Il 2019 è stato un anno di boom per l’installazione di impianti fotovoltaici in Europa. A dicembre l’UE ha raggiunto quasi i 132 GW di potenza installata, con un incremento del 14% sull’anno precedente. Solo in Italia siamo arrivati a circa 21 GW, che vuol dire oltre 880mila impianti attivi in tutto il Paese.
Ma cosa succede ai pannelli solari a fine vita? Sul riciclo dei rifiuti fotovoltaici lavora il settore Ricerca & Sviluppo di Enea, che ha da poco brevettato un nuovo processo a basso consumo energetico messo a punto dall’ingegner Marco Tammaro. Il metodo consentirà di recuperare tutti i componenti dei pannelli solari a silicio cristallino, compresi gli strati di polimeri che fino ad ora venivano “sacrificati” in processi ad alte temperature.

Rifiuti fotovoltaici, una miniera da sfruttare

“L’aumento esponenziale dei rifiuti costituiti dai pannelli fotovoltaici a fine vita ha reso estremamente urgente affrontare il problema della loro gestione, anche a fronte delle leggi nazionali ed europee che impongono regole severe”, osserva Marco Tammaro, responsabile del Laboratorio Tecnologie per il Riuso, il Riciclo, il Recupero e la valorizzazione di Rifiuti e Materiali e inventore del brevetto insieme all’imprenditrice Patrizia Migliaccio.
L’
età media dei pannelli solari va dai 20 ai 30 anni e questa variabilità ha una spiegazione legata al mercato più che alla reale obsolescenza della tecnologia. “I materiali in realtà non invecchiano e il silicio mantiene intatte le sue proprietà. - spiega Tammaro - Quello che invecchia è lo strato superficiale in materiali plastici, che ingiallisce, diminuendo così l'efficienza dell’impianto. Dal momento che oggi i pannelli in silicio cristallino, che sono i più diffusi, hanno prezzi relativamente bassi, a conti fatti, invece di sostituire i pezzi, conviene cambiare l’intero pannello già dopo 20 anni invece di arrivare fino a 30”.
Considerando una durata media di 25 anni, si possono fare delle stime sulla quantità di rifiuti fotovoltaici che ci saranno da gestire nel prossimo futuro. “Sapendo che ogni MW di potenza installata produce 80 tonnellate di rifiuti (che rientrano comunque nella categoria RAEE) e considerando che in Italia abbiamo cominciato a installare sistematicamente nel 2005, si calcola che raggiungeremo un milione di tonnellate di rifiuti fotovoltaici nel 2030”. A livello globale, ha invece fatto i conti lIrena in un report pubblicato nel 2016: entro il 2050, stimano i tecnici della International Renewable Energy Agency, la quantità di rifiuti generati dalla dismissione di pannelli solari potrebbe arrivare a 78 milioni di tonnellate. Che, tradotto in termini economici, significa 15 miliardi di dollari di materiali da recuperare. Già, perché gli impianti fotovoltaici sono una miniera di materiali preziosi e riciclabili. “Circa il 70% è vetro, il 15% alluminio e poi, oltre al silicio, ci sono piccole percentuali di rame, argento e altri metalli”, precisa Tammaro.

Il recupero critico del silicio

Il silicio, in particolare, è una di quelle “materie prime critiche” a cui la Commissione Europea ha di recente dedicato uno specifico piano d’azione, il cui scopo principale è di rafforzare l’approvvigionamento interno alla UE attraverso processi di economia circolare. Attualmente, però, su un mero piano di mercato, il riciclo del silicio non è ancora molto appetibile. “Si tratta di un processo di recupero laborioso – spiega Tammaro – perché il silicio contenuto nella cella fotovoltaica non è puro, ma, come si dice in gergo, è ‘drogato’ da additivi chimici e sopra ha dei circuiti di rame stampati. Per liberarlo, si deve dunque ricorrere a processi di idromettallurgia, il cui costo al momento è più o meno uguale a quello necessario per estrarre la materia prima vergine. Essendo però un materiale critico, il suo recupero potrebbe diventare fondamentale nel prossimo futuro”.

Un processo a basso consumo energetico

La novità del processo brevettato da Marco Tammaro ed Enea sono le temperature relativamente basse a cui avviene. Temperatura poco elevata significa innanzitutto un minimo dispendio energetico e quindi un basso impatto ambientale. Ma non solo. “Le temperature basse – spiega Tammaro - fanno sì che non ci sia degradazione termica, contenendo le emissioni in atmosfera, cosa che renderà più semplice ottenere le autorizzazioni per costruire eventuali impianti di trattamento. Inoltre, in questo modo non c’è degradazione della plastica e si possono così recuperare anche i materiali polimerici contenuti nel pannello”.
L’invenzione parte dalla struttura a strati dei moduli cristallini: uno strato di vetro protettivo, poi un sottile rivestimento di materiale polimerico, l’Etilene Vinil Acetato (EVA), quindi le celle di silicio, contatti elettrici in metallo, un secondo strato di EVA e una superficie posteriore di supporto, generalmente in polivinifluoruro (PVF); il tutto racchiuso in una cornice in alluminio. Per recuperare i componenti è dunque necessario “slegarli” dal materiale polimerico, che fa da collante tra i vari strati, attraverso un trattamento termico mirato. L’idea è allora di sfruttare il “rammollimento” degli strati polimerici per strappare letteralmente le varie parti del pannello, in modo da poter poi recuperare i contatti elettrici, le celle, il 100% del vetro, il foglio backsheet (in PVF) e lo strato di EVA.
Al momento il processo è allo stadio brevetto. “I passi successivi saranno la costruzione di un prototipo, l’ingegnerizzazione e l’industrializzazione. Ora però – conclude Tammaro - dobbiamo trovare i finanziamenti”.