“I nostri sistemi di analisi mostrano che a scala globale siamo arrivati al punto di non ritorno dell’espansione dei terreni agricoli”: così si è espresso Johan Rockström nell’intervista pubblicata nel n. 2 di questa rivista. Lo scienziato svedese ha posto quindi un interrogativo drammatico: “Stiamo considerando seriamente la minaccia degli effetti del cambiamento climatico, che nei prossimi anni porterà a sempre maggiori shock sulla produzione agricola?”.

Le pratiche agricole correnti sono contemporaneamente una delle maggiori cause della crisi ambientale e l’ambito forse maggiormente esposto ai suoi effetti. La ricerca di risposte a questo stato di fatto non può che iniziare tra i soggetti che operano sulla linea più “calda” del fronte, tra le aziende del sistema agroalimentare, dove il rapporto tra attività economica e capitale naturale è diretto, e la sua tutela una necessità.

Barilla, seconda maggiore compagnia italiana del settore per fatturato, ha attivato da alcuni anni un progetto per la sostenibilità nella filiera, pensato per produrre effetti postivi sui diversi “capitali” coinvolti dalla sua attività: naturale, sociale ed economico. Durante un incontro presso la nostra redazione, Luca Ruini, referente dell’azienda su queste tematiche, ci ha raccontato la genesi e le ricadute del progetto. Un modello anche per filiere diverse dal grano duro.

 

“Il progetto di agricoltura sostenibile è nato da una curiosità. Sono ormai parecchi anni che svolgo analisi del ciclo di vita dei prodotti alimentari, calcolando in che maniera sono distribuiti gli impatti ambientali lungo la filiera agroalimentare. La prima volta che feci questo tipo di analisi su un pacchetto della nostra pasta, più di dieci anni fa, rimasi sorpreso: mi aspettavo di trovare i maggiori impatti ambientali nelle fasi di trasporto, produzione e packaging, e invece venne fuori che gli impatti più rilevanti erano legati alla fase agricola e a quella di cottura della pasta. Ovviamente, questo non fece sospendere le attività sugli altri aspetti, ma mi portò a cercare di capire come si sarebbero potuti ridurre gli impatti in particolare sulla fase a monte della produzione, ossia durante la coltivazione. E quindi chiesi ai colleghi che si occupavano di migliorare la qualità del grano di indicarmi a chi potevo rivolgermi per capire in che modo ottimizzare in particolare l’uso dei fertilizzanti e della chimica in generale. Venni indirizzato verso chi per noi eseguiva, in campi sperimentali, prove agronomiche per migliorare la qualità del grano.

La cosa interessante che emerse fu la disponibilità di una mole di dati e di analisi storiche che potevano servire per fare una comparazione tra diverse modalità di coltivazione. Si evidenziò come la corretta rotazione tra specie diverse che migliorano la fertilità del terreno (come le leguminose) e specie che assorbono i nutrienti consentisse di ottimizzare l’uso di fertilizzanti, riducendone le quantità immesse, e di chimica in generale. Chiesi quindi di effettuare un’analisi sulle rotazioni che in quel momento venivano praticate, nelle diverse aree da cui la nostra azienda acquista il grano – nel Nord, Centro e Sud Italia – e comparare i risultati con quelli che si sarebbero ottenuti con delle rotazionie pratiche più efficienti, alternative, adattate ai diversi contesti locali, per migliorare l’uso dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari in genere. E chiesi, inoltre, di condurre l’analisi con un mix di indicatori, ambientali (ad esempio carbon footprint, consumo d’acqua...) e agronomici ‘classici’ (efficienza, costo, riduzione del rischio). L’analisi produsse un risultato inaspettato: al Centro e Sud d’Italia tutte le soluzioni alternative di corretta rotazione proposte producevano benefici rispetto a tutti gli indicatori: avevano minore impatto ambientale, in alcuni casi aumentavano la resa e contraevano anche i costi, oltre a ridurre il rischio della presenza di determinate malattie. Ho rifatto i calcoli tre volte, perché prima di andare in azienda a raccontare una roba del genere, bisogna essere sicuri...

