Non-convenzionale è la definizione standard del pensiero di Gunter Pauli. Capace di guardare simultaneamente al futuro profondo e al passato remoto, con infinita complessità, questo imprenditore visionario originario di Antwerp da sempre cerca di scardinare le regole dell’economia neoclassica cercando nuovi paradigmi. Nella sua ultima fatica, Economia in 3D, guarda in profondità nei modelli di produzione alimentare. Materia Rinnovabile si è seduta con lui in un caffè di Milano per una lunga chiacchierata sul tema.

Nel tuo ultimo libro, dove riprendi i principi della Blue Economy, sostieni che l’attuale approccio alla produzione agricola è eccessivamente semplificato e semplicistico. Quali sono le caratteristiche dell’attuale “mainstream agricolo” che ti spingono a formulare questo giudizio?

“Oggi tutto è standardizzato. Trattiamo la produzione dei pomodori come se si trattasse della produzione di automobili. L’auto è di metallo ed è una macchina. Il pomodoro è vita. Ma in un pomodoro privo del suo sapore non si trova alcuna vita, e credo che di questo non sia necessario convincere nessun abitante del Mediterraneo, dove le forze della vita si sono manifestate in modo più spettacolare che altrove!

Per dare una risposta alla domanda di cibo nel mercato globale, l’industria, la scienza e la politica hanno scelto la strada della standardizzazione. Questo significa che oggi, come consumatori, ci aspettiamo di trovare la stessa qualità di pomodori in qualsiasi parte del mondo, lo stesso mais ovunque. Abbiamo negato la biodiversità biologica e climatica. Di fronte all’incremento della siccità puntiamo alla modificazione genetica, piuttosto che all’uso di piante adatte a queste condizioni.

Quindi il modello è la standardizzazione e la standardizzazione è guidata dai costi. Tutto oggi è guidato dai costi, e ciò risponde alla logica economica convenzionale: se il cibo è meno caro, sarà accessibile a una maggiore quantità di persone. Ma è proprio questa logica che ha condotto a trattare il suolo come se fosse una risorsa mineraria. Denunciamo sempre gli effetti negativi delle attività minerarie sulla qualità dell’aria, dell’acqua e sulla salute delle persone. Ma l’agricoltura è diventata una attività di estrazione del carbonio dal suolo. Ma se non c’è carbonio nel suolo, non c’è capacità di ritenzione idrica e se non c’è ritenzione idrica ci sarà bisogno di crescenti quantità di acqua per garantire la fertilità del terreno. E sappiamo che già oggi il 70% dell’acqua potabile nel mondo è utilizzata per irrigazione, e questo è un trend in costante crescita, perché ci siamo completamente dimenticati del ruolo e dell’importanza del carbonio nel suolo.

L’attuale sistema agroalimentare è pronto al collasso. È tenuto in vita solo grazie ad un uso sempre più massiccio di fertilizzanti sempre più potenti. Le risposte che diamo alla crisi della qualità del suolo sono condizionate dalla volontà di produrre sempre maggiori quantità della stessa cosa. E le risposte sono la genetica e la chimica: pesticidi, erbicidi, fungicidi sono il modo in cui rispondiamo. A questi si aggiungono tutti i conservanti che mettiamo nella frutta, perché l’uso della chimica nel cibo non si ferma sul campo. Si inizia dai semi, che sono trattati chimicamente e si finisce con il cibo, che è analogamente trattato a partire dal packaging.

Quando guardiamo a questo cocktail chimico dobbiamo essere consapevoli che non è solo il suolo che stiamo esaurendo, ma è al cibo stesso, per come siamo abituati a pensarlo, che stiamo cambiando identità, definendolo diversamente da come si definisce in tedesco, Lebensmittel, ovvero strumento per la vita. Perché il cibo continui ad essere un mezzo per la vita è forza vitale quella che dobbiamo garantirgli, mentre ciò che stiamo dando è chimica, i cui componenti possono avere anche effetti benefici se presi singolarmente, ma quello che può fare al nostro corpo il cocktail di questi elementi nessuno lo ha mai testato. Le fondamentali contraddizioni dell’attuale sistema agroalimentare sono quindi il consumo d’acqua e di suolo, la produzione di cibo a costi (e prezzi) sempre più bassi, l’ossessione per la chimica.

Ripensando all’oggi tra 50 anni ci chiederemo come sia stata possibile tanta stupidità, come sia stato possibile eliminare l’habitat dell’orangutang solo per avere olio di palma e produrre biscotti da spedire in tutto il mondo confezionati nella plastica.

E in tutto questo mi chiedo: dov’è che si crea profitto? Il profitto si crea nella fase di trasformazione. Tutti sappiamo che non è nell’azienda agricola che si fanno i soldi, perché troppi agricoltori stanno soffrendo. I soldi li fa chi crea il prodotto da vendere al consumatore finale.

