Se l’industria della plastica fosse un paese, sarebbe il quinto emettitore di gas serra al mondo”. Esordisce così Judith Enck, presidente della ong americana Beyond Plastics, nel presentare un report dal potenziale esplosivo, “The New Coal. Plastics and Climate Change”, rilasciato non a caso nei giorni della COP26 di Glasgow.
La plastica è il nuovo carbone”, scrive Enck senza tanti giri di parole. Tutto il faticoso lavoro per ridurre le emissioni dismettendo le centrali a carbone verrà presto vanificato dal boom dell’industria della plastica che, alimentata dalla rivoluzione dello shale gas (o gas di scisto), sta galvanizzando l’economia degli Stati Uniti.
Il report, realizzato dal Bennington College (sede di Beyond Plastics) insieme alla società di ricerca Material Research, per la prima volta sistematizza e analizza i dati relativi all’intera filiera della plastica negli Stati Uniti, per metterne in evidenza il
legame per troppo tempo ignorato con il cambiamento climatico. Secondo i dati raccolti, il comparto della plastica statunitense – il più grande al mondo - sta rilasciando almeno 232 milioni di tonnellate di gas serra ogni anno, l'equivalente di 116 centrali a carbone di medie dimensioni: più del doppio rispetto ai numeri “ufficiali” che si leggono sui rapporti di sostenibilità delle industrie del settore. Quel che è peggio, il settore è in forte crescita ed entro il 2025 si potrebbero aggiungere al conto altri 40 milioni di tonnellate di emissioni. "L'industria dei combustibili fossili ha trovato il suo Piano B", chiosano gli autori dello studio.
Eppure la questione plastica è assente dall’agenda internazionale sul clima e non se ne parla nemmeno a Glasgow.
Materia Rinnovabile ne ha invece parlato con Judith Enck.

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Perché l'impatto dell'industria della plastica sul clima è così sottovalutato?
Fino ad ora l’attenzione internazionale si è concentrata soprattutto sui danni dell’inquinamento da plastica negli oceani e ora anche sul fallimento del riciclo della plastica come soluzione. Negli Stati Uniti, ad esempio, solo l'8,5 % viene effettivamente riciclato, nonostante l'industria della plastica spenda milioni in pubblicità, cercando di convincere la gente che si tratta di un materiale facilmente riciclabile. Per quanto riguarda la questione del cambiamento climatico, credo che l’opinione pubblica sia completamente concentrata sulle ormai ben note fonti tradizionali di carbonio nell'atmosfera, ossia le centrali per la generazione di energia elettrica e il settore dei trasporti. Quello che abbiamo pensato di fare con il nostro report, a mio parere molto tempestivamente, è invece esaminare le emissioni di gas serra del comparto della plastica. Questo studio, va sottolineato, riguarda solo gli Stati Uniti. Le centrali a carbone americane stanno chiudendo rapidamente, già circa il 65% sono state spente. Allo stesso tempo, tuttavia, c'è stato un incremento nella costruzione di impianti di produzione di plastica. Si è così creata una situazione di cui credo molte persone non siano consapevoli: le emissioni della plastica entro i prossimi 9 o 10 anni eclisseranno le emissioni di gas serra del carbone. Non penso che chi è al governo ora stia considerando di fare qualcosa a riguardo. E allo stesso tempo, ci sono agenzie statali in Louisiana e Texas che distribuiscono facilmente i permessi di apertura per nuovi impianti di produzione della plastica. Tutto questo processo sta passando totalmente inosservato.

Questa sottovalutazione può essere dovuta anche a una difficoltà nel calcolare il reale impatto dell'industria della plastica sul clima?
In realtà non è affatto difficile, lo abbiamo fatto nel nostro report. Abbiamo esaminato le 10 fasi ad alto impatto della produzione, dell'uso e dello smaltimento della plastica e ci siamo basati in gran parte su diversi dati dell'EPA (Environmental Protection Agency), del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti e del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, dove queste informazione già esistevano. E poi abbiamo fatto i conti. È vero, ci sono alcuni stadi della filiera per i quali non ci sono dati, ad esempio per le possibili emissioni della plastica che finisce nell'oceano: non abbiamo veri e propri dati, ma abbiamo potuto ricavare una stima da un paio di ricerche scientifiche sul tema. A dire il vero, l'EPA avrebbe potuto facilmente redigere il rapporto che abbiamo pubblicato, ma non credo che la plastica sia una priorità per loro e quindi semplicemente non hanno fatto il lavoro che abbiamo fatto noi. Speriamo che il nostro rapporto ispiri le agenzie governative a condurre altre analisi.

