Finanziamenti a fondo perduto che hanno spesso nutrito le clientele della classe politica meridionale e portato alla costruzione di cattedrali nel deserto, impianti senza alcuna relazione con il territorio e, in molti casi, del tutto incuranti del loro impatto negativo sull’ambiente e sulla salute umana. Si potrebbe sintetizzare così la storia dell’industrializzazione forzata del Sud Italia nel secondo dopoguerra. Ma oggi questa parte del paese, ancora così profondamente distante dal Nord in termini di occupazione e ricchezza, come impietosamente fotografano anno dopo anno le analisi dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), sembra aver trovato nella bioeconomia una nuova leva di sviluppo economico in grado di rigenerare, in armonia con il tessuto agricolo e rurale locale, siti industriali dismessi. Matrìca a Porto Torres, GFBiochemicals a Caserta, Mossi Ghisolfi a Modugno, Versalis a Gela sono alcuni casi emblematici di come sia possibile conciliare economia ed ecologia per creare benessere.

Il Sud Italia ha una nuova chance per ripartire, un ultimo treno da prendere a ogni costo. Intanto lo scorso giugno ha incassato i nuovi dati positivi comunicati dall’Istat secondo cui, dopo sette anni di cali ininterrotti, il prodotto interno lordo è tornato a salire (+1%) insieme alla percentuale degli occupati (+1,5%). A trainare la ripresa è stata soprattutto una sostanziosa crescita del comparto agricolo (+7,3%), mentre l’industria in senso stretto è rimasta pressoché congelata. Una boccata di ossigeno che la chimica verde, fortemente collegata alla filiera agricola e forestale, è chiamata oggi a espandere nel settore industriale. 

Il modello lo offre Matrìca in Sardegna, la joint venture tra Novamont e Versalis che a Porto Torres sta realizzando – afferma la stessa Novamont – “il più grande e innovativo polo integrato di chimica verde al mondo, un nuovo modello di economia che coinvolge industria, agricoltura, ambiente ed economia locale in un grande progetto di riqualificazione e innovazione”. Una volta completato, entro il 2017, il progetto interesserà un’area di circa 27 ettari, con diversi impianti per una capacità complessiva pari a circa 350.000 tonnellate l’anno di bioprodotti (bioplastiche, biolubrificanti, prodotti per la cura della casa e della persona, fitosanitari, additivi per l’industria della gomma e della plastica, fragranze alimentari).

“Il nostro obiettivo – afferma Giulia Gregori, responsabile Pianificazione strategica di Novamont – è di collaborare con gli attori del territorio per trasformare feedstock da fonti rinnovabili non alimentari, compatibili con il territorio e coltivati su terreni marginali, in bioprodotti; il tutto senza incidere sulla catena alimentare né depauperare altre risorse. Matrìca rafforza la capacità competitiva e di innovazione del territorio su più fronti: dal settore primario (agricoltura, allevamento, per fare alcuni esempi), a quello secondario (mezzi e attrezzi agricoli, logistica, manifatturiero di trasformazione dei bioprodotti), fino al terziario (collaborazioni con le università ed enti di ricerca locali)”.

Dall’altra parte del mar Tirreno, a Caserta, si trova il primo impianto al mondo che produce acido levulinico da biomassa. A realizzarlo è stata la GFBiochemicals, una società fondata nel 2008 da due giovani imprenditori, Pasquale Granata e Mathieu Flamini (il famoso calciatore ex Milan e Arsenal, oggi al Crystal Palace), che oggi compete con i big della chimica mondiale producendo un intermedio chimico al 100% rinnovabile con numerose applicazioni industriali: dalla farmaceutica alla cosmetica, fino alle vernici e agli additivi per carburanti. Nel 2015 la società casertana ne ha prodotto 2.000 tonnellate e punta ad arrivare a 10.000 tonnellate nel 2017 e a 50.000 tonnellate entro il 2019. Una vera e propria rivoluzione, se si pensa che i vertici dell’impresa sono certi di poter offrire al mercato, nel giro di pochi anni, l’acido levulinico biobased a un prezzo di un dollaro al chilo, contro gli attuali 4-5 dollari al chilo dell’omologo prodotto dal petrolio, e garantendo le stesse prestazioni.

