Nel 1924 l’espressione “obsolescenza programmata” non esisteva ancora, ma il fenomeno era già lì. In quell’anno, infatti, una serie di aziende produttrici di lampadine firmano un patto di non belligeranza: niente concorrenza tra loro e prodotti in commercio con la medesima ridotta aspettativa di vita. Decenni dopo il cosiddetto “cartello Phoebus”, gli esempi di prodotti ad elevata mortalità si sono moltiplicati. Dalle stampanti impossibili da aggiustare ai primi iPod Apple, con una batteria che si degradava facilmente e risultava allo stesso tempo molto costosa da sostituire tanto che per gli utenti era più conveniente acquistare un nuovo lettore mp3. Se questi rimangono tra i casi più eclatanti, l’invecchiamento precoce riguarda tutti i tipi di apparecchi e la maggior parte delle aziende. Secondo i dati citati in un rapporto sul tema realizzato da Onu Ambiente a fine 2017, tra il 2000 e il 2005 nei Paesi Bassi la vita media di un computer portatile è diminuita del 5% e quella dei piccoli dispositivi elettronici di consumo addirittura del 20%. In Germania, gran parte degli elettrodomestici viene sostituito a meno di cinque anni dall’acquisto. 

 

 

“Prima, il design dei prodotti veniva studiato in modo da ottimizzare la fase di produzione con la resa in fase di utilizzo, con varie ripercussioni in ambito di economie di scala, qualità e durabilità. Innumerevoli prodotti che fino a pochi anni fa erano semplici assemblaggi di plastiche e metallo, sono oggi diventati dei concentrati di hardware e software racchiusi in una scocca accattivante, che messi a sistema, catturano le necessità e le attenzioni del potenziale cliente”, spiegano Damon Berry e Matteo Zallio, ricercatori del Dublin Institute of Technology. Se questa evoluzione è il frutto di un nuovo modo di progettare gli oggetti per rispondere a un’utenza “che ha sempre più forza nel far sentire i propri bisogni”, i risvolti sul fronte ambientale non sono sempre positivi. Quando infatti aumentano a dismisura le componenti elettroniche, cresce anche la probabilità di guasti, e dove c’è un software, se il produttore sospende gli aggiornamenti il prodotto invecchia istantaneamente diventando rifiuto. In molti casi agli stessi designer viene chiesto di progettare prodotti con un orizzonte di vita predefinito, sia per strategie commerciali delle aziende, sia anche perché negli ultimi decenni gli stili di vita sono più orientati a un consumo frequente di elettronica, come dimostrano anche i dati olandesi e tedeschi. 

 

 

Ma se i designer e i consumatori sono una parte del problema, essi possono essere anche promotori attivi della soluzione. In base a uno scenario che già si intravede all’orizzonte: “Bisogna puntare sulla progettazione di apparecchi adattabili e flessibili, modulari, semplici da aggiustare e aggiornare, passando da un design del prodotto a un design dei servizi”, spiegano i due ricercatori, secondo i quali in questo processo di evoluzione del mercato, un ruolo fondamentale lo giocheranno i consumatori: “Oggi sono gli utenti che hanno il potere nelle loro mani, hanno la possibilità di esprimere i loro concetti e le loro necessità in maniera molto più incisiva rispetto al secolo scorso. Il design si evolverà come si evolveranno le persone perché il design è ancora fatto dagli esseri umani e risponde alla domanda che arriva dal mercato”.

Per risolvere il problema dell’obsolescenza programmata, insomma, una delle cose più intelligenti da fare è partire dalle persone. È anche l’approccio su cui si basano le migliori iniziative a livello globale per arrestare la mortalità giovanile degli apparecchi elettronici. Con il risultato che, rimettendo a posto tostapane, ferri da stiro e smartphone si rimodulano anche le relazioni delle persone con gli oggetti, oltre a promuovere un modello di consumo più compatibile con le risorse limitate del nostro pianeta.