Pensa che possa essere di ispirazione anche per altri paesi nel mondo?
Sì, abbiamo bisogno che ogni paese lo faccia. La valutazione diventa infatti piuttosto complicata a un livello internazionale perché quantità crescenti di gas etano e di plastica vengono oggi esportate. Il boom petrolchimico che sta interessando gli Stati Uniti include il gas etano esportato in Cina, India ed Europa. Il gas viene estratto tramite fracking negli Stati Uniti, quindi caricato su gigantesche petroliere e inviato all'estero.

Sta dicendo che tutti questi paesi, compresi gli stati europei, acquistano shale gas dagli Stati Uniti per produrre plastica?
Sì.

Quindi gli Stati Uniti hanno la più grande industria della plastica e, allo stesso tempo, esportano materie prime per produrre plastica nel resto del mondo. E voi avete calcolato gli impatti sul clima che derivano anche dalla materia prima estratta per l'esportazione?
Sì. Abbiamo esaminato tutte le fasi: trasporto, fracking, eccetera. Quello che ci manca è l’analisi della produzione di plastica in altri paesi.

Non possiamo dedurre dei dati globali dal data set che avete creato per gli Stati Uniti?
No, non possiamo. Qualcuno deve farlo in altri paesi o in altre regioni del mondo. Abbiamo lavorato molto duramente per ottenere le informazioni che riguardano gli Stati Uniti, ma saremmo felici di lavorare con altre organizzazioni che potrebbero voler fare lo stesso nel loro paese, dove noi non abbiamo la capacità in questo momento per farlo.

Ci sono altre organizzazioni nel mondo che stanno cercando di fare qualcosa del genere?
Non che io sappia. Credo che questo sia il primo tentativo di documentare le emissioni di gas serra in modo completo dall'industria della plastica, almeno negli Stati Uniti. In realtà non era nostra intenzione redigere questo report: speravamo che qualcun altro avesse già fatto il lavoro, ma non siamo riusciti a trovare nulla. Ecco perché, alla fine, Beyond Plastics ha deciso di farlo.

Secondo il report, ci sono emissioni di gas serra ad ogni fase del ciclo di vita della plastica: estrazione di combustibili fossili, produzione, gestione dei rifiuti e inquinamento marino. Quale di queste fasi è la più impattante per il clima?
La peggiore è la fase dei cracker di gas etano. Ci sono circa un milione di pozzi di hydrofracking negli Stati Uniti oggi. Osservando una piattaforma di fracking, si vede subito un grande tubo da cui il gas etano viene scaricato nell'atmosfera e l'etano è un gas serra molto potente, peggiore della CO2. Negli ultimi anni si stanno costruendo nuovi gasdotti nei siti di fracking e l'etano viene inviato tramite gasdotti a impianti nuovi di zecca chiamati cracker di etano, dove il gas viene scomposto ad altissime temperature, in un processo di pirolisi. Il gas viene così trasformato in piccoli pezzi di plastica, il pellet o i nurdles, a volte in polvere: questo materiale è l'elemento costitutivo degli imballaggi di plastica monouso. Sfortunatamente, i cracker di etano sono super emettitori di carbonio: attualmente rilasciano 70 milioni di tonnellate di gas serra all'anno (che è circa l'equivalente di 35 centrali elettriche a carbone) e se lo sviluppo di questi impianti continua, potremmo avere altri 42 milioni di tonnellate di gas serra gas all'anno entro il 2025, l’equivalente di 21 centrali elettriche a carbone. Questo è dunque l’anello della filiera della plastica che ci preoccupa di più. E un’ulteriore preoccupazione è costituita dal fatto che la la maggior parte di queste strutture vengono costruite in Texas e Louisiana, in comunità a basso reddito e in comunità di colore.

Perché il gas di scisto si trova in quelle aree…
Esattamente. Abbiamo poi una nuova struttura in arrivo in Pennsylvania, perché anche lì c’è gas da estrarre. Abbiamo censito 18 comunità in cui il 90% delle emissioni di gas serra proviene dagli impianti di plastica. Il 45% di questi impianti sono in Texas, il 35% in Louisiana, perché, appunto, è lì che si trova il gas.

Quindi, in pratica, la "rivoluzione dello shale gas", se possiamo chiamarla così, sta dando impulso all'industria della plastica negli Stati Uniti?
È assolutamente così. Se non avessimo avuto la rivoluzione dello shale gas, non avremmo visto tutta questa produzione di plastica.

Ed è per questo che la crescita dell'industria della plastica statunitense è così cruciale anche a livello globale?
Sì.

