La comunicazione ambientale deve essere più emozionale 

 

Intervista a Thierry Libaert, membro del Comitato economico e sociale della Ue

di I. N. B.

 

 

In quanto esperto di comunicazione ambientale, come vede la comunicazione europea sui temi dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare? Quale ritiene sia la strategia che si dovrebbe utilizzare?

“Credo che la comunicazione globale dell’Unione europea e di molte istituzioni nazionali sui temi della responsabilità sociale, della sostenibilità e del riscaldamento climatico sia una comunicazione troppo ‘dall’alto’, forse un po’ unilaterale e spesso moralizzatrice. E se guardiamo al modo in cui le persone ricevono i messaggi positivamente, ci sono tre o quattro elementi che non tornano. Per prima cosa il mittente invia il messaggio al ricevente in maniera, appunto, unilaterale, senza interazione e spesso utilizzando un solo strumento, come la pubblicità o gli opuscoli informativi. Faccio un esempio: un tema su cui ho lavorato è stato come spingere le persone a differenziare i rifiuti. Abbiamo verificato che i risultati si ottengano mettendo insieme strumenti informativi e il fattore umano, cioè l’interazione con alcuni esperti che, di persona, spieghino come comportarsi. Il 90% della comunicazione che si limita a inviare dei messaggi di informazione non funziona granché. In secondo luogo, parlando di ambiente, quando si domanda agli europei come si considerano in termini di condotta ambientale si scopre che il 95% si ritiene un ‘buon eco-cittadino’. Pertanto, quando si inviano messaggi per sensibilizzare nei confronti dell’ambiente funziona come con quelli per la sicurezza stradale: la maggioranza delle persone si ritiene un buon conducente, quindi il messaggio non arriva perché la gente crede sia rivolto ad altri. Il sistema, allora, dovrebbe prevedere una maggiore personalizzazione dei messaggi. Terzo, la comunicazione di alcuni temi come il riscaldamento climatico è molto tecnica: ‘rispettare gli accordi su 1,5 o 2 °C’, ‘tot tonnellate di carbonio’ per esempio. Penso invece che la comunicazione debba essere molto più visualizzabile: nessuno ha mai visto una tonnellata di carbonio e quindi il messaggio è difficile da comprendere. Inoltre, occorre fare leva sulle emozioni e su quello che i cambiamenti climatici ci porteranno via se continuiamo in questa direzione.” 

 

Una comunicazione più efficace si traduce in migliori scelte d’acquisto da parte dei consumatori?

“Il Comitato sociale ed economico europeo, di cui faccio parte, ha lanciato nel 2016 una grande ricerca che ha coinvolto 3.000 persone in Spagna, Repubblica Ceca, Francia e in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo in un esperimento partecipativo, in cui abbiamo messo le persone nella situazione di dover acquistare dei prodotti. Abbiamo costruito un finto sito di e-commerce e abbiamo chiesto loro di usarlo per fare degli acquisti e abbiamo provato a scrivere tra le informazioni sui prodotti la durata di vita stimata: ci siamo accorti che l’acquirente guardava questa informazione – a dispetto di chi sostiene che ci siano già troppe informazioni sugli imballaggi – e inoltre che le persone sono in grado di scegliere in modo ponderato, non basandosi solo sul prezzo minore ma anzi scegliendo di pagare un prodotto di più se questo garantiva una durata di vita maggiore. Si tratta quindi di un circolo virtuoso, in cui il consumatore guadagna con un prodotto che dura di più, le aziende hanno interesse a produrre oggetti che hanno un costo maggiore e la conseguenza per l’ambiente è un minor uso di materia prima e meno rifiuti.” 

 

A lungo si è sostenuto che, per consumare meno energia, dopo un certo numero di anni la scelta migliore sia quella di acquistare un elettrodomestico nuovo. Ma la produzione di nuovi strumenti e l’estrazione di materia prima non sono affatto sostenibili: come uscire dall’impasse?

“È un tema ricorrente quando si parla di consumi sostenibili. Per certi prodotti la sostituzione conviene sia al consumatore sia all’ambiente: un frigorifero di 10 anni fa, anche se funziona benissimo, consuma il 90% in più di uno attuale. Sommando la fase di eco-progettazione, la fase del consumo e quella a valle del riciclo si è quindi riusciti a delineare una durata di utilizzo ottimale di alcuni prodotti. Questo aspetto è fondamentale per una transizione davvero circolare, che è ancora troppo focalizzata sul ciclo dei rifiuti e troppo poco sulla promozione di un consumo sostenibile.” 

 

Le aziende, a suo avviso, stanno davvero cambiando marcia?

“Credo di sì, che abbiano capito che si tratta di un modello conveniente, anche in termini di reputazione. Dai giganti degli pneumatici che lavorano per estendere il più possibile il ciclo di vita delle gomme, alle grandi aziende di elettrodomestici che garantiscono una riparabilità dei loro prodotti per dieci anni, si tratta di distinguersi dai competitor per l’attenzione ai consumatori e all’ambiente, e non in termini di greenwashing. L’economia dei servizi – che è parte del paradigma circolare, inoltre, ha interesse a far durare il più possibile i propri prodotti.”

 

Tutto questo ha un impatto anche sociale.

