Quello del settore estrattivo è un argomento sempre più scottante nella comunità globale. La Germania, paese tradizionalmente considerato leader nelle politiche verdi, è solo uno dei casi che mettono in luce le difficoltà da affrontare nella messa in atto di una rapida e corretta uscita dal carbone. Se – senza dubbio – la sfida principale consiste nell’offrire occupazione alternativa ai molti minatori che perderanno il lavoro, c’è anche un secondo problema: cosa succederà ai siti minerari una volta che non saranno più utilizzati per estrarne risorse? E questo interrogativo vale per tutti i tipi di miniere: dal rame in Perù, ai diamanti in Australia, allo zinco in Canada.

Il ciclo di vita di una miniera attraversa diversi stadi. Per le miniere d’oro, che sono a cielo aperto, il World Gold Council identifica cinque fasi differenti: la fase esplorativa, lo sviluppo, la fase operativa, la dismissione e la fase post-chiusura. La dismissione inizia una volta che la massa minerale si è esaurita o non è più interessante dal punto di vista economico, e comprende lo smantellamento e il ripristino dei terreni. In altre parole, consiste nel riportare la miniera a una condizione che permetta al sito di essere riutilizzato per altri scopi, tra i quali diventare un habitat per la fauna e flora selvatica, un’area ricreativa o un terreno industriale. L’ultima fase, quella post-chiusura, implica il monitoraggio nel tempo dell’area dismessa, per garantire che il ripristino dell’area avvenga effettivamente con successo. 

Solitamente la fase del ripristino, anche nota come risanamento o bonifica della miniera, ha l’obiettivo di riportare quanto più possibile il terreno alla sua condizione ambientale originale, e include lo smaltimento in sicurezza di materiali e rifiuti pericolosi, garantendo la qualità dell’acqua e ripristinando la vegetazione autoctona. 

Anche se il ripristino è l’ultima fase della vita di una miniera, le imprese minerarie quali l’americana Newmont Mining Corporation, tra i principali produttori mondiali di oro, sostengono che essa dovrebbe costituire parte integrante della pianificazione iniziale. “La pianificazione per la chiusura inizia in fase di progettazione, molto prima della costruzione del sito. Le attività di risanamento hanno inizio durante la produzione e proseguono per lungo tempo dopo che le attività minerarie si sono concluse, fin quando i nostri obiettivi per la chiusura sono stati raggiunti”, afferma Omar Jabara, Group Executive di Newmont. In effetti nella maggior parte dei paesi le compagnie minerarie sono obbligate a stabilire un piano di risanamento già prima dell’inizio delle attività estrattive, o quantomeno creare un fondo con questa finalità, e molte avviano processi di risanamento progressivo mentre le attività estrattive proseguono in altre aree. Per esempio la compagnia tedesca RWE e quella spagnola Endesa hanno iniziato a convertire in aree faunistiche e ricreative siti minerari ancora uso, mentre le miniere continuavano a espandersi in altre direzioni. Nel caso di As Pontes in Spagna, Endesa sostiene che il risanamento progressivo sia stato la chiave del suo successo. 

Pertanto la pianificazione iniziale è un fattore essenziale per riuscire a convertire i vecchi siti minerari in aree in cui l’ambiente sia tutelato. Ciò, però, non è sempre possibile: da una parte infatti ci sono migliaia di miniere nel mondo ancora in stato di abbandono; e dall’altra le attività minerarie non regolamentate rendono impossibile attribuire le responsabilità. 

 

Espiel, Spagna

 

Ritorno alla natura

Riportare i siti minerari alle condizioni precedenti l’inizio delle attività estrattive è una pratica molto comune tra le compagnie del settore. Alcune delle più grandi miniere a cielo aperto del mondo sono già state sottoposte a questo tipo di trasformazione. 

Nel 2011 la PT Newmont Minahasa Raya (PTNMR), il ramo indonesiano di Newmont, ha piantato centinaia di migliaia di alberi in un vecchio sito minerario nel sudest del distretto di Minahasa, restituendo al governo indonesiano 443 ettari di terreni rimboschiti. L’area, che una volta era un enorme buco circondato da uno scenario di deforestazione, viene ora descritta dalla Newmont come la futura sede dei nuovi giardini botanici indonesiani, e vanta già una lussureggiante foresta di alberi di mogano, teak, nyatoh e sengon.