Trovo che sia un esempio ‘da manuale’ di sostenibilità: cambiando il punto di vista si sono recuperate alcune vecchie pratiche (corretto avvicendamento colturale) e in effetti, quando non esistevano i fertilizzanti chimici, o ruotavi correttamente le colture oppure il terreno si impoveriva, si specializzavano malattie e erbe infestanti e non si riusciva a coltivare più niente.”

 

Come si è passati poi alla messa in pratica del progetto, sulla base delle evidenze emerse dalle analisi?

“In effetti il secondo passaggio era molto delicato: io sono ingegnere elettronico e se vado a parlare agli agricoltori proprio non mi credono. Quindi è stato necessario un passaggio intermedio per testare il modello nella pratica. Scegliemmo alcune aziende agricole al centro, al nord e al sud che tipicamente lavoravano con noi per il miglioramento qualitativo della coltivazione del grano e provammo a confrontare sistemi di coltivazione tradizionale (spesso in mono successione) e con l’impiego di queste rotazioni. In più, venne messo a punto un Sistema di supporto alle decisioni (Dss) per consentire agli agricoltori di adottare strategie mirate. Si tratta di utilizzare modelli di previsione dell’insorgenza di malattie che raccomandano quando e come impiegare fertilizzanti e fitofarmaci in funzione dell’andamento climatico, e quindi meteo. Inserendo in una piattaforma web dati sul tipo di terreno, su che varietà si è seminata nell’anno in corso e quale invece nell’anno precedente, e associando ai dati di una centralina meteo collocata in prossimità del campo, si ottengono indicazioni su cosa fare e quando, al fine di ottimizzare l’agrotecnica.

Spesso in passato gli agricoltori effettuavano trattamenti chimici (fertilizzazione, diserbo e fungicidi) a ‘calendario’ senza valutare il reale stato delle colture o la reale infestazione (malattie o malerbe).

Con questo nuovo sistema di supporto alle decisioni, sul web l’indicazione che si ha è ‘tratta solo se e quando ne hai bisogno’, ovvero se le condizioni climatiche rendono probabile l’insorgenza di malattie. Altrimenti, non fare nulla.”

 

E sul piano dei risultati che riscontri si sono avuti?

“Dai campi sperimentali, nel corso di tre anni consecutivi, abbiamo avuto esattamente una conferma dei risultati teorici e da lì abbiamo costruito un decalogo, la base con cui andare a raccontare agli agricoltori come pensavamo di poter suggerire loro di coltivare in modo più sostenibile e con maggiore efficienza. Inoltre, abbiamo iniziato ad ampliare la base di test in modo da avere maggiori conferme e coinvolgere sempre più agricoltori. Per arrivare all’anno scorso quando, usciti dalla fase di sperimentazione, sono state raccolte oltre 80.000 tonnellate, pari quasi a un terzo delle quantità che acquistiamo ogni anno in Italia. 

Un risultato che si è potuto ottenere grazie al fatto che ormai da più di 15 anni abbiamo stipulato con i nostri fornitori dei contratti di coltivazione.”

 

La guida Barilla per la coltivazione sostenibile del grano duro di qualità in Italia
1. Rotazione delle colture
2. Ara il suolo con rispetto
3. Usa le varietà più adatte
4. Usa solo semi certificati e trattati
5. Semina quando è il momento
6. Usa la giusta quantità di semi
7. Controlla subito le specie infestanti
8. Dosa l’azoto in funzione dei bisogni delle piante
9. Proteggi le piante dalle malattie
10. Fai diventare sostenibile tutto il sistema di coltivazione

 

Di cosa si tratta?

