Nella notte di lunedì 7 agosto un fascio di luce ha squarciato per quasi un minuto il cielo sopra Melbourne, in Australia. Nonostante il successivo boato, pare che quella “stella cadente” non fosse né una meteora né un bolide. Secondo l’Agenzia Spaziale Australiana il bagliore derivava probabilmente dai resti infuocati di un razzo russo Soyuz-2 rientrante nell'atmosfera terrestre. Insomma, space junk. Spazzatura.

“D’ora in poi nel novero delle mie paure c’è pure il rischio che i rifiuti spaziali mi atterrino sul tetto di casa”, si leggeva qualche ora dopo in un commento su Twitter-X. Sarcasmo che, tuttavia, offre il pretesto per ricordare come intorno alla Terra orbitino decine di migliaia di detriti spaziali. Oggetti artificiali obsoleti o non più funzionanti ‒ inclusi frammenti ed elementi di essi, a rigor di definizione – che più delle nostre teste mettono in pericolo sonde e satelliti ancora attivi.

È la cosiddetta sindrome di Kessler, scenario proposto nel 1978 dall’omonimo consulente della NASA. Quando a causa dell’inquinamento spaziale si raggiunge una certa densità di oggetti nell’orbita terrestre bassa (300-2000 km di altitudine) le collisioni tra oggetti possono generare detriti e frammenti che aumentano a cascata la probabilità di ulteriori impatti. E così via. Un rischio che si sta cercando di prevenire e mitigare in vari modi: dal diritto spaziale alle missioni per recuperare i detriti per mezzo di bracci robotici.

Lo spazio (utile) è una risorsa finita

A giugno 2023, stando a dati dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), il catalogo della Space Surveillance Networks contava circa 34.310 oggetti costantemente monitorati. Del resto, dall’inizio dell’era spaziale, dei 15.700 satelliti messi in orbita solo 10.550 sono ancora nello spazio. Di questi, circa 8.300 sono attivi.

Senza queste infrastrutture la società moderna non sarebbe come la conosciamo oggi. Grazie ai satelliti disponiamo di sistemi di navigazione come il GPS e reti di telecomunicazione globale. Per non parlare dello studio del pianeta, della possibilità di raccogliere dati e informazioni necessarie alle autorità di protezione civile in caso di calamità naturali o di applicazioni meno note come la sincronizzazione delle piattaforme di trading.

“Lo spazio generalmente ci viene descritto come vasto. In realtà, ai nostri fini possiamo considerarla una risorsa finita. Così come nei parchi nazionali pochi sentieri contano la maggior parte delle persone e dei rifiuti, così ci sono regimi orbitali più attraenti di altri. Per esempio, l'orbita geostazionaria e l’orbita bassa sono quelle dove troviamo gran parte dei satelliti e dei detriti”, spiega a Materia Rinnovabile Tim Flohrer, Head of the Space Debris Office dell’Agenzia spaziale europea.

“I detriti spaziali mettono a rischio sia queste infrastrutture che la loro disponibilità. In particolare, possiamo osservare due andamenti. Innanzitutto, è in corso una rivoluzione nello spazio per quanto riguarda la commercializzazione del traffico di lancio, in particolare verso l'orbita terrestre bassa. Lanciamo 2.000 satelliti all'anno, quando fino a pochi anni fa erano 2.000 in tutto quelli operativi”, continua Floher.
“La seconda tendenza è il rischio di aumento dei frammenti. Si tratta di piccoli pezzi di detriti che non hanno più alcuna utilità e che derivano da eventi di frammentazione, come collisioni o esplosioni. Alcune di questi eventi, in passato, sono stati purtroppo drammatici. Hanno creato migliaia di detriti. Un singolo frammento spaziale di uno o pochi centimetri, grazie alle elevate velocità che si raggiungono in orbita, ha abbastanza energia per distruggere l'intero satellite. Questa è purtroppo la situazione che ci troviamo ad affrontare.”

Dalla mitigazione alle bonifiche spaziali di ClearSpace

Ci sono diverse possibilità per mitigare la creazione di nuovi detriti e bonificare l'ambiente spaziale. Oltre a ridurre i nuovi lanci e progettare satelliti il più possibile resistenti, si può influire sul tempo di permanenza in orbita utile, prevedendo un rientro in atmosfera o posizionando i satelliti su orbite meno affollate, lasciandoli galleggiare nelle cosiddette “orbite cimitero”. Si possono poi eliminare le fonti di energia residue che possono causare esplosioni o posizionare coperture che impediscano la frammentazione.

Tuttavia, secondo l’ESA Space Environment Report 2022, la conformità non è al punto in cui dovrebbe essere. “Solo il 40-50% dei satelliti a fine vita si adeguano a queste misure. E non è sufficiente. Abbiamo bisogno almeno del 90%. La mitigazione è la nostra priorità, ma dove non sarà possibile entrano in gioco le tecnologie per una loro rimozione”, conclude Flohrer.

