Un fantasma si aggira per il mondo: il “picco”. 

È un concetto perfino ovvio da un certo punto di vista: se sfruttiamo una risorsa non rinnovabile, la produzione deve per forza partire da zero all’inizio dello sfruttamento, per poi arrivare a zero quando la risorsa è completamente esaurita. Fra questi due estremi, ci deve essere per forza un massimo: e questo lo possiamo chiamare “picco di produzione”. È un fenomeno del tutto generale che coinvolge non solo le risorse non rinnovabili, ma anche quelle rinnovabili se le sfruttiamo più rapidamente di quanto non si possano ricostituire. Così, capire i meccanismi che portano al picco e quali ne sono le caratteristiche è fondamentale per comprendere come si sia arrivati a costruire quell’entità un po’ nebulosa che chiamiamo oggi “civiltà” e che non potrebbe esistere nella sua forma attuale senza un flusso continuo di energia e risorse a buon mercato. Risorse che oggi provengono principalmente da fonti minerali. 

Quando questi flussi dovranno necessariamente ridursi (nel “dopo-picco”) cosa ne sarà della nostra civiltà?

Per capire il concetto di picco, dobbiamo tornare indietro nella storia a quando fu proposto per la prima volta dal geologo americano Marion King Hubbert nel 1956. Hubbert si occupava di petrolio e secondo la sua interpretazione, la produzione petrolifera negli Stati Uniti meridionali (quindi Alaska esclusa) avrebbe seguito una curva dalla forma di campana, raggiungendo un massimo verso il 1970, per poi declinare. Quel massimo era il primo esempio di picco di produzione relativo a una risorsa. 

Hubbert fu contestato, insultato e, in alcuni casi, idolatrato per la sua previsione che tuttavia si rivelò sorprendentemente azzeccata quando nel 1971 la produzione petrolifera degli Stati Uniti raggiunse un massimo e iniziò un lungo periodo di declino. Da lì, Hubbert proseguì a stimare il picco di produzione petrolifero planetario come “intorno al 2000”, un evento che successivamente divenne noto come peak oil (letteralmente “petrolio di picco”) secondo una definizione del geologo inglese Colin Campbell. Questa previsione si rivelò meno buona: siamo nel 2014 e non vediamo ancora un picco globale della produzione petrolifera, che continua ad aumentare debolmente, soprattutto per mezzo delle risorse petrolifere “non convenzionali” (dal petrolio di scisto ai bitumi canadesi) che Hubbert non conosceva o non aveva considerato al suo tempo. 

A distanza di oltre mezzo secolo dalla prima esposizione delle idee di Hubbert, possiamo dire che la teoria si è rivelata spesso molto imprecisa nel tentativo di prevedere in anticipo la data del picco di una determinata risorsa. Allo stesso tempo, tuttavia, si è rivelata una specie di “chiave inglese universale” che ci permette di interpretare un gran numero di casi sull’andamento storico della produzione di risorse; non solo petrolio, non solo risorse minerali, ma anche risorse teoricamente rinnovabili se queste sono sfruttate più rapidamente di quanto non si possano ricostituire. Gli esempi abbondano e a tutt’oggi uno dei più classici casi di curva di Hubbert è quello della produzione dell’olio di balena negli Stati Uniti nel secolo 19°. Il tipo di balena cacciato a quel fine (la “balena franca”, right whale in inglese) fu portato fino alla quasi completa estinzione; ancora oggi la sua popolazione non si è nemmeno lontanamente riavvicinata alle dimensioni che aveva prima dell’inizio della caccia. Ci sono molti altri esempi di questo genere nella storia economica del mondo: fra questi, l’estrazione del carbone in Inghilterra e in altri stati europei, l’estrazione di oro in California, l’estrazione del mercurio ecc. 

La “curva di Hubbert” come era stata originariamente presentata nel 1956 in relazione alla produzione di petrolio negli Stati Uniti. La produzione reale ha seguito abbastanza bene la curva (quella più in alto tra le due presentate nel grafico) fino a pochi anni fa, quando il boom del petrolio di scisto ha cambiato la situazione, portando a una nuova fase di espansione produttiva che dovrebbe arrivare a un nuovo picco nei prossimi anni.

Fonte: M. K. Hubbert, “Nuclear Energy and the Fossil Fuels” Spring Meeting of the Southern District Division of Production American Petroleum Institute, 1956.

Così, il concetto di picco si è rivelato fecondo, in particolare generando quel movimento di pensiero che viene chiamato a volte dei “picchisti” (un termine non sempre considerato un complimento). Tuttavia, è rimasto anche “trasparente” – ovvero del tutto invisibile – per il pubblico come pure per i politici, i decisori, e la maggioranza degli economisti. Come affermò Thomas Henry Huxley le nuove verità nascono come eresie e muoiono come superstizioni.