Il report affronta anche la questione del cosiddetto “colonialismo dei rifiuti” degli Stati Uniti, che tra l'altro è un problema anche dell’Europa: ovvero l’esportazione di tutto ciò che non si riesce a riciclare verso paesi del Sud del mondo. Lei crede che il fenomeno sia peggiorato da quando, nel 2018, la Cina ha vietato l'importazione di rifiuti di plastica entro i suoi confini?
Sì, è decisamente peggiorato. La Cina ha messo in guardia gli Stati Uniti e l'Europa per molti anni. Dicevano: “ci va bene ricevere i vostri materiali riciclabili, ma state inviando troppi contaminanti insieme ai rifiuti riciclabili, e se non provvedete fermeremo tutte le importazioni”. Ed è quello che hanno fatto. Quindi, invece di risolvere il problema e produrre meno rifiuti plastici o implementare una migliore separazione e selezione per il riciclo, cosa è successo? Che i rifiuti sono stati dirottati in Indonesia, Vietnam e Filippine. E quando anche questi paesi hanno cominciato a rifiutare l’import di rifiuti, si è iniziato a mandarli in Africa, che è diventata la nuova discarica, sia degli Stati Uniti che dell'UE.

Ricevevano già i nostri rifiuti elettronici e ora anche quelli di plastica…
Molte delle aziende che producono così tanta plastica hanno sede nell'Unione Europea e negli Stati Uniti. Quello che dovrebbero davvero fare è passare a imballaggi riutilizzabili Dovrebbero sostenere leggi per introdurre sistemi di deposito cauzionale per i contenitori delle bevande e si dovrebbe promuovere la produzione di packaging in materiali alternativi alla plastica. La gente aspetta sempre la grande “scoperta rivoluzionaria”, ma quale nuovo super materiale stiamo aspettando? I materiali li abbiamo già da decenni. Packaging in carta, cartone, metallo e vetro possono essere realizzati con contenuto riciclato e possono essere riciclati più facilmente della plastica. Oggi praticamente tutti gli imballaggi in plastica sul mercato sono fatti di plastica vergine, banalmente perché la plastica vergine è più economica grazie all'hydrofracking e ai sussidi federali per i combustibili fossili. E oltre il 90% della plastica negli Stati Uniti non viene mai riciclata.

Cosa mi dice del dibattito su questo argomento in vertici ufficiali come la COP26?
Non pervenuto! È davvero deplorevole. La COP non si è mai occupata del problema, il Congresso degli Stati Uniti non se ne occupa. Quello che stiamo tentando di fare con questo report è proprio riuscire a inserire la questione della plastica nell'agenda per il clima. È un problema che va assolutamente considerato, visto che, se da un lato lavoriamo duramente per eliminare i combustibili fossili dalle forniture di elettricità e dai trasporti, dall’altro ne usiamo sempre di più per la produzione di plastica. In questo modo rischiamo di giocarci la possibilità di ridurre davvero le emissioni di gas serra.

Come ha scritto nell'introduzione al report, sembra che l'industria dei combustibili fossili stia considerando la plastica come un rimpiazzo…
Sì, è il loro piano B. Penso che l'industria dei combustibili fossili abbia capito l’antifona un paio di anni fa. Hanno capito che sempre più persone in tutto il mondo sono preoccupate per il cambiamento climatico e che non saranno più in grado di vendere così tanti combustibili fossili per i trasporti e le centrali elettriche. Ma vogliono ancora vendere i loro combustibili fossili, non si fermeranno di certo. Quindi hanno cominciato a considerare la plastica come il loro piano B. Credono che ci sarà un mercato in crescita per la produzione di plastica e sono molto felici di continuare a fare soldi e a surriscaldare il pianeta. È terribile. Voglio dire, usare le fonti fossili per riscaldare la propria casa ha di sicuro un grande impatto ambientale, ma almeno mantiene le persone calde d'inverno o fresche d'estate. Ma l'utilizzo di combustibili fossili per produrre plastica monouso è ancora più dannoso perché molta di quella plastica finisce nell'oceano, la maggior parte non viene riciclata. Quindi si ha un effetto moltiplicatore dell'inquinamento e degli impatti ambientali.

Avete inviato un vostro rappresentante a Glasgow per la COP26?
No, no purtroppo. Il nostro obiettivo è inserire la plastica nell'agenda della prossima COP, ma è un processo molto complicato essere ammessi alla Conferenza sul Clima delle Nazioni unite ed è difficile per i piccoli gruppi riuscire ad essere davvero coinvolti nei lavori. Stiamo per ora cercando di diffondere il messaggio perché abbiamo ancora tanta strada da fare sul tema degli impatti della plastica sul clima. La gente non conosce nemmeno la connessione, figuriamoci convincere i politici ad opporsi all'industria dei combustibili fossili o a fare qualcosa per risolvere la questione. Abbiamo quindi cominciato dalla divulgazione delle informazioni, e speriamo che possa trasformarsi in qualche azione politica a livello nazionale e poi a livello internazionale.