Se ogni appassionato delle attività all’aria aperta utilizzasse la propria giacca, pantalone o baselayer per una stagione o due in più, in quell’arco di tempo verrebbe compensato un terzo dell’impronta ecologica della produzione di un nuovo capo. Ma riparare va ben oltre la “sola” riduzione dell’impronta ecologica. Si tratta infatti di una disciplina che richiede una considerevole competenza, esperienza e conoscenza della manifattura e del prodotto, e lungimiranza nella progettazione.

Ciascun capo di abbigliamento outdoor ci racconta una storia. Storie di avventure, successi e disavventure. Storie di viaggi, amicizie e esperienze di una vita. Giacche, pantaloni, cappelli e zaini sono “complici”, proteggono l’indispensabile dalle avversità, e a volte possono anche salvare vite.
Talvolta però le avventure possono lasciare il segno su chi le vive, e ancor di più sulle loro attrezzature. E allora?
Abbandonare un capo di abbigliamento outdoor danneggiato non è facile. Sbarazzarsi di tutti i ricordi che sono legati a quel capo? Quasi impossibile: dopotutto la nostalgia è uno dei sentimenti più forti che provano gli esseri umani, o così si dice.

Durata, riparazione e impronta ecologica

Sbarazzarsi di un capo di abbigliamento outdoor vissuto e funzionale non è solamente una decisione difficile dal punto di vista emotivo, ma è anche un atto di rassegnazione e una lezione di umiltà, perché molti di noi non sono più in grado di riparare i propri abiti. Si tratta di una decisione che ha costi economici e ambientali significativi: l’industria dell’abbigliamento emette annualmente circa 2,1 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra (dati del 2018). Visto che ogni anno a livello globale vengono prodotti circa 80 miliardi di capi di abbigliamento, ne risulta che ciascun capo emette almeno 26,2 chilogrammi di gas a effetto serra solo per raggiungere il consumatore. Dato che l’industria dell’abbigliamento outdoor tende a utilizzare materiali che necessitano di una maggiore quantità di risorse (pur essendo di qualità migliore), si tratta probabilmente di una stima per difetto.
Prolungare la vita dei capi anche solo di nove mesi di utilizzo attivo, o dell’equivalente di una o due stagioni di utilizzo, ridurrebbe di circa il 20-30% l’impronta costituita dalla quantità totale di carbonio emesso, dai rifiuti prodotti e dall’acqua utilizzata, dato molto rilevante per un’industria, come quella dell’outdoor, che produce beni durevoli. In altre parole, se ogni amante delle attività all’aria aperta utilizzasse la propria giacca, pantalone o baselayer per una stagione o due in più, in quell’arco di tempo compenserebbe un terzo dell’impronta ecologica della produzione di un nuovo capo. Una quantità davvero notevole dato che si tratta di estendere solo di alcuni mesi la durata dei capi.
Ma non è finita. Alcuni capi di abbigliamento outdoor non arrivano mai al consumatore per tutta una serie di ragioni, tra cui le principali sono probabilmente i problemi legati alla qualità e le
scorte invendute. Le ricerche mostrano infatti che l’82% dei prodotti classificati dai marchi come scarti potrebbero essere rinnovati e conseguentemente (ri)venduti.
Pertanto, fare in modo che che una parte significativa di questi
capi di seconda scelta leggermente danneggiati (il 36% del totale) raggiunga un utilizzatore porterebbe molto probabilmente a risparmiare grandi quantità di carbonio, rifiuti e acqua. I dati mostrano infatti che basterebbe solo un piccolo intervento per rendere di nuovo utilizzabili i capi di seconda scelta: il 26% necessita solamente di essere pulito o smacchiato, il 21% ha un buco da riparare, il 9% uno strappo da cucire e il 7,5% una cerniera da sostituire.
Nell’industria dell’outdoor è però in atto un processo lento ma costante che si può definire niente di meno che una rivoluzione.

Mantenere in uso: una rivoluzione in corso

Progettazione e utilizzo, azienda e consumatore. Due fasi distinte, due soggetti distinti che impattano sulla longevità dei capi di abbigliamento. L’azienda progetta i prodotti affinché siano durevoli e riparabili e può offrire strumenti, istruzioni e servizi per prolungarne la vita. Gli utilizzatori mettono alla prova un articolo, vi lasciano i segni delle proprie avventure e fanno buon uso di istruzioni, strumenti e servizi per far durare i propri capi. Senza dubbio due protagonisti strettamente legati fra di loro, ma è l’azienda a dover fare il primo passo per far sì che l’utilizzatore si senta in grado di avventurarsi al di là delle sicurezze offerte dal proprio equipaggiamento abituale. La tabella presenta una panoramica dei diversi strumenti e iniziative di designer e marchi outdoor che sono alla guida di questa ricerca volta a far durare le “cose”.