 


©GFBiochemicals

 


©Novamont - Piana di Monte Verna

 

“La bioeconomia – sostiene Granata – ha un enorme potenziale, genera posti di lavoro e aiuta l’economia locale. L’acido levulinico derivato dalla biomassa può aiutare a realizzare un’ampia gamma di prodotti a più alta sostenibilità. Siamo in grado di rivitalizzare le regioni agricole, allargando i mercati nei quali gli agricoltori possono vendere i loro prodotti. Proprio per questo motivo con Mathieu Flamini abbiamo deciso nel 2008 di iniziare questo incredibile progetto e investire per fare della GFBiochemicals l’azienda che è diventata oggi”.

Per consolidare la propria posizione di leadership nel mercato dell’acido levulinico, la società casertana ha acquisito lo scorso febbraio asset e proprietà intellettuali (oltre 250 brevetti) di Segetis, il principale produttore di derivati da acido levulinico nel mercato statunitense. 

“Questa acquisizione – dice Granata – ha rappresentato un momento fondamentale per GFBiochemicals, segnando l’inizio della nostra strategia di crescita sul mercato. Continueremo il nostro piano di sviluppo basato sulla crescita organica, sulla creazione di importanti partnership, su potenziali acquisizioni future di tecnologie relative a derivati dell’acido levulinico”.

Sempre in provincia di Caserta (a Piana Monte Verna) si trova il centro di ricerca sulle biotecnologie di Novamont. Un altro caso esemplare di come la chimica verde possa contribuire a ridare slancio a tessuti industriali in crisi. Sì, perché il centro di ricerca della società guidata da Catia Bastioli altro non è che il ramo d’azienda di Tecnogen, il centro di ricerca sulle biotecnologie controllato da Sigma Tau Finanziaria, per mesi in liquidazione prima di essere acquistato da Novamont alla fine del 2012. 

“La chiusura di Tecnogen – ha dichiarato Catia Bastioli alla conclusione dell’acquisizione – avrebbe comportato la perdita di uno straordinario patrimonio di impianti e tecnologie per lo sviluppo di processi fermentativi e la dispersione di importanti competenze e conoscenze maturate in questi anni sul territorio campano. La nostra iniziativa ha l’ambizione di voler dimostrare che il nuovo settore della bioeconomia basato sull’innovazione continua può accelerare lo sviluppo, sapendo utilizzare per la crescita del paese competenze altrimenti disperse”.

Dalla Campania alla Puglia, Modugno (provincia di Bari) ospita il centro ricerca di Biochemtex (Gruppo Mossi Ghisolfi) per lo sfruttamento della lignina per produrre paraxilolo e, da questo, il paraxilene, uno dei costituenti insieme al glicole etilenico (già ottenibile da biomasse) del polietilene tereftalato (il Pet utilizzato per produrre le comuni bottiglie di plastica). L’obiettivo della ricerca è ottenere Pet interamente da risorse rinnovabili non concorrenti con il consumo alimentare. In una situazione di stallo si trova, invece, il progetto di costruzione di un impianto dimostrativo della tecnologia Moghi per la trasformazione della lignina, sottoprodotto della bioraffineria, in biochemicals, in particolare in composti aromatici suscettibili di impiego nella produzione di materie plastiche. L’impianto dimostrativo, di taglia semi-industriale (2.000 m2), dovrebbe processare la materia prima (lignin cake) proveniente dall’impianto industriale di Crescentino (Vercelli). 

Un impianto dimostrativo già attivo nel Sud Italia è quello dell’Enea a Rotondella, in Basilicata. Qui la società canadese Comet Biorefining sta testando la propria tecnologia per la produzione di glucosio cellulosico da biomassa non alimentare. Nel campo della chimica verde il Centro ricerche Trisaia dell’Enea rappresenta un vero fiore all’occhiello della ricerca italiana, riconosciuto a livello internazionale, soprattutto con riferimento all’utilizzo delle biomasse come fonte energetica per la produzione di elettricità e calore in impianti di piccola taglia (filiere agro-energetiche locali) e in quello dei biocarburanti di seconda generazione. 

La Basilicata è così la prima regione italiana che ha messo insieme i cluster della chimica verde e dell’agroalimentare per costituire il cluster della bioeconomia (Biogreen), presentato ufficialmente lo scorso marzo a Metaponto, insieme alla prima strategia regionale definita nell’ambito della S3 (Strategia di specializzazione intelligente) della Regione Basilicata. 

