Il processo di decarbonizzazione ed elettrificazione dell’economia richiede crescenti quantità di metalli e minerali. Alcuni di questi, per importanza economica e rischi legati all’approvvigionamento, diventano critici e spingono l’Unione Europea a riaprire miniere e diversificare le proprie forniture, sostituendo partner commerciali e spingendo per il riciclo. Azioni che rinsaldano una certezza: non ci sarà transizione ecologica senza materie prime (e solo in parte seconde).

Dagli olii minerali ai minerali veri e propri, una domanda in crescita

L’accaparramento di risorse naturali – o “estrattivismo”, per usare un termine giornalistico - è un fenomeno che ci accompagna da millenni e che, almeno nel medio periodo, continueremo ad alimentare. Secondo uno degli scenari sviluppati dall’OCSE, nel 2060 potremmo arrivare infatti a consumare 167 miliardi di tonnellate di materia vergine. Cifra che nelle previsioni dell’International Resources Panel, il gruppo di lavoro lanciato nel 2007 dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), sale addirittura 190 miliardi di tonnellate. Minerali (metalli e non metalli) e fonti fossili, per la maggior parte.

Tuttavia, ciascuno di questi beni - che sia carbone, oro, rame, cobalto o silicio non importa – è soggetto a una stessa regola: la legge dei rendimenti decrescenti. I cicli di estrazione delle singole risorse passano infatti da un momento “zero”, in cui picconi e trivelle sono ancora fermi, ad un secondo momento “zero”, in cui le scavatrici si fermano. Nel mezzo, tra i due estremi, c’è il cosiddetto picco di produzione, un vero e proprio spartiacque che segnala che da lì in poi ciò che estrarremo sarà sempre più difficile (per volumi e tecnologia) e quindi progressivamente più costoso. Oppure, come nel caso dei combustibili fossili, non più conveniente anche per altre ragioni, tra le quali il non così improbabile collasso degli ecosistemi.

La crisi climatica ci impone infatti un imperativo: raggiungere il traguardo della decarbonizzazione dell’economia. Giro di boa che l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), nell’edizione 2022 del World Energy Outlook, ha previsto come vicino: infatti, per la prima volta anche nello scenario più prudente basato sulle politiche già approvate, la domanda di carbone raggiungerà il suo picco nei prossimi anni, quella di gas naturale formerà un plateau entro la fine del decennio, mentre la richiesta di greggio toccherà il suo massimo a metà degli anni '30 prima di diminuire leggermente. Tutto merito delle politiche di decarbonizzazione e dell’introduzione delle rinnovabili.

Tuttavia, chiudere un ciclo estrattivo significa necessariamente intensificarne un altro. Per costruire pannelli solari, turbine eoliche, batterie e infrastrutture energetiche adeguate, servono metalli e minerali in quantità che semplicemente ora non abbiamo. Stando alle stime contenute in Metals for Clean Energy, studio pubblicato dall’Università KU Leuven e commissionato da Eurometaux, rispetto ai consumi attuali e comunque entro il 2050, la transizione energetica in Europa richiederà ogni anno +33% di alluminio, +35% di rame, +3500% di litio, + 100% di nichel, +45% di silicio, + 330% di cobalto. Sotto il velo delle percentuali si sostanzia materia per centinaia di migliaia (a volte milioni) di tonnellate annue. Tradotto: bisogna stabilizzare e garantire gli approvvigionamenti. Ma come?

Il Piano d’azione europeo sulle materie prime critiche

La globalizzazione ha reso interdipendenti le economie mondiali. E questo è ancor più vero per molte materie prime critiche, fortemente concentrate in aree estrattive limitate: ad esempio, la Cina fornisce il 98% delle forniture di elementi di terre rare dell'UE, la Turchia il 98% del borato, il Cile il 78% del litio, il Kazakhstan il 71% del fosforo. Il solo Sudafrica, se si parla di metalli come iridio, rodio e rutenio, detiene pressoché la totalità della produzione mondiale.

Non c’è quindi da stupirsi che l’Unione Europea, paladina della libera concorrenza, stia tentando di spezzare le vecchie catene di approvvigionamento al mantra “diversificare la supply chain”. Ma ciò significa abbandonare tanto i regimi di monopolio quanto i regimi in generale. L’invasione russa in Ucraina, i rapporti complessi con Pechino (per non parlare delle tensioni con Taiwan, l’eldorado dei superconduttori) e il riaccendersi degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo per il controllo del coltan e del cobalto nel Nord Kivu, confermano a Bruxelles la necessità di proseguire sulla strada decisa nel 2020 con il Piano di azione sulle materie prime critiche: diversificare l'approvvigionamento da fonti primarie e secondarie, migliorando efficienza e circolarità, e promuovendo forniture responsabili a livello mondiale, anche attraverso la ricerca di nuovi partner commerciali.

Non tutto è critico allo stesso modo: l’esempio dello zinco

Per riuscire nell’intento va prima definito quali risorse sono critiche. L’Action plan elaborato dalla Commissione UE si basa infatti sull’elenco dei Critical Raw Materials che il Joint Research Center aggiorna dal 2011 ogni tre anni secondo due parametri: importanza economica e rischio di approvvigionamento. Fattori che nel tempo hanno portato la lista ad allungarsi. Nel 2020 i materiali erano 30, più del doppio di quelli individuati nella prima edizione.

