Adriana Varella e Nilton Malz, Digital DNA, Palo Alto (California), 2005. 
Foto di Wonderlane, elaborazione grafica

 

La natura non produce rifiuti: l’evoluzione ha promosso una circolarità e una reciproca interdipendenza tra le diverse forme di vita che la caratterizzano tale per cui ciò che è residuo di un processo – o di ogni segmento di un processo – diventa alimento per altri processi successivi o paralleli. L’allontanamento dell’uomo da questa circolarità trofica non è stato un fatto improvviso né lineare. 

Per molto tempo, e sicuramente in tutte le culture preurbane, i rifiuti – o meglio gli escrementi e gli scarti generati dalla manipolazione degli oggetti di uso quotidiano – non hanno costituito un grosso problema. Questo perché sia la loro entità e, soprattutto, il fatto di essere composti da materiali organici o inerti, sancivano una sorta di continuità ontologica tra l’uomo e il suo ambiente: una integrazione stretta tra i cicli che presiedono alla riproduzione del corpo sociale e quelli che dominano il mondo della natura. La prima cesura posta in questa continuità è probabilmente costituita dalle barriere che l’uomo ha posto intorno alla dimora dei propri estinti quando si trattava di restituirne il corpo all’ambiente. 

Il problema dell’allontanamento dei rifiuti dal proprio ambiente quotidiano è nato in un contesto urbano; e solo nella misura in cui vicoli, rogge e orti della città non erano più in grado di assorbire naturalmente i residui delle attività umane. Una cosa di cui gli abitanti della città preindustriale si sono forse accorti con molto ritardo. Ma l’avvento della società industriale segna una metamorfosi generale del problema:

a. innanzitutto aumenta drasticamente la popolazione che produce rifiuti. La crescita demografica che caratterizza il mondo contemporaneo è un fatto recente, che ha avuto origine nell’occidente europeo grazie all’aumentata disponibilità di alimenti a partire dalla metà del ’700; 

b. in secondo luogo, aumenta anche la produzione pro capite di rifiuti. Tutto ciò che viene prelevato dall’ambiente prima o dopo gli viene restituito sotto forma di rifiuto: la mutazione epocale determinata dalla rivoluzione industriale non riguarda soltanto il prelievo di risorse, ma in misura più o meno eguale, e con uno scarto temporale destinato a ridursi nel tempo, anche l’occupazione dell’ambiente con i materiali e i prodotti scartati;

c. in terzo luogo, cambia la composizione dei rifiuti. Per migliaia di anni i materiali utilizzati – e quindi anche quelli scartati – dall’uomo sono stati materiali organici, che la natura era perfettamente in grado di reinserire nei propri cicli biologici; oppure materiali inerti, che non ne alteravano gli equilibri né prima né dopo l’uso da parte dell’uomo. Ma gli sviluppi su scala industriale della metallurgia prima, della carbochimica e della petrolchimica poi, e – infine – l’avvento dei nuovi materiali sintetici e compositi – le prestazioni di questi ultimi sono in gran parte riconducibili all’irreversibilità dei processi attraverso cui essi sono stati fabbricati – si sono incaricati di ridurre, nella massa complessiva dei rifiuti, la quota dei materiali di origine biologica a favore di quelli non biodegradabili; 

d. infine, i beni prodotti non si utilizzano più fino in fondo; per i beni capitale, cioè per i mezzi di produzione, c’è un periodo di obsolescenza che non coincide affatto con il periodo del loro logoramento fisico. Ma soprattutto i beni di consumo finale hanno subito una mutazione che li ha sospinti in misura crescente nella sfera dell’usa-e-getta.

 

 

Per sistemare tutti questi rifiuti abbiamo bisogno di spazio: ma di uno spazio “vuoto” – sia esso in terra, in acqua o in cielo – in cui poter scaricare tutto ciò che non vogliamo più incontrare. Ciò che accomuna tutte le forme di smaltimento dei rifiuti, sia quelle consapevoli (effettuate attraverso tecnologie specifiche) sia quelle inconsapevoli (cioè effettuate semplicemente “abbandonando” i rifiuti e affidando ai processi naturali – precipitazioni, venti, correnti, processi biologici spontanei – il compito di disfarcene) è il fatto che l’ambiente ci si presenti, e che noi lo possiamo trattare, come uno spazio vuoto, a disposizione del corpo sociale per allontanare tutto ciò che non riteniamo più possibile o conveniente trattenere o utilizzare. 