Ed è stata la svizzera ClearSpace nel 2019 ad aggiudicarsi un contratto con l’ESA per preparare la prima dimostrazione sul campo. Il 9 maggio 2023 ClearSpace e Arianespace hanno firmato un contratto per il lancio di ClearSpace-1, missione di rimozione attiva dei detriti che catturerà e deorbiterà in atmosfera un oggetto di oltre 100 kg.

“Quando abbiamo iniziato eravamo agnostici in fatto di tecnologia. Non ci importava se si trattasse di un kit orbitante preinstallato o di una vela di trascinamento. Poi siamo giunti alla conclusione che la soluzione migliore è quella che abbiamo sviluppato”, racconta alla nostra rivista Luc Piguet, CEO e fondatore di ClearSpace. “In sintesi, entriamo in contatto con l'oggetto, e con un sistema robotico installato a bordo lo raccogliamo. Partiamo da masse di 60-80 kg ma nel lungo periodo puntiamo a rimuovere satelliti di alcune tonnellate. Ad oggi gli oggetti più problematici in orbita sono quelli di grandi dimensioni.”

Ecodesign e altre tecnologie: il caso Astroscale

I futuri satelliti dovranno essere progettati per la loro rimozione. “La nostra linea di business per la fine del ciclo di vita ha sviluppato Docking Plate, una piastra da posizionare sul satellite prima del lancio. Questa ci permette di agganciare magneticamente il satellite per rimuovere i detriti. Ciò fa risparmiare ovviamente sui costi di sviluppo, oltre a essere più efficiente”, dice Morgane Lecas Senior business analysist di Astroscale, società privata con oltre 400 dipendenti con sede in Giappone e filiali nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Israele e a Singapore.

Oltre alla ricerca per servizi di riparazione e upgrading di satelliti, Astroscale, in competizione con ClearSpace, sta sviluppando una nuova tecnologia di cattura anche per veicoli spaziali destinata alla missione Cosmic. La missione, finanziata dalla UK Space Agency, intende rimuovere nel 2026 due satelliti defunti di proprietà del Regno Unito, lanciati negli anni Novanta. Se Astroscale sarà selezionata, nel 2026 vedrà la propria navicella per la rimozione dei detriti, dotata di una versione leggera del braccio robotico della Stazione spaziale internazionale, afferrare i satelliti e trascinarli a un’orbita più bassa.

Il diritto spaziale  

Di chi è la responsabilità in caso di collisione di satelliti e frammenti, non solo nello spazio ma anche sulla Terra? Chi decide i criteri di progettazione? Come si stabilisce la proprietà di un frammento? È il diritto (spaziale) internazionale a deciderlo. Ma non è un’impresa facile.

“Ci sono cinque trattati spaziali internazionali. Quello principale è l’Outer Space Treaty, il trattato sullo spazio extra-atmosferico, sottoscritto da oltre 110 Stati. Sempre ben riconosciuta, vincolante e a determinate condizioni anche con forza di norma consuetudinaria è la Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni cagionati da oggetti spaziali. Ci sono poi la Convenzione sull'immatricolazione degli oggetti lanciati nello spazio extra-atmosferico e il Rescue Agreement che riguarda soprattutto il rientro in atmosfera di astronauti e oggetti. Infine, ratificato da pochi Paesi e comunque senza Usa, Cina, Russia e India è il Moon Agreement”, spiega Dimitra Stefoudi, dottoranda presso l’International Institute of Air and Space Law della Leiden University.

A queste, sottolinea Stefoudi, bisogna aggiungere poi tutti quegli standard e linee guida non vincolanti in materia di detriti spaziali, tra cui l’Inter-Agency Space Debris Coordination Committee e il Comitato delle Nazioni Unite per l'uso pacifico dello spazio. “Questi documenti sono piuttosto semplici. Propongono metodi per progettare e gestire le missioni spaziali in modo da non provocare detriti, assicurarsi che l'oggetto spaziale non esploda nello spazio, monitorare sempre la sua rotta. Si tratta quindi di misure piuttosto tecniche.”

A livello nazionale alcuni Stati hanno inoltre introdotto precise linee guida obbligatorie da rispettare per ottenere le licenze. “Per dare un'idea di un Paese che al momento ha le regole più severe in termini di mitigazione dei detriti è la Francia. Nel febbraio 2022 ha emesso due decreti che modificano la legge spaziale nazionale e richiedono una meticolosa valutazione del rischio di detriti e delle linee guida di mitigazione per le missioni che saranno autorizzate”, aggiunge Stefoudi.

Oltre al diritto, in materia di detriti spaziali e tecnologie restano però molti interrogativi aperti, come riassume Luc Piguet: “Il primo problema da risolvere è come si raccoglie qualcosa. Nello spazio non c'è alcuna forma di cooperazione e questa è già una sfida molto grande. Una volta raccolto, da lì dove si naviga, come si ottimizza l'equazione del propellente? Come si può riunire il materiale per riciclarlo? La riparazione si può fare in situ o solo in una fase successiva? Ma essere in grado di riciclare e riparare significa che il satellite è stato progettato per questo. La domanda è quindi: come si costruisce un modello di business per massimizzare il valore?”.

Immagine: Richard Bartz, Pexels