“Esatto. Dal punto di vista dell’ampliamento dei posti di lavoro nelle varie fasi di realizzazione e riparazione dei prodotti, uno studio commissionato nel quadro della Risoluzione europea del giugno 2017 ha dimostrato che, se si prendessero in considerazione i parametri di durabilità e riparabilità dei prodotti, si creerebbero circa 45 mila posti di lavoro. Inoltre, l’obsolescenza programmata ha un impatto maggiore sulle fasce della popolazione a basso reddito: chi ha meno da spendere compra prodotti a basso prezzo che durano meno. Quindi aumenta la frequenza d’acquisto, generando maggiore indebitamento. Aumentare la durata di vita dei prodotti e la loro riparabilità porta anche a una maggiore equità sociale.”

 

Circular Economy Stakeholder Conference, https://circulareconomy.europa.eu/platform/en

 


 

Serve più cultura della circolarità

 

Intervista a Paolo Falcioni, direttore generale di APPLiA

di I. N. B.

 

 

 

APPLiA è l’associazione che rappresenta l’industria dell’elettrodomestico in Europa, un settore che crede fortemente nel rinnovare con i prodotti e i processi produttivi per consentire la piena circolarità del prodotto utilizzato dal consumatore. Tra i principali membri dell’associazione ci sono Arçelik, Whirlpool, Daikin, Panasonic, LG, Samsung, De Longhi, Electrolux, Miele, DHS, la quasi totalità delle aziende di elettrodomestici che operano in Europa. 

 

Come si posiziona il settore degli elettrodomestici rispetto alle normative europee sull’economia circolare?

“Ritengo che il comparto sia più avanti della legislazione. Oggi gli elettrodomestici sono completamente circolari, perché quando vengono re-immessi nell’industria del riciclo tornano materia prima seconda in tutte le loro componenti. La gestione del prodotto, quando correttamente smaltito, porta quindi a una piena circolarità. Ciò che manca è la capacità di tracciare tutti i flussi degli elettrodomestici: non sappiamo dove finiscano circa i 2/3 degli elettrodomestici della quota non tracciata del rifiuto elettrico ed elettronico. Per questo vorremmo un mercato unico europeo del rifiuto.” 

 

Qual è il contributo dei vostri associati alla transizione circolare? Come rispondono allo spettro dell’obsolescenza programmata?

“Le nostre aziende associate credono nel paradigma circolare, estendendo con la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti il ciclo di vita degli elettrodomestici. Un altro dato è l’attenzione alla riparabilità: a livello globale sono 32.000 le persone impiegate dai nostri soci nella riparazione. Nel 2016, secondo il nostro report, su un totale di 150 milioni di pezzi prodotti dai nostri associati, la percentuale di richieste di riparazione ricevute e soddisfatte è stata dell’81%, grazie a una progettazione che contempla l’intero ciclo di vita. Oggi è pari a circa 2 miliardi di euro il fatturato europeo che deriva dai servizi di riparazione degli elettrodomestici. Le aziende, quindi, hanno da guadagnarci anche a livello meramente economico dallo sviluppo del mercato post vendita; siamo a favore della riparazione anche quando non gestita direttamente dalle aziende – penso ai repair cafè – purché venga garantita la sicurezza del consumatore finale.” 

 

Nella comunicazione di APPLiA si parla di #circularculture: che cosa intendete?

“Per diffondere maggiore consapevolezza nel consumatore e spingere i legislatori a operare in direzione di migliori standard di recupero, abbiamo coniato l’espressione ‘cultura della circolarità’ e prodotto dei video che mostrano come ognuno può contribuire a rendere l’economia e i consumi più circolari, perché l’industria da sola non arriva dappertutto. Per esempio, oggi in Europa il 20% dei piccoli elettrodomestici viene ancora gettato nella spazzatura e non conferito ai regolari smaltitori che possono dare valore alla materia. Per questo crediamo che sia necessario responsabilizzare tutti affinché lo sviluppo economico sia sostenibile, dalle aziende ai singoli cittadini e ai legislatori. Inoltre, un uso più consapevole degli elettrodomestici permette di ridurre gli sprechi: si pensi alla lavastoviglie che utilizza il 90% in meno di acqua rispetto al lavaggio a mano dei piatti. Abbiamo il dovere morale di ricordare che, noi europei, siamo privilegiati e quindi dobbiamo fare uno sforzo in più per capire che beni come l’acqua sono preziosi e soggetti a scarsità, mentre altrove è molto più immediato.” 

 

Le vostre associate operano anche al di fuori dei confini europei: il loro approccio circolare si estende anche dove la legislazione è meno vincolante?

“Sono stato da poco al Forum di Nairobi delle Nazioni Unite ‘Science-Policy-Business’ e ho mostrato come in Europa ci stiamo muovendo verso un’industria circolare. È chiaro che partiamo da posizioni diverse rispetto ad altri paesi, tra chi consuma molto di più e chi molto di meno, ma la nostra esperienza si pone come spunto per ripensare tutti insieme i nostri consumi e il nostro impatto sul pianeta. L’industria che rappresento ha la volontà di offrire il prodotto più innovativo e a basso impatto ovunque nel mondo.”  

 

APPLiA, www.appliaitalia.it