Tra questi trenta ci sono bauxite, grafite naturale, terre rare leggere e pesanti. Tuttavia, a dimostrazione che la criticità cambia a seconda del contesto di riferimento, manca lo zinco. Questo minerale, per ora escluso dalla lista europea, è stato aggiunto oltre Atlantico in quella rilasciata nel 2022 dall’US Geological Survey. Negli Stati Uniti, del resto, sono in fase di costruzione nuovi impianti di produzione di alluminio e acciaio, i cui altiforni proveranno presto a sostituire i prodotti normalmente importati dall’Asia, e per i quali lo zinco è un materiale fondamentale.

L'elenco europeo delle materie prime critiche si basa completamente su materiali che oggi non vengono estratti all'interno dei confini UE. E questo è un grosso problema perché, ovviamente, non c’è lungimiranza per i metalli strategici necessari alla transizione energetica, tra cui zinco, rame, nichel e così via. Ne abbiamo molti altri che oggi estraiamo in piccole quantità in Europa, ma che ci serviranno ancora di più in futuro”, spiega a Materia Rinnovabile Klas Nillson, Director Group Communications di Boliden, la più grande azienda mineraria europea. “L'uso principale dello zinco è la galvanizzazione. Ne viene utilizzato molto per tutte le costruzioni in acciaio, come automobili o edifici. Pensiamo anche allo sviluppo dell’eolico off-shore, che vedrà moltiplicarsi il numero di pale eoliche in mare. Lo zinco protegge l’acciaio dalla corrosione, allungandogli la vita di circa un secolo rispetto all’aspettativa senza trattamento”.

Magnesio made in Europe?

Nell’elenco UE delle materie prime critiche 2020 c’è invece il magnesio, minerale di cui la Cina controlla l’89% delle forniture globali, un monopolio che, in caso di interruzioni della catena di approvvigionamento, potrebbe frenare la produzione siderurgica europea. Secondo un documento di lavoro visionato nel maggio 2022 da Reuters, la Commissione UE si starebbe preparando a investire 2 miliardi di euro per riavviare l’attività di fusione entro il 2025, dopo oltre vent’anni di stop alle fornaci, partendo dalla Romania. “Nonostante la ricchezza di risorse minerarie, l'industria del magnesio dell'UE è crollata perché non è stata in grado di competere con i bassi prezzi del magnesio importato dalla Cina”, racconta a Materia Rinnovabile Alexandru Rosu, Chief Executive Officer di Verde Magnesium, società che si definisce “futuro produttore primario di magnesio metallico dell'UE”.

“La mancanza di competitività era dovuta ai costi più elevati nell'UE rispetto alla Cina per quanto riguarda la conformità normativa, l'energia e la manodopera. La chiusura dell'industria del magnesio nell'UE non ha risolto il problema ambientale, in quanto ogni tonnellata di minerale importato ha un’impronta media di CO2 equivalente pari a 28 tonnellate, senza considerare l'impatto della logistica. Nei nostri test, in vista della ripartenza prevista per il 2025, abbiamo ottenuto invece un rapporto di 1 a 1”, conclude Rosu.

Diversificazione sì, ma attenzione ai nuovi partner commerciali

Se alla domanda corrisponde l’offerta, non deve stupire che i piani di Bruxelles vadano di pari passo con gli strilli di nuovi possibili venditori. Nel luglio 2022, la Turchia ha reso noto di aver scoperto il secondo più grande deposito di terre rare al mondo nel distretto di Eskisehir, in Anatolia centrale. Ma non è tutto oro quello che luccica. “L'annuncio del governo turco manca di dettagli. Una stima formale delle risorse o delle riserve (quindi direttamente sfruttabili o meno, ndr) conterrebbe molte più informazioni, tra cui grado, tonnellaggio e grado di taglio; fornirebbe più dati e prove di base e sarebbe firmata da una persona competente”, racconta a Materia Rinnovabile Kathryn Goodenough, Principal Geologist presso la British Geological Survey nonché profonda conoscitrice del deposito in oggetto, Kızılcaören. “Anche se non so esattamente di quali capacità disponga la Turchia, di certo al momento manca un impianto di lavorazione degli elementi di terre rare. Affinché il giacimento possa produrre con successo, immagino che sia necessario un notevole coinvolgimento della Cina”.

La diplomazia commerciale europea sembra invece avere piani di più ampio respiro. A febbraio 2022, per mezzo del Global Gateway Investment Package, l’UE ha annunciato investimenti nel continente africano per 150 miliardi di euro per supportare transizione verde e digitale. È in questo solco che si inserisce AfricaMaVal. Annunciato nel giugno 2022, il progetto mira a “sviluppare partenariati UE-Africa che garantiscano l'approvvigionamento responsabile di minerali per l'industria europea, fornendo al contempo un co-sviluppo locale sostenibile” in dieci paesi: Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Zimbabwe, Mozambico, Gabon, Namibia, Tanzania, Madagascar, Marocco e Sudafrica.

Insomma, insieme a nuove miniere in Europa, esporteremo know-how per fidelizzare nuovi partner commerciali. Questa volta con standard all’altezza di Green Deal e senza ripetere gli errori del passato. In futuro, forse, non ci sarà bisogno che il Commissario UE per il Mercato Interno Thierry Breton dichiari ancora: “Preferiamo rifornirci da Paesi terzi e chiudere gli occhi sull'impatto ambientale e sociale, per non parlare dell'impronta di carbonio delle importazioni. Ma l'estrazione mineraria in Europa non deve essere un affare sporco" (Financial Times).

Immagine: la foto di copertina è tratta dal reportage "The Victims of our Wealth – DR Congo" (2016) di Stefano Stranges. Il reportage è pubblicato su MR #43.

Scarica e leggi il numero 43 di Materia Rinnovabile sui Critical Raw Materials.