E così, forse, è proprio nel sistema attuale che troviamo gli ingredienti per la creazione di un nuovo sistema agroalimentare. È a questo che dobbiamo guardare, non a una rivoluzione che fermi il sistema corrente, ma a ciò che lo fa funzionare e a come questi ingredienti possono essere trasformati in elementi di un modello virtuoso di produzione e consumo.”

È quello che proponi come transizione da un sistema a due dimensioni verso uno “tridimensionale”. Se l’agricoltura di oggi si pensa in termini di geometria piana, cos’è questa terza dimensione che non vediamo o che abbiamo dimenticata?

“Oggi, combinando la migliore genetica con l’eccellenza chimica, da un ettaro di terreno possiamo arrivare a produrre 20, forse 23, perfino 25 tonnellate di biomassa.

Una foresta pluviale produce 500 tonnellate di biomassa per ettaro.

Se l’obiettivo è nutrire il pianeta dobbiamo operare come fa una foresta pluviale, quello stesso ecosistema che oggi distruggiamo per fare spazio alle monocolture e sostenere che questo è il prezzo per assolvere al difficile compito di nutrire il mondo. E invece i numeri dicono chiaramente che non è così: quello che dobbiamo fare è domandarci cosa produce questa enorme differenza. Le foreste di kelp (alghe del genere laminariale) generano su un ettaro, crescendo per diversi metri sotto la superficie del mare, fino a un migliaio di tonnellate di biomassa.

E mentre l’industria vi dirà, “ok, ma quella roba nessuno la vuole mangiare” continuerà a inondarci di junk food. Ma se si è riusciti a rendere saporito perfino un hamburger di McDonald vogliamo veramente credere che sia impossibile fare altrettanto con le alghe? Ovviamente no!

Quello di cui abbiamo veramente bisogno è il livello di produttività di una foresta pluviale, che non depriva, ma invece rigenera la fertilità del suolo, e per ottenere questo la condizione essenziale è riportare il carbonio nel suolo. La foresta pluviale, pur crescendo su un suolo povero, riesce a compiere questo ciclo di rigenerazione. Lo sanno bene le popolazioni native, per le quali i metodi di collaborazione con la natura per conservare la fertilità del suolo sono parte fondamentale del patrimonio culturale, come dimostra la cosiddetta terra preta che si trova nella foresta amazzonica.

Ciò che ci sta dicendo la natura è molto chiaro: datemi tre dimensioni, lasciate che io cresca in altezza per proteggere la vita che altrimenti i raggi ultravioletti distruggerebbero. La capacità di lavorare ‘in 3D’ porta a creare una densità di biomassa che è impossibile anche da immaginare se tutta l’attenzione è riservata al solo chicco della pianta del mais e se si ritiene, come si fa normalmente oggi, che ‘il fertilizzante non va usato per far crescere il gambo’.

Se deve andare tutto nel chicco ciò che otteniamo è una coltivazione sempre più “bidimensionale”, che si avvicina al suolo, in modo che l’azione del fertilizzante vada più diretta all’obiettivo e la chimica risulti più efficiente nell’aumentare la produttività.

In un’agricoltura ‘3D’ la densità si estende in altezza, come accade nelle foreste pluviali dove la grande densità di biomassa vegetale arriva fino a 20 o 30 metri di altezza, e la cui ricchezza viene condivisa con le altre forme di vita. E se il punto è la produttività, guardiamo piuttosto all’acqua, che ha un ulteriore vantaggio, la sua densità: l’acqua è 700 volte più densa dell’aria ed è quindi ovviamente più ricca di nutrienti. È curioso quindi come oggi ci si concentri sulle colture idroponiche per tenere immerse solo le radici, quando fino a una profondità di 20 metri grazie alla luce incidente una pianta totalmente immersa godrebbe del massimo apporto dalle sostanze nutritive che fluttuano nell’acqua. L’agricoltura in 3D, come si vede, è biomimetica, perché la natura è progettata per riprodursi. E chiunque conosca un minimo di geometria, in sostanza, capisce subito che tre dimensioni offrono molto di più di due. Quindi perché mai l’agricoltura dovrebbe focalizzarsi solo sul piano o peggio?

Perché la genetica punta solo a rendere le colture più vicine al suolo? Credo che qui si cada veramente in errore e chi oggi si occupa di biomimetica dovrebbe guardare allo spazio fisico in cui l’agricoltura si colloca, piuttosto che agli insetti o alla singola pianta. C’è meraviglia ovunque in natura, ma la vera meraviglia è il modo in cui usa lo spazio a tre dimensioni, e non c’è dubbio che oggi si possa praticare un’agricoltura che imita questa capacità.