“Stipuliamo da molti anni dei contratti di coltivazione con le organizzazioni dei produttori, sia per garantirci la qualità (per produrre la pasta è necessario che il grano abbia determinate caratteristiche qualitative soprattutto in termini contenuto proteico) sia per garantirci i quantitativi necessari a mantenere il nostro elevato volume di produzione. Avendo già questa base di rapporti consolidati, abbiamo previsto in questo tipo di accordi l’utilizzo del Dss messo a disposizione gratuitamente e il rispetto del Decalogo per la coltivazione del Grano Duro di Qualità, oltre che l’impiego di varietà di alto livello qualitativo. Grazie a questa combinazione di strumenti siamo arrivati ad avere a disposizione oltre 80.000 tonnellate di grano, delle quali sappiamo chi le ha coltivate e dove. Dietro a questo sistema di supporto delle decisioni c’è il lavoro svolto dallo spin off Horta dell’Università di Piacenza che offre all’agricoltore strumenti semplici da leggere che però hanno alle spalle un livello di complessità molto elevato e quindi un know-how importante. Il risultato – e qui parliamo di effetti sul capitale umano e sociale – è che si sono trasferite al mondo agricolo una serie di competenze che consentono di svolgere le pratiche agronomiche in modo corretto e più sostenibile.”

 

Quindi si è trattato di una strategia articolata, che integrava ricerca, utilizzo di strumenti già in essere, definizione di un decalogo, trasferimento di competenze. Questa esperienza si è sviluppata in particolare in Italia o anche in altri luoghi?

“Siamo partiti in Italia, perché in Italia ovviamente c’è il più grosso bacino di utilizzo di grano duro, ma non ci siamo fermati qui, anzi. Stiamo estendendo l’utilizzo di questi strumenti alla Grecia e alla Turchia, rilevando differenze significative. In Francia – dove invece il mondo dell’agricoltura è già molto più organizzato, le competenze ci sono, le aziende sono più grandi, ci sono supporti agronomici importanti – abbiamo trovato chi già applicava questo tipo di pratiche in maniera strutturata e da parecchio tempo. Lì si è trattato solo di individuare e calcolare quali fossero gli impatti per le singole produzioni.

E stiamo sviluppando un progetto anche negli Stati Uniti. La cosa interessante è che quando feci i primi calcoli legati agli impatti ambientali del grano duro, ricevetti una telefonata dal Canada in cui si sosteneva che i miei dati erano sbagliati e mi si spiegava il perché. Cosa succedeva? Che anche lì avevano adottato il metodo delle rotazioni tra lenticchie e piselli perché già trent’anni fa era nata addirittura un’associazione, Pulse Canada, con l’intento di insegnare agli agricoltori come coltivare in rotazione le alternative ai cereali. Il Canada è un paese esportatore e per essere competitivi sul mercato europeo era necessario ridurre l’utilizzo di fertilizzanti. In questo modo, partendo da un puro criterio di efficienza, hanno ridotto anche gli impatti ambientali. Negli ultimi trent’anni hanno ridotto del 30% consumi e impatti, adottando in modo strutturato questo tipo di pratiche agronomiche. E i risultati che hanno trovato i canadesi sono gli stessi che abbiamo trovato noi. Da quando abbiamo iniziato a rendicontare i risultati che si ottenevano applicando le corrette rotazioni abbiamo rilevato riduzioni fino al 30%, quindi numeri grossi: vuol dire 400 kg di CO2 equivalente per tonnellata di grano duro. Quindi se faccio solo esattamente quello che devo fare, quando è necessario farlo in funzione delle condizioni microclimatiche, solo con questo riduco impatto ambientale e costi, miglioro la resa, diminuisco il rischio di malattie; perché faccio le cose che servono quando servono.”

 

Un modo di operare che mette in discussione il processo di crescente standardizzazione che l’agricoltura ha visto in questi ultimi cinquant’anni.

“Sì, in agricoltura sostenibilità vuol dire essere capaci di adattarsi al contesto: cambia il contesto, cambia la soluzione. Posso avere lo stesso modello di analisi, ma poi le soluzioni sono diverse. 

Se cambio l’area geografica dove coltivo, cambia il tipo di rotazione che devo fare perché devo mettere insieme le caratteristiche del terreno, le condizioni climatiche e quali materie prime vengono richieste localmente. Un esempio: in Emilia Romagna, Barilla acquista pomodoro, basilico e grano duro, quindi ha la possibilità di proporre all’agricoltore di ruotare questi tre tipi di colture e sono io, Barilla, che direttamente gliele acquisto. Facile no?”

 

Che risultati si sono avuti nella valorizzazione di un bene comune chiave come il suolo?