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Artigiani al lavoro: laboratori per la riparazione in-house

I laboratori interni alle aziende per le riparazioni dei capi erano probabilmente uno dei segreti meglio conservati dell’industria dell’outdoor, e per buone ragioni: storicamente costituivano un’evoluzione del reparto campionario dell’azienda, il luogo nel quale nascevano progetti e tecniche innovative. Gli esperti nella produzione di campioni erano pochi e difficili da trovare sul mercato, e quelli in grado di gestire il livello di qualità e i tessuti propri del campo dell’outdoor erano ancora di meno. Nel corso degli anni queste figure sono diventate ancora più rare.
Il segreto è stato mantenuto così bene che mentre quasi tutti i marchi outdoor avevano un proprio bagaglio di competenze interne in questo campo, al di fuori dell’azienda se ne parlava poco e gli utilizzatori esterni ne erano ancor meno consapevoli. Nonostante questa mancanza di pubblicità, i tempi per la restituzione di un articolo mandato in riparazione potevano essere di settimane.
Tutto ciò sta lentamente cambiando, e
sempre più aziende stanno rendendo pubbliche le proprie competenze (elencate per tipo di prodotto e in ordine alfabetico):
Abbigliamento: Alpkit, Arc’teryx, Bergans of Norway, Berghaus, Fjallraven, Hagloefs, Houdini, Lundhags, Mammut, Orthovox, Patagonia, Picture Organic, Rab, Rotauf, Salewa, Vaude.
Attrezzatura: Alpkit, Exped, Hilleman, Patagonia, Vaude.
Calzature: Aku, Hanwag, Lowa, Lundhags, Meindl.

Allo stesso tempo il reparto riparazione e campionario costituisce per un marchio il primo feedback per la qualità dei prodotti. Dopo tutto è qui che arrivano i capi che vengono restituiti all’azienda durante il periodo di garanzia.
Il marchio
Patagonia ha fatto fare un passo ulteriore con il progetto del furgone Worn Wear, grazie al quale il laboratorio di riparazione si è trasferito anche all’aperto: nei festival, nelle fiere, in occasione di gare e competizioni. Nel furgone si riparano capi di tutti i tipi, indipendentemente dalla marca, e si permette alle persone di assistere dal vivo al processo di riparazione. La riparazione dei capi si è così trasformata in una dimostrazione pratica di abilità manuali.

Aiutare ad aiutarsi: mettere in grado di riparare

In un mondo globalizzato, tuttavia, il laboratorio di riparazione interno a un’azienda non sarà mai sufficiente a prolungare la vita utile delle enormi quantità di capi in circolazione, anche senza tener conto di “dettagli” quali i confini o le regole dell’import/export. Alcuni articoli, in particolare i prodotti di maglieria come i baselayer, non rientrano poi nell’orizzonte dei laboratori in-house, perché richiedono competenze completamente diverse.
Si può allora accedere a piattaforme come
iFixit, Repair Cafe Movement, e naturalmente Youtube, Vimeo e simili. Insieme alle conoscenze condivise dagli appassionati entusiasti dell’outdoor e di alcuni dei marchi più lungimiranti e dei designer più abili, è finalmente disponibile un programma di “aiuto per l’auto-aiuto”. iFixit è un sito basato su wiki che insegna come riparare praticamente qualsiasi cosa. Chiunque può creare un manuale di riparazione per un prodotto e chiunque può anche revisionare i manuali già esistenti per migliorarli. Il sito dà alle persone la possibilità di condividere le proprie conoscenze tecniche con il resto del mondo, e sia Patagonia sia VAUDE l’hanno utilizzato per creare i propri manuali, come anche i pezzi di ricambio da mettere a disposizione della comunità di entusiasti della riparazione dei capi outdoor.