Ma che esperienza abbiamo di uso tridimensionale dello spazio in agricoltura? Con le serre cerchiamo di creare un ambiente ad atmosfera controllata, ma ancora una volta senza capire i modelli di funzionamento della natura. Perché il modo in cui gli ingegneri ritengono che funzioni la natura, non ha nulla a che fare con il modo in cui essa funziona veramente. In una serra, per avere i pomodori o l’insalata anche in inverno riscaldiamo l’aria con enormi costi energetici provocando una elevata evaporazione dell’acqua. Quindi abbiamo poi bisogno di irrigare, e le serre sono tipicamente grandi consumatrici di acqua per metro quadro. Quale è il problema? È che abbiamo dimenticato che le piante non hanno bisogno di aria calda per far crescere le foglie, hanno bisogno di una differenza di temperatura tra radici e foglie che è ciò che permette di avere un flusso ottimale dei nutrienti nella pianta.

Abbiamo inventato l’irrigazione a goccia, grande business per chi produce questi sistemi, ma non è altro che ciò che la natura tende sempre a realizzare, un ambiente in cui si possa verificare una differenza di temperatura tra suolo e ciò che vi cresce sopra tale da consentire il raggiungimento del ‘punto di rugiada’ (dewpoint). In natura è la rugiada che ogni giorno fornisce l’’irrigazione a goccia’ e lo fa da milioni di anni. Altra cosa che abbiamo dimenticato.

Consideriamo un altro fattore: la luce, domandandoci di quanta luce le piante hanno bisogno e anche di che tipo. Oggi usiamo Led per tenere le serre costantemente illuminate. La luce dei Led viene però “letta” dalle piante come luce diurna, ma queste non hanno bisogno di luce diurna perenne, bensì del cambiamento che avviene tra alba e tramonto, che induce processi chimici differenti nei due tipi di clorofilla presenti negli organismi vegetali. Clorofille che permettono alle piante, sulla base di differenze anche minime nella frequenza della luce, di ‘sapere’ in quale parte del mondo si trovano e in quale giorno dell’anno.

Utilizzare tecniche in grado di simulare questi processi naturali ci permette di raggiungere ugualmente i risultati desiderati, e avere la nostra insalata nel giro di due settimane senza aggiungere chimica, genetica o irrigazione a goccia. È qui che abbiamo sbagliato, nel non prenderci il tempo di comprendere come veramente agisce la natura, scegliendo invece sempre delle presunte scorciatoie.”

Pensi che da un modello di agricoltura in 3D possano trarre beneficio anche altri settori? Che possano cambiare anche le relazioni tra attività agricole e altre attività produttive?

“Ritengo che considerare l’agricoltura solo come ‘l’attività che produce il cibo’ è qualcosa che non è mai stato fatto nella storia. È quella semplificazione che ci porta oggi a produrre milioni di tonnellate di cereali per nutrire il bestiame. Ma è assurdo pensare all’agricoltura come responsabile della sola produzione di cibo, perché è intrinsecamente connessa a settori come quello tessile o alla chimica. O alla gestione dell’acqua e infine alla cultura in generale. Non si può separare la parola ‘agricoltura’ dalla parola ‘cultura’. Quello che abbiamo fatto, in realtà è trasformare ‘agricoltura’ in ‘agroindustria’. Ed è per questo che abbiamo bisogno di persone come Carlo Petrini (si veda il suo articolo in queste pagine) che richiamano il legame indissolubile tra cultura e agricoltura, mobilitando milioni di persone intenzionate a cambiare il sistema attuale. Non si possono pensare separatamente attività che incidono sullo sviluppo di un stesso territorio: agricoltura, chimica, trasporto, tutto va pensato come un sistema integrato, e si deve partire da ciò che un territorio ha, per poi pensare a ciò di cui può aver bisogno. Ed è qui che gli economisti sono in errore: si guarda solo a ciò di cui un territorio ha bisogno perché si vuole creare un mercato, perché se non c’è bisogno del mercato... come si fa a creare business? Questo induce una mentalità per cui pensiamo sempre di avere troppo poco. L’economista arriva e ci dice ‘siete troppo piccoli per competere, meglio non farlo’, e così gli agricoltori abbandonano i campi e terreni fertili si trasformano in terreni abbandonati.

Serve un profondo cambiamento nel nostro modo di pensare. Se non lo facciamo perdiamo importanti opportunità di business, ma perdiamo anche possibilità di sviluppo per il territorio. Ed è esattamente in questa direzione che siamo andati finora, direzione che ci ha portati alla crisi, all’abbandono dell’agricoltura da parte dei giovani, alla riduzione di tutto a competizione su mercati delle commodities, cosa che rende del tutto superflua la valorizzazione di quegli effetti a cascata cui ci porterebbe l’adozione di un modello diverso. Che permetta di pensare al di fuori del solo core business, in un sistema che integra produzione agricola, energia rinnovabile e nuova chimica.”

G. Pauli, Economia in 3D – L’intelligenza della natura, 2018 Edizioni Ambiente www.edizioniambiente.it/libri/1208/economia-in-3d

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