L’azienda Teck è uno dei principali produttori mondiali di carbone per l’industria siderurgica e di rame, zinco e metalli speciali come il germanio, l’indio, il cadmio, l’oro e l’argento. Pochi mercati sfuggono a questa società. L’ampia gamma delle sue attività rende ancora più cruciali piani ambientali ambiziosi. Sulla stessa linea di Newmont, Teck sostiene di lavorare al ripristino delle miniere lungo l’intero ciclo di vita operativo e in collaborazione con le comunità locali. Inoltre si assicura di “ottenere un impatto positivo sulla biodiversità nelle aree in cui operiamo. Ciò significa che l’ecosistema e la biodiversità dell’area mineraria e della zona circostante saranno in condizioni migliori rispetto a quando la miniera non c’era ancora”. Per raggiungere questo obiettivo utilizzano una tecnica che comporta il recupero del suolo per favorire la rivegetazione delle aree degradate. Per esempio, parte delle attività della Greenhill nel sudest della British Colombia è consistita nel recuperare una grande superficie di suolo per una profondità di circa un metro di profondità e immagazzinarlo per poterlo poi utilizzare più avanti nella attività di risanamento. Nel corso del progetto sono stati salvati circa un milione di metri cubi di materiale terroso. Il suolo accumulato è ora utilizzato per ricoprire le aree in cui l’attività di estrazione è stata completata, attraverso un processo di bonifica progressiva che avrà luogo da qui al 2035.

Anche Freeport Memoran, società che gestisce alcune delle miniere più grandi del pianeta tra cui la Grasberg in Indonesia, si impegna a riportare i suoi siti minerari a un utilizzo sostenibile. L’azienda sta finalizzando progetti per la costruzione di appezzamenti di prova per il ripristino della fertilità nella miniera di rame di Cerro Verde in Perù, una delle dieci miniere di rame più grandi al mondo. Gli appezzamenti di prova verranno studiati per confermare l’efficacia a lungo termine dei loro metodi di chiusura, descritti nella versione aggiornata del Piano di Chiusura di Cerro Verde. 

Argyle Diamonds di proprietà di Rio Tinto, la più grande miniera di diamanti australiana, esaurirà le sue preziose risorse. La miniera oltre a essere tra le principali fornitrici di diamanti in generale, è la maggiore al mondo di diamanti naturali colorati, e pertanto l’impatto che potrà avere la sua chiusura prevista per il 2020 sul mercato dei diamanti costituisce un aspetto molto preoccupante, così come è importante il destino della miniera stessa. Situata nell’East Kimberley, remota regione nell’Australia occidentale, la miniera è attiva dal 1983: prima come miniera alluvionale, poi come miniera a cielo aperto e infine come miniera sotterranea dal 2013. Prima che le attività estrattive avessero inizio, l’area era abitata da popolazioni indigene che hanno in certa misura tratto beneficio dalla miniera, ma hanno anche visto la biodiversità di cui dipendono diminuire rapidamente nel corso degli anni. Consapevole di ciò, Rio Tinto enfatizza la propria intenzione di “lavorare con le popolazioni aborigene locali per ripristinare le aree disturbate dalle attività minatorie in modi che saranno direttamente vantaggiosi per loro. Specie di piante native importanti per la loro cultura, salute e dieta, e che di recente erano di difficile reperibilità o quasi estinte, sono state reintrodotte nel paesaggio”. L’azienda sostiene che la progettazione della chiusura e il processo di consultazione sono proseguiti lungo l’intero ciclo di vita dell’Argyle. Ma il progetto non è chiaro. Rio Tinto sta ancora preparando la proposta per la dismissione e di ripristino che sarà presentata ai tradizionali proprietari dell’Argyle, ossia gli aborigeni australiani, e sarà seguita da una consultazione formale prima di prendere una decisione. Il progetto di chiusura riguarderà questioni quali l’utilizzo della terra, la gestione dell’acqua, il rimodellamento delle rocce di scarto e la biodiversità. 

 

Diamanti grezzi, Argyle

 

Anche l’Europa è sede di diversi progetti di ripristino di miniere a cielo aperto. In Spagna molte miniere di carbone sono state convertite in aree naturalistiche, o adattate a un utilizzo agricolo o ricreativo. Il più grande lago spagnolo ad As Pontes in Galizia, esteso 865 ettari e contenente 547 ettometri cubi di acqua, solo 10 anni fa era una miniera di carbone; oggi è un luogo di divertimenti, e vanta anche una spiaggia di sabbia. In merito alla possibile tossicità dell’acqua, un rappresentante di Endesa, l’azienda proprietaria dell’ex miniera, ha detto che l’acqua del lago è così pulita che potrebbe anche essere bevuta. Ancora più sorprendente è il ritorno spontaneo della fauna selvatica, che non ha necessitato della reintroduzione da parte dell’uomo: Endesa ha identificato nell’area 217 specie di piante e 205 specie di animali vertebrati.