“La modalità di coltivazione adottata preserva la qualità del suolo, perché decido quanto terreno uso, se aro, quanto aro, come semino. Nel decalogo che proponiamo ci sono una serie di raccomandazioni che vengono applicate in funzione del contesto e di quello che ho coltivato prima: e questo ha un impatto molto differente rispetto alla qualità del terreno. Effettuando correttamente le rotazioni, per esempio, posso raggiungere un equilibrio che mi consente di ridurre l’utilizzo fertilizzanti.”

 

Intervenendo quindi su un’ampia gamma di quelle che si definiscono, con un certo gusto del paradosso, “esternalità”…

“Oggi c’è in generale meno cura del territorio e quindi abbiamo provato a capire se promuovendo un determinato modello di agricoltura si possono avere impatti positivi da questo punto di vista. Soprattutto applicandolo su aree ‘svantaggiate’, dove normalmente non andrei per una serie di motivi, soprattutto economici. Ci interessava vedere che tipo di beneficio potrebbe portare rispetto alle comunità e in che maniera potrebbe essere valorizzato. Sono pochissimi gli studi che provano a quantificare, per esempio, il danno provocato da un terreno lasciato in abbandono. Il costo del non fare, in sostanza. E, sia chiaro, non lo facciamo per filantropia, ma per capire se e come alcune pratiche agronomiche dovrebbero essere sostenute proprio per garantire la tutela del territorio. Servirebbe un’accurata valutazione costi/benefici, che ancora manca.”

 

Quindi avete sperimentato l’applicazione di questo tipo di procedure su aree marginali o svantaggiate?

“Non ancora. Stavamo pensando di poter verificare su qualche area, soprattutto nel Sud Italia.

Al sud in alcuni casi chi possiede la terra non la coltiva e la affida a terzisti, che hanno interesse solo a seminare e raccogliere, non ad aver cura del terreno. Il grano è molto semplice da coltivare e quindi ci sono alcune zone a vocazione grano duro che hanno sfruttato eccessivamente il terreno e trascurato la cura del territorio. 

Questo però ci ha condotti a capire, ancora una volta, che bisogna cambiare il punto di vista: il problema a questo punto non è il rapporto tra l’azienda Barilla e l’agricoltore per avere una determinata quantità di grano, ma è come riuscire a ottimizzare dal punto di vista economico e ambientale quello specifico terreno. Il punto di vista è quello del terreno. Quindi ho fatto un ragionamento con i miei colleghi dicendo: facciamo contratti di coltivazione per il grano duro, ma poi noi acquistiamo anche lo zucchero, acquistiamo anche il pomodoro, il basilico, e spesso esattamente nelle stesse aree, dagli stessi produttori, le stesse cooperative. La domanda che feci loro era: c’è la possibilità di mettersi intorno a un tavolo con i vari altri attori, cioè chi coltiva i pomodori, chi coltiva la barbabietola da zucchero per capire se c’è la possibilità di proporre delle rotazioni tra queste colture che sono correttamente complementari dal punto di vista agronomico per nutrire correttamente il terreno? Non era mai stata fatta una proposta di questo genere. Oggi siamo già arrivati a firmare quattro accordi che possono permettono all’agricoltore di fare una corretta programmazione dell’uso del suolo. È un modo di relazionarsi molto differente, che mette al centro il terreno, il capitale naturale, e in ultima analisi il bene comune. Nel giro di un anno e mezzo siamo riusciti a mettere attorno a un tavolo e a firmare accordi cui mai nessuno aveva pensato. Perché il punto di vista era diverso.”

 

 

Cambiare il punto di vista vi ha permesso di intervenire contemporaneamente e in modo efficace sul capitale naturale e su quello umano, quindi sul livello di partecipazione di questi soggetti anche a livello di consapevolezza rispetto a come è fatta la filiera. Da questo punto di vista come commenti i risultati ottenuti?