“Il nostro obiettivo – ha dichiarato Raffaele Liberali, fino a giugno assessore alle Attività produttive della Basilicata – è quello di partecipare a pieno titolo a livello nazionale ed europeo alle strategie di sviluppo di questo settore e di far diventare la Basilicata una regione pilota in tale campo. Lo scopo della bioeconomia prevede che i rifiuti da scarto diventino una materia prima importante. Questo è alla base del concetto dell’economia circolare in cui niente si disperde e tutto si ricicla. In Basilicata certamente c’è un problema rifiuti: dobbiamo smettere di pensarli come scarti da smaltire, ma piuttosto come materia prima da utilizzare”.

Proprio in questa direzione sta andando anche la Sicilia, pur in assenza di una strategia regionale. Qui lo sviluppo della chimica verde si inserisce in un percorso di bonifica, recupero e riconversione della raffineria di Gela, sui cui pende una richiesta di rinvio a giudizio, emessa lo scorso marzo dalla procura della Repubblica di Caltanissetta, per 22 dirigenti e tecnici dell’Enimed e della società Eni “Raffineria Gela” con l’accusa di disastro ambientale. Tutti dovranno rispondere anche delle omesse bonifiche, di getto pericoloso di cose e di violazione dei codici ambientali.

La via di uscita per Gela è il progetto della Green Refinery, contenuto nel protocollo di intesa siglato il 6 novembre 2014 al ministero dello Sviluppo economico tra Eni, le organizzazioni sindacali, le istituzioni e Confindustria, che prevede, attraverso la valorizzazione degli impianti esistenti e l’applicazione di tecnologie proprietarie, di convertire materie prime non convenzionali di prima (olio di palma) e seconda generazione (grassi animali, olii di frittura) in green diesel, green Gpl e green nafta. Inoltre, il protocollo contempla la realizzazione di un polo logistico per la spedizione dei greggi di produzione locale e dei carburanti green prodotti. L’entrata in esercizio della Green Refinery, che a regime occuperà 400 dipendenti Eni, è prevista entro la fine del 2017. Nel frattempo, a febbraio, nella sede della presidenza della Regione siciliana, è stata firmata una lettera di intenti che impegna Eni, Esa (Ente di sviluppo agricolo) e la stessa Regione a preparare uno studio di fattibilità per la coltivazione sperimentale del guayule, con l’obiettivo di avviare un progetto per la produzione di lattice di gomma naturale, seguendo lo sviluppo della relativa filiera agricola. Al riguardo, a inizio giugno, Eni ha comunicato che è stato concluso il trapianto di 100.000 piantine di guayule presso due aziende agricole appartenenti all’Ente di sviluppo agricolo della Regione Sicilia. I primi risultati saranno disponibili a partire dalla seconda metà del 2017.

Dalle grandi imprese a quelle piccole. In Sicilia è chimica verde anche il progetto di due giovani catanesi, Enrica Arena e Adriana Santanocito, che nel febbraio 2014 hanno costituito la startup Orange Fiber con l’obiettivo di creare un tessuto sostenibile, in grado di rispondere alle esigenze d’innovazione della moda, utilizzando le 700.000 tonnellate di sottoprodotto derivato ogni anno dall’industria di trasformazione agrumicola italiana. Il primo prototipo di tessuto creato dagli agrumi è stato presentato nel settembre 2014, grazie ai fondi del bando Seed Money di Trentino Sviluppo. Poi, nel dicembre 2015 – anche con il finanziamento di Smart&Start Invitalia – è stato inaugurato a Caltagirone il primo impianto pilota per la trasformazione del pastazzo di agrumi in cellulosa atta alla filatura. Tra i numerosi premi che sono stati assegnati alla startup siciliana spicca il Global Change Award, iniziativa dedicata all’innovazione nell’industria della moda lanciata dall’organizzazione no profit svedese H&M Conscious Foundation.

Secondo i dati impietosi consegnati dal Rapporto Svimez 2015 (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) sull’economia del Mezzogiorno, dal 2000 al 2014 il Sud Italia è cresciuto la metà della Grecia. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati del 38%, mentre il calo al Centro-Nord è stato pari al 27%, con una differenza di 11 punti percentuali. Negli stessi anni gli investimenti nell’industria hanno segnato -59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%). 

È da qui che prova a ripartire il Mezzogiorno. La bioeconomia è davvero l’ultima sfida. Da vincere a ogni costo.

 

Orange Fiber, www.orangefiber.it