 

As Pontes, Spagna

 

Endesa ha anche svolto un lavoro notevole nella vecchia miniera di Puertollano nel sud della Spagna, dove 560 ettari sono stati convertiti a uso agricolo ottenendo una produttività molto alta: circa 30.000 ulivi dai quali si ottiene una media di 250.000 kg di olive da olio. Nel caso di Puertollano, Endesa ha precisato che le condizioni della flora e fauna selvatica sono anche migliori di quanto lo fossero in precedenza. Un’area che era quasi del tutto desertica è stata trasformata in un bosco mediterraneo in cui flora e fauna selvatica possono diffondersi più che in passato. In entrambi questi casi l’azienda ha iniziato il processo di ripristino quando le miniere erano ancora attive. Durante il processo è stata data una forma ondulata sia alle discariche esterne sia a quelle interne, simile a quella del paesaggio circostante. Poi queste sono state ricoperte di suolo superficiale concimato e seminato con vegetazione autoctona. Nella fase finale lo scavo di estrazione è stato riempito con acqua.

 

Ora di divertirsi

Non tutte le miniere sono state convertite in luoghi naturalistici: molte altre sono state trasformate in sedi per eventi, musei o ne sono stati fatti altri utilizzi creativi. 

La miniera Salina Turda in Transilvania, Romania, è una gigantesca miniera di sale trasformata in un parco di divertimenti. Dopo la sua chiusura nel 1932 è stata utilizzata come rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale, e più tardi come magazzino per la conservazione del formaggio. Oggi questo impressionante buco profondo 122 metri ospita un parco sotterraneo dove si può giocare a bowling, a mini-golf, a ping-pong o attraversare il lago in barca. 

A Dalarna in Svezia l’ex cantante lirica Margaret Dells e il caporedattore culturale Asa Nyman hanno ricavato un anfiteatro da una miniera di pietra calcarea inutilizzata. Dopo il primo concerto che si è tenuto nel 1993 vi si sono esibiti artisti del calibro del Led Zeppelin, Patti Smith e Norah Jones.

Essen, in Germania, era una delle città più grigie del paese, dove tutto ruotava intorno alle miniere. Nel 2017 la città è stata dichiarata European Green Capital grazie alla sua trasformazione. Ora attira un gran numero di turisti in visita alle sue ex miniere che sono state trasformate in musei e in altri luoghi di intrattenimento, tra cui un’enorme pista per il pattinaggio su ghiaccio. Passeggiare attraverso i suoi edifici, che sono stati dichiarati Patrimonio Mondiale Unesco, è al tempo stesso impressionante e affascinante. I visitatori sono incoraggiati a perdersi e a esplorare, lasciando riemergere la propria curiosità infantile.

 

Essen. Foto di Irene Baños Ruiz

 

 Buchi abbandonati

Sfortunatamente però non tutte le miniere diventano luoghi di bellezza e divertimento rispettosi dell’ambiente. Nella sola Australia si contano circa 50.000 miniere abbandonate. Il rapporto Ground Truths: Taking Responsibility for Australia’s Mining Legacies, commissionato dall’Australian Conservation Foundation, ha messo in luce come il 75% delle miniere del paese sia stata chiusa senza una pianificazione adeguata. 

