Quaranta milioni di cellule e un peso di soli 0,16 grammi per ogni centimetro cubo. Circa il 90% di aria. Sono queste alcune delle caratteristiche che rendono unico ogni singolo tappo di sughero. Un materiale di origine naturale che ha un legame antico con l’uomo, fatto di attesa, di conoscenza, di tradizione. Il sughero, per essere impiegato nella produzione dei tappi, deve “maturare” almeno 43 anni prima di poter avere le caratteristiche chimico fisiche adatte alla chiusura di una bottiglia, relegando al tempo il ruolo di miglioratore. Estratto dalla parte più esterna della corteccia della quercia da sughero (Quercus suber L.) è composto principalmente da suberina, lignina, polisaccaridi, ceroidi e tannini, che lo rendono un materiale impermeabile, estremamente flessibile, elastico e praticamente incorruttibile. Prodotto dal fellogeno, uno strato di cellule che dividendosi creano questa barriera, nella quercia da sughero è in grado di rigenerarsi a ogni decortica e produrre nuova corteccia, o meglio nuovi strati di sughero. Per avere la prima decortica bisogna aspettare che l’albero abbia almeno 25 anni, un’altezza di 1,30 metri e una circonferenza di 0,70 centimetri, mentre le successive si hanno a intervalli di circa nove anni, per dare il tempo alla corteccia di rigenerarsi. Ed ecco che nel rapporto tra la quercia da sughero e l’uomo torna il motivo del tempo, in un tipico detto portoghese che vuole che si pianti “un eucalipto per sé stessi, un pino per i figli e una quercia da sughero per i nipoti”. Una quercia da sughero può infatti sopravvivere per due secoli, un’eredità assicurata per le generazioni future.

 

 

L’industria del sughero tra tradizione e innovazione

La quercia da sughero cresce spontanea nel bacino del Mediterraneo, in particolare in Portogallo, Spagna, Marocco, Algeria e Tunisia. Senza scordare il sud della Francia, la costa occidentale italiana, la Sardegna e la Sicilia. La superficie totale occupata dalle sugherete è di circa 1,44 milioni di ettari in Europa – di cui la metà si trova nella penisola iberica – e 700.000 ettari nel Nord Africa. Il Portogallo è la terra del sughero, con oltre 730.000 ettari, concentrati per lo più nell’area geografica dell’Alentejo. “Oggi il Portogallo produce circa la metà del sughero mondiale, ma la densità media è di sole 50 piante per ettaro, in una propagazione che è spontanea”, spiega Carlos Veloso dos Santos, direttore generale di Amorim Cork Italia, filiale del grande gruppo portoghese tra i leader del mercato delle chiusure in sughero. 

Non esiste una coltivazione del sughero così come la si può immaginare per altre specie arboree impiegate in silvicultura, almeno fino a oggi. E di conseguenza la produzione è legata ai cicli naturali delle piante. Si è scoperto però, quasi per caso, che una quercia da sughero irrigata costantemente con il sistema a goccia, può diventare adulta in soli otto anni, invece che 25. “Ciò significa che la prima decortica può avvenire già a otto anni, e di conseguenza il sughero adatto per la produzione di tappi lo si ha in 21 anni, invece che 43”, spiega Carlos Veloso dos Santos. “Vorrebbe dire che in circa 50.000 ettari si potranno avere circa 30 milioni di piante nuove, il che farebbe incrementare la produzione del 30%”. Incremento che porterebbe un giovamento non solo all’occupazione, che vede oggi impiegati già 9.000 addetti, ma anche al territorio lusitano, sempre più soggetto a desertificazione e a devastanti incendi: dopo un incendio i rami della quercia da sughero, protetti da questo materiale, rimangono vivi e capaci di far ricrescere rapidamente nuovi germogli e la chioma dell’albero, a differenza delle altre specie arboree.

 

 

Il sughero, sostenibile per natura

Negli anni, soprattutto nel settore vitivinicolo, si è sviluppato un nuovo mercato delle chiusure, specializzato nell’utilizzo di alluminio (le chiusure a vite) e di polimeri plastici. Ma se si va ad analizzare l’intero ciclo di vita (Lca, Life cycle assestment) dei materiali, dall’estrazione delle materie prime, alla lavorazione, fino al fine vita, il sughero è ancora oggi la soluzione che offre il minor impatto ambientale. Secondo i risultati di uno studio effettuato da Pricewaterhouse Coopers ed Ecobilan e patrocinato da Amorim, un tappo di plastica, quindi proveniente da fonte fossile e non rinnovabile, fa registrare livelli di emissioni di gas ad effetto serra 10 volte maggiori di quelli del sughero, mentre per quanto riguarda l’alluminio i valori risultano più grandi di ben 26 volte. Lo studio inoltre mostra come il tappo di sughero sia la migliore alternativa in termini di consumo di energia non rinnovabile, di contributo alle emissioni di CO2 e all’eutrofizzazione delle acque superficiali, nell’acidificazione dell’atmosfera (con produzione di ossidi di azoto e biossido di zolfo) e infine nella produzione di rifiuti. Solo per quanto riguarda i consumi idrici, l’alluminio è meno impattante, seguito dal sughero e infine dalla plastica. Senza contare il fine vita: il sughero è un materiale naturale, biodegradabile in natura. Plastica e alluminio devono essere correttamente raccolti per essere avviati, nella migliore delle ipotesi, a riciclo.