Ci sono poi marchi come Exped o il marchio specializzato in maglieria Collingwood-Norris, che saltano semplicemente l’intermediario e mettono a disposizione sui propri siti e social media le istruzioni per la riparazione, non solo per i propri clienti ma a chiunque sia interessato.
Imparare a rammendare è una competenza estremamente utile quando si tratta di prendersi cura dei propri vestiti”, dichiara Flora Collingwood-Norris, esperta in maglieria e riparazioni creative visibili presso Collingwood-Norris Design. “Se un buco viene preso in tempo quando è piccolo l’area danneggiata non si ingrandisce, e questo fa una grande differenza nel lungo termine sui tempi necessari alla riparazione. Il punto doppio (anche chiamato ‘rammendo svizzero’) è una tecnica particolarmente utile da apprendere per riparare la maglieria, ed è frequentemente utilizzata per i baselayer. È particolarmente adatto a rinforzare aree che si sono assottigliate con l’uso, e a riparare piccoli buchi. Aggiustare i propri vestiti e prendersene cura dà molta soddisfazione, è un’opportunità unica per esprimere la propria creatività e il proprio gusto in modo inaspettato”.
Ancora più affascinanti sono
le riparazioni visibili, che mostrano esplicitamente e in modo esteticamente gradevole che un articolo è stato riparato, e che non solo iniziano a essere accettate, ma stanno diventando un modo di dimostrare di possedere capacità pratiche e senso estetico.

Riparabilità: progettato per poter essere riparato

Nel novembre 2020 il Parlamento Europeo ha scritto un capitolo di storia votando a favore del Diritto dei Consumatori alla Riparazione (395 voti a favore, 94 contro, 207 astenuti). Si tratta di un messaggio chiaro: la durata e l’obsolescenza prematura sono aspetti che devono essere affrontati a livello di Unione Europea. Quindi senza dubbio il design di un prodotto in vista della sua riparabilità è una delle aree chiave di innovazione per i marchi, inclusi quelli dell’industria outdoor. Introducendo un proprio Indice di Riparabilità la VAUDE si è portata avanti già prima dello storico voto del Parlamento Europeo. “L’Indice di Riparabilità garantisce ai nostri clienti che per VAUDE la riparabilità non è un caso, ma fa parte integrante del processo di sviluppo di ciascun singolo prodotto” ha dichiarato a Materia Rinnovabile Hilke Patzwall, CSR Manager della VAUDE.
Il suo Indice di Riparabilità resta però uno strumento a uso interno con l’obiettivo di offrire validi criteri decisionali sia per i designer sia per i product manager, e di far sì che la riparabilità non sia casuale, ma che venga tenuta in considerazione nello sviluppo di ciascun prodotto. Per quanto riguarda la questione della sostenibilità, la sfida consiste nel trovare un equilibrio tra funzionalità, l’innovazione, design e redditività. L’indice è un ulteriore ingrediente di questo impegno.

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Non sprecare, non volere

I capi restituiti dai clienti e quelli di “seconda scelta” (ossia i prodotti che presentano piccoli difetti) sono una realtà in tutta l’industria di produzione di beni di consumo di cui quasi non si parla. L’industria dell’outdoor non fa eccezione.
Quello che stupisce nell’industria dell’abbigliamento outdoor è la quantità di capi che potrebbero essere resi nuovamente utilizzabili con interventi minimi: uno strappo netto rispetto alla prassi oggi prevalente di mandare questi articoli direttamente in inceneritore o in discarica.
Il
Renewal Workshop ha fatto da apripista nel trovare una soluzione a questo problema, oltre a rivelarsi remunerativo: ha infatti unito il “rinnovamento”, ossia la possibilità di aggiustare tutte le piccole cose che necessitano di riparazione, a un sistema di e-commerce per trovare ai capi riparati il loro primo proprietario.
Questo approccio si è dimostrato vincente, ed è risultato da un lato nella collaborazione tra un’ampia gamma di marchi, dall’altro nella nascita, nella primavera del 2020, di una seconda unità di “rinnovamento” ad Amsterdam, cosa che ha reso accessibile il servizio di riparazione anche al mercato europeo. Tra i marchi con cui è nata una
collaborazione ci sono The North Face (con la linea North Face Renewed), Eagle Creek, Osprey e Pearl iZUMi.
I dati continuano a confermare la validità del progetto: al momento della stesura di questo articolo erano già stati
salvati dalle discariche poco più di 150.000 chilogrammi di capi: una cifra significativa per quella che è un’azienda molto giovane con uno staff abbastanza ridotto, ma con una visione importante e convincente.

Per approfondire, scarica e leggi il numero 35 di Materia Rinnovabile.