La miniera Il Faro è una di queste. Questo paesaggio lunare, situato a 15 km a nord della città di Faro nello Yukon, era la più grande miniera a cielo aperto di piombo e zinco, ma è stata abbandonata per circa due decenni dopo il fallimento del suo proprietario nel 1998. Il suo tardivo ripristino è considerato uno dei più complessi interventi in questo genere mai condotti nel paese. Il governo canadese si è impegnato a portare avanti una bonifica esaustiva, che tenga conto dei bisogni dell’ambiente e dei residenti. Le operazioni di estrazione hanno coinvolto un’area di 25 chilometri quadrati, e si sono lasciate alle spalle 70 milioni di tonnellate di residui di minerali e 320 milioni di tonnellate di detriti, dai quali hanno iniziato a fuoriuscire metalli pesanti e acidi che si stanno disperdendo nel terreno e nei corpi idrici circostanti quali i vicini fiumi. Alcuni stagni della zona mostrano già una colorazione rossastro-marrone. Julia Duchesne, direttore della comunicazione del gruppo ambientalista locale Yukon Conservation Society (YCS), ha dichiarato a Materia Rinnovabile che “lo YCS è rincuorato dal fatto che la bonifica abbia finalmente avuto inizio, dopo diversi anni di dannosa inazione”, ma il gruppo fa anche notare che “i tentativi di ripulire la miniera degli ultimi 18 anni sono diventati un simbolo di spreco e inefficienza per i frustrati residenti dello Yukon. Almeno 250 milioni di dollari sono già stati spesi per il mantenimento del sito minerario […] e nonostante ciò nemmeno un pugno di terra è stato ripulito. Il governo sta invece buttando via 40 milioni di dollari l’anno per far funzionare le pompe che impediscono ai residui di sfondare le dighe”. 

In effetti il Crown-Indigenous Relations and Northern Affairs Canada (CIRNAC), il dipartimento governativo che coordina il progetto di bonifica, ha dichiarato che la priorità è la stabilizzazione delle sostanze inquinanti nel sito, piuttosto che non la loro rimozione. Raccoglieranno e tratteranno le acque inquinate per evitare che si diffondano ulteriormente nell’ambiente circostante, provvederanno a coprire gli scarti di minerali, rocce e inerti e naturalmente monitoreranno il processo da vicino per evitare eventi inaspettati che potrebbero portare a scenari di inquinamento disastrosi. Ci vorranno altri 30 anni prima che il sito sia sicuro sia per la popolazione locale che per l’ambiente. 

I gruppi ambientalisti avanzano anche l’argomento che comunque il ripristino dei siti minerari potrà solo in rari casi compensare i danni causati all’ambiente. In Germania per esempio è in atto una grande controversia che riguarda l’abbattimento della Foresta di Heimbach. Gli ultimi 1.000 ettari di questa antica foresta nella Germania occidentale rischiano di essere sacrificati per essere sostituiti dalla miniera a cielo aperto di Hambach, la principale emettitrice di CO2 in tutta Europa. L’azienda energetica RWE dichiara che si prenderà cura della miniera una volta che il carbone sarà esaurito, come ha già fatto in altre miniere, ma gli attivisti sostengono che la biodiversità della foresta andrà persa per sempre, specialmente per quanto riguarda specie endemiche come il pipistrello di Bechstein e il picchio rosso mezzano. A sostegno dei loro argomenti citano altre aree che sono state oggetto di ripristino. Dei più di 32.000 ettari utilizzati per l’estrazione di lignite nella zona, prima del 2015 ne sono stati riutilizzati circa 23.000. Di questi 12.000 ettari circa sono stati dedicati a uso agricolo, 9.000 ettari sono stati riforestati e 800 sono stati riempiti d’acqua trasformandosi spesso in laghi a uso ricreativo, molto popolari nei mesi estivi. Apparentemente un successo, ma il quadro non è completo. Secondo Friends of the Earth Germany (BUND) mancano le informazioni riguardo alla quantità di perdite non compensate, quali il prosciugamento dei corsi d’acqua e la sparizione di habitat importanti per la flora e la fauna selvatica. In più il gruppo sostiene che le zone riforestate non offriranno mai la stessa qualità in termini di biodiversità o come terreni agricoli rispetto al suolo originario. 

Un altro caso che ha sollevato critiche è quello della miniera Twilight in Arizona, negli Stati Uniti. Più di 900 ettari di un’arida area mineraria adesso sono nuovamente verdi, ma nemmeno il colore è paragonabile a quello delle montagne originarie, ricoperte di fitte foreste, per non parlare dell’enorme perdita di biodiversità. E non si tratta di un caso isolato nel paese. Climate Home News ha condotto una ricerca approfondita al riguardo concludendo che nella maggior parte dei casi il recupero delle miniere non restituisce alla terra i livelli di wilderness o di produttività precedenti l’attività mineraria, e spesso finisce per creare solamente prati di basso valore. Solo il 18% della terra recuperata negli Stati Uniti è stata convertita in terreni agricoli, edificabili, industriali o ricreativi, mentre il 16% è stato lasciato allo stato naturale. Tutto il resto è principalmente ricoperto da prati. 