“Da un lato ne sono sorpreso, perché è interessante vedere come effettivamente un approccio di sostenibilità ti mette in condizione di guardare un problema da un punto di vista differente. E ovviamente conduce a soluzioni differenti, che mettono insieme e ottimizzano più aspetti: quello del capitale naturale e quello economico, perché comunque gli agricoltori spendono meno e quindi hanno beneficio anche a livello dell’azienda. Inoltre la maggiore e più costante disponibilità di grano duro di qualità mi permette di acquistare, attraverso i contratti di coltivazione, la materia prima di cui ho bisogno. Una serie di benefici a cascata. L’altra cosa positiva è che si introduce un elemento di programmazione che negli ultimi anni, a livello sia nazionale sia locale è stato assente. Non è facile far capire che agendo in un certo modo si ottiene un vantaggio generale. Bisogna che interessi diversi riconoscano che c’è un interesse comune che è utile e conveniente per tutti perseguire. Adottare il punto di vista del terreno non è proprio usuale, c’è di mezzo il mercato con le sue dinamiche che non sono legate solo ai costi di produzione ma anche a quanto è piovuto in Canada o al tempo che ha fatto in Australia. Ma si tratta di un cambiamento di ottica necessario, che porta le aziende a domandarsi come lavorare con la filiera. Cosa non facile, perché si sta lavorando su sistemi complessi, con tanti soggetti. Ma è una strada obbligata a mio avviso.”

 

La risposta c’è stata?

“Certo, anzi quest’anno ci aspettiamo addirittura un ulteriore aumento. Una volta abbiamo inserito in questi progetti un agricoltore legato a Coldiretti, che inizialmente doveva fare solo un appezzamento. Poi, quando ha scoperto quanto poteva risparmiare ha applicato lo stesso strumento su tutto il suo terreno e ha iniziato a raccontarlo, che era proprio quello che volevamo. All’inizio avevamo fatto fatica a convincerlo, ma quando ha capito come funzionava e quali risultati ci aspettavamo che avesse, e i risultati sono arrivati… è perfetto.”

 

E le ricadute in termini di miglioramento di qualità del prodotto?

“Ovviamente c’è un aumento della qualità del prodotto perché una delle caratteristiche principali è la quantità di proteine, e la quantità di proteine nel grano è strettamente legata a quanti nutrienti trova la pianta nel suolo. Inoltre, storicamente Barilla partecipa ed è coinvolta in un’attività di miglioramento della qualità delle varietà di grano, lavorando sulle modalità di coltivazione. Negli ultimi anni abbiamo introdotto nuove varietà di grano di alta qualità adatte alla pastificazione. In particolare, abbiamo selezionato più di una varietà che avesse le stesse caratteristiche qualitative dei migliori grani statunitensi, ma fosse adatta alle condizioni ambientali del Nord e del Centro-Sud Italia. 

Portare in Italia la produzione di queste 40.000 tonnellate di grano duro di alta qualità – che prima venivano coltivate nelle zone a clima desertico degli Stati Uniti – ha significato un risparmio di acqua di irrigazione pari a 35 milioni di metri cubi/anno. Là veniva irrigato, qui da noi no. Nei propri stabilimenti nel mondo Barilla impiega annualmente dai 2 ai 3 milioni di metri cubi di acqua; questo dà le proporzioni del risparmio di risorse idriche conseguito.”

 

L’ultima domanda, la domanda chiave per un’azienda, è quella sulla convenienza economica di questo tipo di strategia.

“La cosa che mi ha stupito di questa operazione è che tanto riducevamo l’impatto ambientale e tanto più si riducevamo i costi di produzione. Come già detto: l’agricoltore ha minori costi da sostenere, l’azienda ha la qualità e la quantità di grano di cui ha bisogno. Un vantaggio importante: con i contratti di coltivazione posso prevenire situazioni di scarsità di approvvigionamento e di aumento dei prezzi. In questo modo lo scorso anno abbiamo coperto buona parte del fabbisogno. Un aspetto fondamentale di supply security. Diversamente, saremmo in condizione di dover comprare il grano in giro per il mondo, rischiando di pagarlo di più rispetto a quello che facciamo coltivare. E in Italia cerchiamo di farlo in prossimità di impianti di macinazione. Minor, costo, minor impatto ambientale. La convenienza è evidente.”

 

Info

www.barilla.it