Questo modo di trattare l’ambiente è almeno tanto diffuso, radicato e contestuale allo spirito moderno quanto lo è la concezione del mondo come insieme di risorse a disposizione dello sviluppo delle forze produttive. Per questo i rifiuti, prima di intasare e appestare il mondo esterno, si sono insediati nella nostra testa come una categoria dello spirito. E vi si sono insediati perché corrispondono a un approccio al mondo connaturato alle forme in cui si è andato sviluppando il dominio della tecnica nel mondo moderno: esattamente come è avvenuto per la progressiva trasformazione del mondo in puro serbatoio di risorse. 

Premessa essenziale di questa mutazione culturale è la costruzione del cosmo e, in particolare, dell’ambiente in cui viviamo, come puro spazio geometrico, definito dalle tre dimensioni e dal calcolo che su di esse possiamo effettuare. Questa visione si è affermata attraverso i trionfi della fisica moderna e del suo paradigma meccanicistico; cioè attraverso una “transizione dall’organismo alla macchina come metafora dominante che lega assieme il cosmo, la società e l’io in una singola realtà culturale” (Merchant, 1988). Lo spazio geometrico vuoto che presiede all’allontanamento dei rifiuti – in qualsiasi veste o stato fisico essi si presentano – è lo stesso che consente di vedere in ciò che lo riempie null’altro che una scorta di materiali a disposizione per sempre nuovi impieghi. Risorse e rifiuti sono quindi realtà strettamente complementari: i rifiuti e la loro illimitata possibilità di crescita sono alimentati dall’altrettanto illimitata disponibilità del mondo sotto forma di risorse. E viceversa: la trasformazione della natura in risorse, cioè la disponibilità di tutta la realtà a impieghi sempre nuovi, non avrebbe mai raggiunto l’universalità che ha assunto nel mondo moderno se a esse non fosse stata garantita non solo una via di ingresso privilegiata sotto forma di merci nella sfera delle attività umane, ma anche una via di uscita da questa sfera, una volta persa la loro utilità. Per averne una riprova basta considerare il modo in cui il mondo dei rifiuti si è andato progressivamente estendendo, fino a inglobare tutto ciò che non è considerato risorsa. 

Tanto per cominciare, i rifiuti, che in qualche modo sono gli escrementi del corpo sociale, hanno attratto nella loro orbita gravitazionale gli escrementi del corpo biologico e non viceversa. Ciò ha riguardato dapprima le deiezioni umane, che una volta venivano utilizzate come concime, o raccolte in fosse biologiche, dove si compiva la loro riconversione in humus e la loro restituzione alla terra, e che, con l’introduzione delle reti fognarie e, soprattutto, dello sciacquone, sono state affidate ai fiumi e poi ai mari, contando sulla loro capacità di contenerle tutte. Ma il processo di trasformazione degli escrementi in rifiuti è andato oltre e ha investito da tempo anche buona parte delle deiezioni animali che vengono scaricate nei fiumi e sono oggi tra i fattori responsabili dell’eutrofizzazione delle acque di diversi laghi e mari. In questo passaggio una concezione dell’ambiente come mero spazio vuoto a disposizione per allontanare ciò che non è conveniente trattenere o utilizzare si è imposta sulla concezione degli escrementi come anello essenziale dell’interscambio tra organismo e ambiente. 

In secondo luogo, è ormai entrato a far parte dell’“ordine naturale delle cose” che tutto ciò che si produce non venga prodotto per durare. Si produce per sostituire: ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tutto ciò che viene sostituito possa e debba venir gettato via. La civiltà dell’usa-e-getta – che è il punto di approdo del consumismo, cioè di una organizzazione sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione delle merci, perché senza questa moltiplicazione verrebbero meno i presupposti stessi dei legami che la tengono unita (gli scambi commerciali) e delle forme attraverso cui essa garantisce la sussistenza ai suoi membri (l’occupazione come via privilegiata di accesso al reddito) – ha i suoi presupposti tanto in un prelievo illimitato di risorse naturali quanto in un accumulo illimitato di rifiuti. 