 

Piccola scala, grandi danni

Le miniere d’oro artigianali o a scala ridotta sono basate sul lavoro di piccoli soggetti che lavorano su aree limitate, piuttosto che sull’attività di grandi aziende. Anche se questo potrebbe far pensare a pratiche più sostenibili, in realtà determina un problema di attribuzione di responsabilità. In posti come Madre de Dios, nell’Amazzonia peruviana, migliaia di piccoli minatori estraggono oro dalla stessa area, senza che nessuno si assuma la responsabilità dei danni ambientali causati. Molti poi lavorano illegalmente, cosa che rende ancora più difficile stabilire le eventuali responsabilità. 

Secondo il Centre for Amazonian Scientific Innovation (CINCIA) della Wake Forest University, l’estrazione d’oro su piccola scala nel corso degli ultimi 5 anni ha distrutto circa 700 chilometri quadrati di foresta pluviale primaria nell’Amazzonia peruviana, pari all’incirca alle dimensioni di San Francisco. Gli scienziati della CINCIA stanno lavorando a un approccio innovativo per aiutare la foresta amazzonica a riprendersi dall’impatto dell’estrazione dell’oro. 

Luis Fernández, Direttore esecutivo di CINCIA, elenca le numerose difficoltà di questa loro impresa. L’estrazione di oro a Madre de Dios avviene con un sistema abbastanza primitivo che non comporta l’uso di macchinari pesanti, ma consiste nella rimozione dei primi 5 metri di sedimenti del suolo. Anche se può sembrare più sostenibile rispetto alla costruzione di dighe e tunnel, in realtà questo sistema causa la deforestazione di aree molto più ampie. I minatori ottengono un grammo d’oro per ogni tonnellata di sedimenti, spiega Fernandez. “Quindi per rigenerare la foresta non basta piantare solo alberi, ma bisogna ricreare il suolo”. 

 

Credit: CINCIA

 

Il team ha suddiviso le attività in tre fasi. In primo luogo ha monitorato lo stato e le caratteristiche dell’area attraverso droni e tecnologia satellitare. “Non si può dare per scontato che tutte le zone di estrazione siano uguali, perché ci sono diversi tipi di suolo e diverse altezze, a seconda che si trovino vicine a un fiume o alle montagne” spiega Fernandez. Una volta identificata l’area della sperimentazione il team ha stabilito quali specie sarebbe stato meglio utilizzare. Perciò sono state piantate 50 specie native di alberi nella zona selezionata per capire quali erano le più adatte. Un passaggio, questo, di particolare importanza in Amazzonia a causa della sua elevata diversità: la maggior parte degli animali dipendono dagli alberi, e perciò le specie piantate nel corso del progetto di riforestazione saranno determinanti per il futuro di tutta la biodiversità. “Non si possono utilizzare il pino caraibico o l’acacia africana, che crescono molto rapidamente e vengono utilizzate molto nella riforestazione. Non si sta cercando di ricreare una foresta qualsiasi, ma una foresta pluviale”. Una delle difficoltà principali consiste nel riforestare con specie native dell’Amazzonia in un modo che sia economicamente sostenibile. La terza fase consiste nel ripristino del suolo, operazione per la quale il team utilizza il così detto biochar, un carbone prodotto da materia vegetale. Si tratta principalmente della riproduzione di un metodo sviluppato dalle popolazioni native dell’Amazzonia circa un migliaio di anni fa. La squadra crea biochar a partire da scarti agricoli quali segatura o i resti della produzione del cacao e delle noci, e le utilizza per migliorare a qualità del suolo nel processo di piantumazione. “Il biochar ha caratteristiche molto particolari: fornisce il suolo di carbonio, che è essenziale, e ha la capacità di trattenere i nutrienti e assorbire l’acqua. Potenzialmente può assorbire anche il mercurio”. Il mercurio penetra nel terreno a causa delle attività minerarie e può finire nei prodotti agricoli. 

Il team prevede di pubblicare i risultati degli appezzamenti di prova per la metà del 2019, al più tardi. Le conclusioni tratte permetteranno di ottenere una prima valutazione di come sia possibile restituire all’Amazzonia un po’ di quello che le abbiamo sottratto. 

Il prossimo passo consisterà – prima di tutto – nell’evitare di fare danni. 

 

 

Ground Truths: Taking Responsibility for Australia’s Mining Legacieswww.mpi.org.au/2016/06/grond-truth-taking-responsibility-for-australias-mining-legacies

Immagine in alto: Faro. Credit: Government of Canada