 

 

Una delle esperienze che sta riscuotendo maggiore successo è Restart Project, un’associazione creata a Londra nel 2012 da Janet Gunter e Ugo Vallauri. Lei antropologa e attivista con esperienze dal Brasile a Timor Est, lui ricercatore ed esperto di cooperazione internazionale, sono partiti con l’idea di fare qualcosa contro la proliferazione di rifiuti elettronici che in molti casi finiscono smaltiti nei Paesi del Sud del mondo, tra mille criticità ambientali. “Eravamo molto frustrati per la grossa quantità di apparecchi elettronici che si buttavano in Europa e negli Stati Uniti. Allora abbiamo iniziato a organizzare a Londra dei restart parties, eventi in cui le persone portano i loro apparecchi rotti e li riparano con l’aiuto di volontari”, racconta Ugo. L’iniziativa ha avuto successo e si è espansa in mezzo mondo, con gruppi affiliati che organizzano party in Usa, Canada, Israele, Tunisia, Spagna, Italia, Argentina. I primi 200 party organizzati hanno coinvolto quasi 8.000 partecipanti, per oltre 6.200 apparecchi, di cui solo un migliaio sono risultati impossibili da riparare. Il resto è tornato a funzionare, o ci tornerà presto, evitando così la produzione di oltre 8.500 chili di rifiuti e di una quantità di emissioni pari a quella necessaria per produrre 26 auto: “Non vogliamo sostituirci all’economia della riparazione, ma fare soprattutto formazione e aiutare le persone a condividere e scambiarsi conoscenze”. Una ricerca effettuata da Restart Project in collaborazione con l’università di Nottingham Trent, ha messo in evidenza come il 48% dei partecipanti alle feste di Restart abbia poca o nessuna fiducia nelle riparazioni casalinghe e il 45% non riesca a indicare neanche un riparatore. Risposte da cui il fenomeno dell’obsolescenza programmata emerge in tutta la sua complessità: “Non è solo una questione di aziende che progettano i prodotti per durare un tempo stabilito. C’è anche il fatto che molti apparecchi sono molto difficili da smontare e riparare, che molte aziende non mettono a disposizione liberamente degli utenti le informazioni di riparazione e che i pezzi di ricambio non sempre sono facilmente accessibili a tutti”. Tutti fronti su cui bisogna agire, riportando nelle persone la voglia di provare a sporcarsi le mani prima di optare per la soluzione più semplice di andare a comprare un nuovo apparecchio.

Nell’autunno scorso Restart Project ha lanciato la prima edizione dell’International Repair Day e organizzato il primo FixFest. È nata anche la Open Repair Alliance, un gruppo di organizzazioni che punta a costruire uno standard internazionale per scambiare informazioni sulle riparazioni a livello globale. Servirà sia a rendere più facile aggiustare gli oggetti, sia a progettare apparecchi più durevoli e più semplici da rimettere a posto.

 

 

Dell’alleanza fa parte anche iFixit, un progetto nato nel 2003 in California, anche in questo caso da una frustrazione: Luke Soules e Kyle Wiens studiavano Ingegneria all’università politecnica e volevano aggiustare un vecchio iBook, ma da nessuna parte c’erano istruzioni su come farlo. “Armeggiarono, trafficarono, ruppero dei tasti e persero delle viti, ma alla fine lo ripararono. Provarono a riparare altri computer portatili ma non riuscivano a trovare i pezzi. Così comprarono un computer vecchio su eBay e recuperarono le componenti da lì”, racconta oggi Kay-Kay Clapp dall’headquarter di San Luis Obispo. Da lì nacque l’idea di iFixit, allo stesso tempo piattaforma di e-commerce che vende pezzi di ricambio e community dove persone di ogni parte del mondo si scambiano gratuitamente manuali di riparazione e rispondono alle domande di altri utenti. “Oggi iFixit ha più di 35.000 manuali di riparazione online gratis e accessibili a tutti. L’anno scorso ha aiutato oltre 100 milioni di persone a riparare le loro cose”. Il motto del progetto è “if you can’t open it, you don’t own it”: per ogni apparecchio, iFixit attribuisce un punteggio da 1 a 10 in base al livello di riparabilità, sia per la semplicità di aggiustare le componenti, sia per l’accessibilità delle informazioni di riparazione. A volte, aggiunge Kay-Kay, “le aziende tecnologiche protestano per il punteggio che gli diamo, ma alcuni adesso lavorano con noi durante i processi di design per avere consigli su come progettare prodotti più facilmente riparabili”. Il cambiamento è già iniziato.  

 

Restart Project, therestartproject.org

Open Repair Alliance, openrepair.org

iFixit, it.ifixit.com