Sembra però che la teoria di Hubbert rimanga ancora nel dominio delle eresie; forse neanche in quello, dato che per la maggioranza semplicemente non esiste. Nella pratica, quando si discute di picco, ci si trova spesso in una situazione in cui gli “abbondantisti” (chiamiamoli così) allineano barili di petrolio come se fossero soldatini in partenza per la battaglia, mentre i “picchisti” sembrano a volte ragionare come i profeti che un tempo minacciavano l’apocalisse. E ci si trova sempre di fronte alla difficoltà quasi insormontabile di far passare il concetto di picco di fronte all’ostinata obiezione: “ma, se il petrolio non è finito, perché ci dovrebbe essere un picco?”. L’esperienza insegna che non si avanza in questo dibattito se non si definisce bene il concetto di picco e se ne spiegano le ragioni. 

Per prima cosa, il picco (del petrolio o di qualsiasi altra risorsa) non significa che la risorsa è “finita”, nel senso che non ne rimane più. Il picco è un picco di produzione, ovvero il momento in cui questa raggiunge il suo massimo storico. Non vuol dire che nel post-picco non si produca più la risorsa, semplicemente che se ne produce di meno. Da notare anche che il picco (di qualsiasi cosa) non è l’apocalisse e non è necessariamente un disastro. La produzione di una risorsa che raggiunge il picco in una certa regione, viene normalmente sostituita da un’altra risorsa, o dalla stessa risorsa ma prodotta in un’altra regione. È quello che è successo con il petrolio negli Stati Uniti. Come si diceva più sopra, la produzione Usa ha raggiunto un massimo nel 1971, ma i consumi petroliferi hanno continuato ad aumentare in ragione delle importazioni in crescita. Infine, va anche detto che il picco non è una legge della fisica e non è irreversibile. In molti casi si è visto che è possibile invertire una tendenza al declino produttivo per mezzo di un aumento degli investimenti. Ancora, il caso degli Stati Uniti ci fornisce un esempio. Dopo il picco del 1971, la produzione ha continuato a calare fino a pochi anni fa, quando la tendenza si è invertita per i massicci investimenti fatti dall’industria petrolifera nell’estrazione del petrolio di scisto, risorsa che un tempo era considerata troppo costosa per essere sfruttata. Questo sta portando quindi la produzione Usa verso un secondo picco che potrebbe verificarsi nei prossimi anni. 

Allora, una volta stabilito che cos’è il picco di Hubbert, si tratta di capire che cosa lo genera. Come mai, in molti casi, la produzione di una risorsa segue una curva così ben definita? Lo possiamo spiegare come il risultato della combinazione di due fattori: uno è dato dalle leggi della geologia, l’altro dalle leggi dell’economia.

La geologia ci dice che le risorse minerali non sono mai tutte uguali. Ogni risorsa compare come un insieme di giacimenti con differenti concentrazioni (o “grado”), di profondità, e di purezza. Le risorse più “facili” non richiedono grandi sforzi di scavo e di purificazione ma, più si va verso risorse “difficili” più sono necessarie escavazioni profonde e trattamenti complessi per produrre il minerale utile. Nel caso del petrolio, ci basta ricordare come all’inizio della sua estrazione lo si trovava in superficie, oppure scavando per poche decine di metri. Oggi si parla di chilometri, spesso in regioni difficilissime o in fondo al mare. Non è la stessa cosa in termini di costi e delle risorse necessarie. 

Ora, mettiamo insieme la dispersione delle risorse geologiche con l’ovvio principio economico della massimizzazione del profitto. Evidentemente, si tende a estrarre e produrre prima le risorse meno costose. All’inizio, l’estrazione costa poco, i profitti sono alti e li si reinvestono in buona parte in nuove ricerche ed estrazione. Questo causa una rapida crescita della produzione. Ma, col tempo, le risorse poco costose si esauriscono, i costi aumentano e diminuiscono i profitti. Così, si investe di meno nella ricerca e lo sviluppo di nuove risorse. La rapida crescita iniziale rallenta fino ad arrestarsi. La produzione diminuisce dopo essere passata da un massimo; questa è la ragione del picco. Notate che questo ragionamento si può fare per qualsiasi risorsa esauribile, il picco non si limita di certo al solo petrolio.

Come si nota i prezzi del petrolio sono aumentati di circa un fattore 5 negli ultimi anni, dando inizio a una tendenza che appare irreversibile a meno che una grave crisi economica non riduca la domanda in modo sostanziale, come era brevemente successo nel 2008, al tempo della crisi finanziaria. Tendenze simili si riscontrano per quasi tutte le risorse minerali: prezzi inaumento di un fattore 3-5 rispetto ai valori che si ritenevano “normali” fino a qualche anno fa. 