Infine, come la sfera delle risorse si è progressivamente estesa dai prodotti della terra fino a inglobare l’intero creato, compreso l’uomo che pretendeva di dominare questo processo in nome del suo diritto di disporre della natura (per questo si parla di “risorse umane”), così la sfera dei rifiuti si è progressivamente estesa, inglobando non solo ciò che in precedenza rifiuto non era, perché rientrava nelle forme “naturali” dello scambio tra uomo e ambiente, ma l’uomo stesso, a cui si deve l’invenzione dei rifiuti. Sotto la dicitura “rifiuti umani”, o “rifiuti sociali”, si è proceduto in varie fasi storiche a isolare – al fine di “allontanare” dal corpo sociale e dai suoi processi – tutti quei soggetti su cui la cultura dominante non riteneva più – o non era più in grado – di far conto come proprie risorse: criminali, handicappati, invalidi, caratteri asociali, disoccupati cronici. La storia di questo processo è l’altra faccia di una generale concezione dei rapporti sociali che seleziona e valorizza gli individui sulla base della loro capacità di produrre e del loro contributo alla produzione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un processo unico: per accrescere la produttività, si attinge a fondo, e in modo indiscriminato, alle facoltà umane, selezionandole e utilizzandole in funzione di obiettivi precostituiti – ciò che costituisce l’essenza stessa dello sfruttamento – perché c’è sempre la possibilità, quando esse non saranno più utilizzabili, di sbarazzarsene, insieme agli individui che non ne sono che gli infelici supporti. 

 

Foto pubblicitaria per il film Il monello di Charlie Chaplin, 1921 circa

 

Ma che ne è dei rifiuti da quando si sono sviluppate le tecnologie per trattarli, innocuizzarli, riciclarli, per non abbandonarli più a se stessi come è successo per tanti anni e ancora succede in tante parti del mondo? Quelle tecnologie, e la legislazione che ne ha imposto sviluppo e adozione, ha fatto dei rifiuti i destinatari privilegiati di una “presa in custodia” generalizzata. Invano si andrebbe a cercare una dose di prescrizioni altrettanto dettagliate per quelli che sono i precursori del mondo dei rifiuti, cioè per le merci e per la produzione delle merci. Ciò è tanto più vero, poi, se si risale agli albori della riflessione sul mondo delle merci. È la merce, e non il rifiuto, ciò nella cui natura – e nel cui destino – è intrinseco l’essere “abbandonata a se stessa”, cioè al libero gioco della domanda e dell’offerta e al processo di circolazione – sociale e fisico – che attraverso di esso si innesca. Laissez-faire, laissez-passer sono le parole d’ordine stampate su tutte le bandiere degli idolatri del mercato attraverso cui la produzione di merci si è conquistata la propria autonomia entro la sfera della società civile e della normazione giuridica, proprio nell’epoca in cui il mercato si stava imponendo come sede privilegiata dello sviluppo sociale. Nessuno invece si sognerebbe, o si è mai sognato, di rivendicare le stesse parole d’ordine per la produzione dei rifiuti, anche se, di fatto, questa è stata poi, ed è tuttora, una prassi diffusa. La libertà di fatto e di diritto di cui godono il mercato e la circolazione delle merci nei confronti del corpo sociale, l’autonomia dei rapporti di compravendita, come medium di una coesione sociale non più basata su legami di sangue o di tipo comunitario, trovano un preciso riscontro nei vincoli e nelle prescrizioni a cui sono stati invece sottoposti i rifiuti; che non possono più essere “abbandonati” senza intasare e rendere inagibile lo spazio, sia fisico sia sociale, in cui si realizza la libertà della merce. 

Il rifiuto è il volto disconosciuto della merce. Il legislatore sottopone dovunque a una serie di vincoli sempre più stretti i rifiuti nel tentativo di mantenere il più possibile inalterata la libertà di cui, statutariamente, godono le merci. O, viceversa, le merci producono una massa sterminata di rifiuti, sui quali, poi, il legislatore è costretto a intervenire, perché la legge e, soprattutto, l’ideologia del mercato le lasciano libere di generarli. Il legislatore interviene sui rifiuti – e dietro di lui si mette in movimento l’orda degli esperti, dei convegnisti, dei costruttori di impianti, degli smaltitori autorizzati e abusivi, dei mille profittatori di tutto ciò che la società non riesce a riconoscere e ad accettare come parte di sé – perché gli è interdetto – o ritiene che gli sia interdetto – intervenire sulle merci, sulla loro composizione, sui loro processi di fabbricazione, sulle modalità del loro impiego. Ma i rifiuti non sono niente altro che la manifestazione sensibile – alla vista, al tatto, all’odorato, e via sentendo – della libertà di cui godono le merci.