 

Esiste poi un valore assoluto che assume un’importanza sostanziale, soprattutto nell’epoca in cui viviamo: la capacità di stoccaggio di CO2 da parte della biomassa vegetale. Ciò significa che la quercia da sughero, durante la crescita, assimila anidride carbonica, trattenendo il carbonio durante tutto il ciclo di vita. Si stima che il sughero lavorato continui a trattenere circa 1,7 grammi di carbonio per tappo, o l’equivalente di 6,2 grammi di CO2. Secondo Filipe Costa y Silva, dell’Istituto superiore di agronomia portoghese (Isa), “in un’estensione di sugherete della regione centrale del Portogallo avente una buona produttività, per ciascuna tonnellata di sughero estratto, può essere catturata dalla foresta una quantità di carbonio equivalente a 73 tonnellate di CO2”.

 

La questione TCA

Il TCA (2,4,6-tricloroanisolo) è un composto chimico naturalmente presente in natura, nel legno, nel vino, nell’acqua, nel suolo, negli ortaggi, nella frutta e anche nel sughero. Questo composto è uno dei principali fattori responsabili del problema legato alle muffe che si possono sviluppare nel sughero e dare al vino il cosiddetto “sapore di tappo”. L’industria del sughero ha lavorato duramente per ridurre la presenza di questo composto, arrivando oggi a garantire la quasi totalità dei tappi prodotti. “Oggi ad esempio col sistema NDtech siamo in grado di analizzare un singolo tappo ogni dieci secondi, per arrivare ad un potenziale di 125 milioni di tappi garantiti all’anno”, spiega Carlos Veloso dos Santos. “Contando che nel mondo si producono 150 milioni di bottiglie di vino di alta gamma, vogliamo arrivare a stappare un potenziale di 125 milioni di bottiglie, entro il 2020, garantite”. Questo però è un metodo dedicato ai tappi di alta gamma. Cosa accade per gli altri? “Amorim – continua Carlos Veloso dos Santos – ha messo in piedi un progetto per eradicare completamente il TCA nei nostri prodotti entro il 2020. Saremo così in grado di garantire che il 99% dei nostri tappi non avrà TCA rintracciabile e solo l’1% con 1 nanogrammo al massimo. Il che significa che quel vino avrà una probabilità pari a zero di essere alterato”.

 

 

 

Le alternative sul mercato

Nel mondo oggi solo il 15% della plastica viene raccolta e avviata a riciclo. Va meglio in Europa, dove si toccano tassi di riciclo del 30%, ma globalmente più della metà della plastica finisce in discarica, mentre il 25% viene avviata a recupero energetico. Di fronte a questi numeri, molte aziende stanno lavorando, anche con successo, nel trovare alternative per sostituire i polimeri plastici provenienti da fonti fossili con quelli derivati da fonti rinnovabili, come le biomasse. Anche nel mondo delle chiusure per il vino è accaduto e oggi esiste sul mercato una cospicua offerta di tappi in bioplastica, realizzati a partire dall’etanolo prodotto dalla canna da zucchero. Negli anni però una folta letteratura scientifica ha dimostrato che il costante aumento delle aree agricole sottoposte alla coltura intensiva di canna da zucchero ha prodotto seri danni ambientali. Secondo un rapporto dell’istituto Evidence and Lessons from Latin America (ELLA), che lavora per sviluppare piani di sviluppo e cooperazione nel Sud America, Asia e Africa, “l’espansione della canna da zucchero in Brasile si è dimostrata insostenibile a causa della mancanza di conoscenza della biodiversità e di leggi severe per proteggerla. Ricercatori come Martinelli, Smeets, Bernard e Almeida, tra gli altri, specialmente in Brasile, hanno dimostrato che gli impatti ambientali associati alla produzione di etanolo in Brasile sono stati importanti ostacoli alla produzione sostenibile dei biocarburanti”. Anche associazioni ambientaliste come il Wwf riportano come la produzione di canna da zucchero produca “impatti ambientali attraverso la perdita di habitat naturali, l’uso intensivo di acqua, l’uso pesante di prodotti chimici agricoli, lo scarico e il deflusso di effluenti inquinati e l’inquinamento atmosferico”, con evidenti danni per la fauna selvatica, il suolo, e per interi ecosistemi. Non solo, spesso l’intera filiera racconta storie di sfruttamento e di condizioni di lavoro al limite del rispetto dei diritti umani. In un recente rapporto pubblicato dall’associazione Mani Tese emergono “rapporti di lavoro non contrattualizzati e sommersi, salari al di sotto dei minimi legali, negazione di diritti sindacali, sfruttamento di lavoro minorile e dinamiche di land grabbing con impatti fortemente negativi sulla salute e l’ambiente”. Dimostrando che l’etanolo prodotto a queste condizioni è tutt’altro che sostenibile e scevro da impatti ambientali e sociali.