Fonte: elaborazione dell’autore su dati della Federal Reserve Bank of St. Louis, Usa.

Si può dimostrare con un modello matematico (vedi “A Simple Interpretation of Hubbert’s Model of Resource Exploitation”, http://www.mdpi.com/1996-1073/2/3/646) che la curva di Hubbert, simmetrica e regolare, si verifica se i produttori continuano a reinvestire una frazione costante dei loro profitti nella ricerca e nell’estrazione della risorsa. Questa è ovviamente un’approssimazione, però il fatto che molti casi storici mostrano una curva del genere vuol dire che in molti casi è quello che si verifica nella realtà. Ovviamente, il meccanismo dei prezzi può fortemente influire sull’andamento della produzione. È ovvio che i produttori cercano di mantenere i loro profitti aumentando i prezzi di vendita per compensare gli aumenti dei costi di estrazione. In effetti, il mercato può reagire alla percezione di una carenza di una risorsa vitale, come il petrolio, aumentando i prezzi. Questo genera un aumento dei profitti e nuovi investimenti; questi possono essere anche massicci e il risultato è che è possibile contrastare il declino produttivo per un certo tempo. Non per sempre, perché gli alti prezzi finiscono per ridurre la domanda; a questo punto il mercato si contrae e i prezzi diminuiscono. A questo punto si riduce anche la produzione. Non si sfugge al meccanismo di Hubbert che, alla fine dei conti, è basato su uno dei principi fondamentali dell’economia, quello dei ritorni decrescenti degli investimenti. 

Come abbiamo visto, il meccanismo che genera il picco è valido per tutte le risorse minerali: col tempo le risorse facili e a buon mercato tendono a esaurirsi e il risultato è che l’estrazione costa sempre più cara. Il risultato è un aumento generalizzato dei costi. Al momento, non abbiamo visto ancora l’inizio del declino produttivo di nessuna risorsa minerale importante: il “picco dei minerali” è ancora nel futuro, ma potrebbe non essere lontano. In effetti era stato previsto nello studio noto in Italia come I limiti dello sviluppo del 1972 per la seconda decade del secolo 21°. Lo sforzo dell’industria mineraria per mantenere i livelli attuali di produzione richiede investimenti sempre più massicci ed è chiaro che questi non potranno continuare ad aumentare all’infinito. 

La situazione degli alti prezzi delle risorse minerali genera problemi particolarmente pesanti specialmente per i paesi che sono forti importatori, ovvero quei paesi che vivono di un’economia “trasformativa”, trasformando materie prime importate, esportando poi prodotti finiti. Molti paesi europei, inclusa ovviamente l’Italia, hanno economie di questo tipo.
È possibile sostenere che la grave crisi economica italiana degli ultimi anni ha la sua origine nel peso finanziario delle importazioni, in particolare di combustibili fossili, in un’economia che non è così efficiente come altre economie europee nell’utilizzarle. 

Fonte: a cura della redazione su elaborazione dati dell’autore.


Che cosa ci possiamo aspettare per il futuro? Come sempre, previsioni esatte non sono possibili. Possiamo comunque pensare che a basso costo continuerà a rendere la produzione più costosa. L’innovazione tecnologica, spesso presentata come la panacea che risolve tutti i problemi di esaurimento, si sta rivelando in pratica come in grado, sì, di mobilizzare nuove risorse, ma solo se il sistema produttivo è disposto a pagarne i costi che rimangono elevati. Come conseguenza, ci stiamo muovendo lungo una traiettoria che ci sta gradualmente portando verso un mondo in cui le assunzioni di una volta non sono più valide. Per esempio, nella maggior parte dei casi, estrarre una risorsa mineraria costava meno caro che riciclarla. Ma questo potrebbe non essere più vero nel futuro. 

In sostanza, non c’è via di uscita di fronte a un semplice concetto: come descritto in Extracted, il più recente Rapporto al Club di Roma, i depositi minerali che noi definiamo come “risorse” sono il risultato dell’energia fornita da processi geologici che hanno impiegato tempi lunghissimi – anche milioni di anni – per concentrare i materiali dispersi nella crosta terrestre in forme che noi possiamo sfruttare. È un “regalo” che il sistema planetario ci ha fatto, ma ce lo ha fatto una volta sola. Prima o poi, dovremo imparare a gestire le risorse minerali senza pensare che ci arrivino gratis. Questo vuol dire imparare a riciclare, riusare, usare in modo efficiente. È possibile, ma richiede tempo e investimenti e dobbiamo liberarci dall’idea che basti “scavare più a fondo” per risolvere il problema. 

 

Immagine: © Micha Klootwijk / Shutterstock.com