trasforma in rifiuto almeno un terzo delle biomasse adatte all’alimentazione umana. Contando anche quel che residua da trasformazione e consumo senza che ciò costituisca spreco (le parti non edibili degli alimenti), possiamo stimare in almeno 4 miliardi di tonnellate le biomasse che tornano disponibili per eventuali ulteriori utilizzi, dopo il passaggio per la trasformazione industriale e/o il consumo, nella forma di rifiuto. Anche qui, la bioeconomia può intervenire per recuperare questa preziosa materia e alimentare con essa fertilità dei suoli, processi industriali, reti energetiche.

Il resto degli 8 miliardi di tonnellate adatte all’alimentazione umana, una volta ingerito e digerito, condivide con gli 11 miliardi di tonnellate destinati agli animali il destino di diventare in parte emissione in atmosfera (parte del carbonio e dell’idrogeno contenuti negli alimenti viene nel metabolismo animale legata con l’ossigeno respirato o trasformata in metano nella fermentazione enterica), e in parte escremento. Sarebbe utile poter disporre di stime espresse in termini di sostanza secca, o con umidità standardizzata, mentre solo il foraggio (gran parte degli 11 miliardi di tonnellate destinate agli animali) è quantificato normalizzandone il contenuto d’acqua al 15%. Della sostanza secca ingerita, si può comunque dire che il carbonio contenuto nelle emissioni è stimabile intorno al miliardo di tonnellate, e che almeno i quattro quinti di essa tornano disponibili sotto forma di escrementi. Stiamo parlando, in definitiva, di almeno 8 miliardi di tonnellate di sostanza secca. Di nuovo, questa può essere restituita al suolo e/o utilizzata per produrre biogas.

 

 

La situazione italiana

L’Italia, con la sua impronta idrica annuale di 130.000 milioni di metri cubi, della quale il 61% fuori dai confini, con la sua impronta ecologica pari a 3,8 volte la sua biocapacità e numerose imprese che acquisiscono terre oltremare (spesso per produrre biofuels), condivide con buona parte del mondo economicamente forte molte buone ragioni per gestire oculatamente le biomasse che ha a disposizione. Come la maggior parte dei paesi europei, l’Italia è un importatore netto di risorse naturali. Per le risorse rinnovabili, a differenza di quelle non rinnovabili, esiste un possibile trade off fra prelievo interno e importazioni: le biomasse costituiscono nel 2013 il 27,8% dell’estrazione interna di materiali utilizzati e il 13,4% dei flussi dall’estero. Questi coprono circa il 27% del fabbisogno di biomasse del sistema produttivo e dei consumatori del paese. 

I flussi dall’estero appaiono in regolare crescita, mentre i prelievi interni sono in costante diminuzione almeno da un ventennio: è evidente l’effetto sostituzione.

 

Per tutte le biomasse utilizzate, l’estrazione interna tende alla diminuzione: sia quelle destinate alla zootecnia, nel 2013 pari a 46,5 Mt, sia quelle destinabili all’alimentazione umana (56,5 Mt), sia i prelievi dalle foreste (5,5 Mt). All’estrazione interna si sommano le biomasse importate: si tratta di prodotti dell’agricoltura potenzialmente utilizzabili dall’industria agroalimentare e di prodotti di tale industria. Le biomasse prodotte o lavorate in Italia vengono poi, sempre più, esportate: 40 Mt. nel 2013. È evidente il ruolo che va sempre più assumendo il nostro paese negli ultimi venti anni, di trasformatore di biomasse, mentre si assiste a una progressiva rinuncia a quello di produttore primario. Ciò porta con sé una tendenza alla riduzione dei residui agricoli, sui quali molto punta l’industria energetica. 

Sarebbe interessante a questo punto seguire le molteplici filiere dell’utilizzo delle biomasse, per cogliere i rifiuti man mano che ne emergono, e analizzarne i modi in cui sono utilizzati o sprecati. Rimandando a successivi approfondimenti l’esercizio, proviamo qui a formulare un quadro complessivo e seguire alcuni flussi importanti quantitativamente e qualitativamente, tra cui quelli che riportano alla terra la materia da essa ceduta alle piante. Mettendo insieme dati forniti da Istat e Ispra, è possibile definire, seppur con molte approssimazioni, un bilancio complessivo della trasformazione delle biomasse utilizzate nel nostro paese, contabilizzando sia il foraggio sia il letame in termini di sostanza secca. Dal raffronto tra il 1997 e il 2010 emerge chiaramente, oltre all’aumento sui flussi complessivi della quota del commercio estero (importazioni dal 24 al 31%, esportazioni dal 13 al 18%), il ridimensionamento della zootecnia. La sostanza secca contenuta nel letame – prezioso concime – prodotto in Italia, comunque, ammonta ancora almeno a una trentina di milioni di tonnellate.

 

I residui della coltivazione e delle foreste generati in Italia, secondo una stima molto prudente, non comprensiva di parecchie coltivazioni ed espressa in termini di sostanza secca, ricavabile da informazioni pubblicate da Ispra, ammontano a circa 18 milioni di tonnellate. Un terzo di questi materiali sarebbero già utilizzati in vario modo. Secondo una stima più completa e meno prudente, reperibile su www.materialflows.net, espressa in peso “tal quale”, la produzione di residui colturali ammonterebbe a 76 milioni di tonnellate. 

Ispra ci informa anche che la raccolta differenziata della frazione umida nel 2012, con 4,8 milioni di tonnellate, ha rappresentato in Italia il 40% della raccolta differenziata (con un rapporto di 13:1 tra le quantità raccolte pro capite nella regione più virtuosa – l’Emilia Romagna – rispetto all’ultima nella gradatoria, la Calabria). Di questi scarti, la parte verde raccolta separatamente, 1,8 milioni di tonnellate circa, è già presente nelle stime dei residui di coltivazione sopra citate. Vengono invece principalmente dai consumi finali delle famiglie e dalle imprese dei serivizi i circa 3 Mt rimanenti (frazione umida dei rifiuti solidi urbani). Nel 2011 3,5 Mt di rifiuti organici sono stati avviati a trattamento. Altri 0,5 Mt sono stati utilizzati nella digestione anaerobica. Secondo uno studio della SDA Bocconi, la quantità di materiale raccolto potrebbe, estendendo la raccolta differenziata della frazione umida a tutti i comuni italiani (nel 2014 la facevano 4.200 comuni), quasi raddoppiare. Ciò peraltro porterebbe fino a 7,7 Mt di emissioni di CO2 in meno e a un migliaio di occupati e 12 milioni di euro di produzione in più. La conclusione che ne traggono i ricercatori della business school, è che la filiera dell’organico dimostra che l’economia circolare può funzionare. E se lo dicono loro...

 

Bibliografia