Le compagnie petrolifere e del gas premiano i dirigenti per l’aumento della produzione, anche quando ciò è in conflitto con le loro politiche climatiche. È questo - a meno di 48 ore dall’apertura dei lavori della COP 27 di Sharm el-Sheikh in Egitto - l’avvertimento lanciato dal think tank senza scopo di lucro Carbon Tracker nel rapporto “Crude Intentions - how oil and gas executives are still rewarded to chase fossil growth, despite the urgent need to transition.
Una incongruenza tra pensiero e azione che non rischia solo di impattare sull’effettivo raggiungimento dei target di riduzione delle emissioni annunciati dalle 35 maggiori società quotate dell’Oil&Gas oggetto dello studio. In questo momento storico, infatti, ogni risorsa sottratta al phase-out dalle fonti fossili potrebbe aggravare l'esposizione di investitori e corporations (inclusa l’italiana ENI) ai pericoli della transizione energetica.

Crude Intentions: la produzione di petrolio e gas continua ad aumentare

Il rapporto pubblicato il 4 novembre da Carbon Tracker ci dice che il 95% produttori di petrolio e gas analizzati incentiva ancora, direttamente o indirettamente, la crescita della produzione di combustibili fossili, in aumento rispetto al 91% del 2019. E le compagnie con alcune delle politiche più ambiziose sono tra le peggiori. BP si è impegnata a ridurre le emissioni derivanti dalla produzione e dall'uso dei suoi prodotti del 35-40% entro il 2030, ma il 30% del pacchetto retributivo totale dei dirigenti è determinato da obiettivi che incentivano la crescita della produzione. Percentuale che nel caso di Eni, TotalEnergies e Repsol – che hanno annunciato tagli di gas serra del 30-35% nei prossimi 8 anni – scende rispettivamente al 18%, 15% e 12%.
Ma perché, al di là delle promesse dei Consigli di amministrazione, è importante guardare all’operato del management? “I dirigenti guidano le operazioni quotidiane dell'azienda. Per questo riteniamo che sia importante analizzare le loro strategie e le loro politiche retributive per vedere cosa sono incentivati a fare. Perché, in ultima analisi, il comportamento umano è guidato dall'interesse personale e dalla ricerca del suo massimo - spiega a Materia Rinnovabile Maeve O’Connor, autrice del rapporto - Quindi, se i dirigenti sono pagati in base a target di produzione o a rapporti di sostituzione delle riserve o ad altri tipi di obiettivi diretti, è abbastanza naturale supporre che l'azienda agirà in questo modo”.

Eni, tra extra-profitti e nuove esplorazioni

Tra le società quotate prese in esame da Carbon Tracker c’è anche Eni, gruppo che in un periodo di crisi energetica non sembra passarsela male. Nei primi nove mesi del 2022, secondo i risultati consolidati diffusi il 28 ottobre scorso, avrebbe infatti realizzato oltre 10,8 miliardi di euro di profitti netti. Un osso che il Cane a sei zampe fatica però a lasciare. Eni è infatti tra le società che hanno fatto ricorso al TAR del Lazio – la cui pronuncia è attesa a novembre – contro la cosiddetta tassa sugli extraprofitti. Entro fine anno, infatti, il gruppo dovrà versare allo Stato un contributo straordinario di 1,4 miliardi di euro, il 40% del quale già anticipato. Il triplo di quanto preventivato da Eni prima delle precisazioni giunte dall’Agenzia delle entrate ad agosto. Un impatto che ha portato ad un miliardo di euro le perdite nette delle attività italiane, compensate però dagli utili generati dai business internazionali. Nei nove mesi 2022, si legge nei risultati del terzo trimestre, il colosso petrolifero italiano ha infatti incrementato il portafoglio riserve di circa 630 milioni di barili di petrolio equivalenti di nuove risorse, continuando a puntare sull’esplorazione in Algeria, Angola, Abu Dhabi, Ghana, Egitto, Costa d’Avorio e Cipro. Non proprio in linea con quanto ci si aspetterebbe da una società che dichiara di voler ridurre, entro il 2040, l’80% delle emissioni nette scope 1, 2, 3 – e quindi emissioni dirette, indirette da consumo energetico e altre emissioni indirette lungo la catena del valore dell’organizzazione - rispetto ai livelli 2018. Una dissonanza cognitiva che anche Carbon Tracker ha notato. “Sono molte le aziende che hanno obiettivi di emissioni come target per i propri dirigenti. Ma spesso ci accorgiamo che la loro portata è più limitata rispetto agli obiettivi generali dell'azienda. ENI è una di queste - continua O’Connor – Eni ha un piano di riduzione delle emissioni molto ambizioso. In un'altra serie di rapporti, chiamata Absolute Impact, in cui classifichiamo i piani di riduzione delle emissioni delle aziende, Eni si è piazzata al primo posto. D'altro canto, però, vediamo che i loro programmi di incentivazione a breve e lungo termine per i dirigenti si basano solo su obiettivi relativi alle emissioni di scope 1 e 2 su base di intensità di emissioni. Quindi, come dire, non stanno rispettando gli obiettivi. C'è uno scollamento tra la loro progressiva riduzione assoluta e la realtà.”

La posizione di Eni sui dati Carbon Tracker

Interrogata da Materia Rinnovabile rispetto ai dati diffusi da Carbon Tracker, Eni fa sapere che “il piano di incentivazione di breve termine per l’amministratore delegato e per il management strategico della società include gli obiettivi di riduzione dell’intensità delle emissioni di gas serra, scope 1 e 2 associate alla produzione di idrocarburi, ma anche di sviluppo di energia da fonti rinnovabili, target che pesano complessivamente il 25%, mentre il peso dell’obiettivo relativo alla produzione di idrocarburi è pari al 12,5%”. Composizione simile anche per il piano di incentivazione a lungo termine, che invece prevede “obiettivi legati alla sostenibilità ambientale e alla transizione energetica che pesano complessivamente il 35% (15% obiettivo di decarbonizzazione riguardante la riduzione dell’intensità delle emissioni di gas serra, scope 1 e scope 2 associate alla produzione di idrocarburi, 10% realizzazione di progetti rilevanti di economia circolare, ma anche il 10% obiettivo di sviluppo di energia da fonti rinnovabili;)”.
Eni, inoltre, ribadisce di non voler fare passi indietro e anzi conferma il proprio impegno strategico nel perseguimento degli obiettivi legati alla transizione energetica (zero emissioni nette scope 1, 2 e 3 al 2050, con obiettivi intermedi del -35% al 2030 rispetto al 2018, -55% al 2035, -80% al 2040). Tuttavia, il colosso petrolifero afferma altresì la “volontà di continuare a contribuire alla sicurezza energetica globale rispetto a una domanda di energia ancora in larga parte basata sulle fonti tradizionali, condizione imprescindibile perché la transizione energetica stessa sia sostenibile ed equa anche dal punto di vista economico e sociale, e quindi effettivamente realizzabile. Da questa volontà deriva la necessità di abbattere in modo progressivo, e non repentino, gli obiettivi di produzione.”
Così, ancora una volta, è il phase down – e non il phase out – a vincere lo scontro retorico. La riduzione delle emissioni vince sulla loro definitiva eliminazione, che sarebbe auspicabile anche alla luce delle recentissime conclusioni pubblicate dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) nel suo World Energy Outlook 2022: anche in assenza di cambiamenti nelle politiche energetiche nazionali a livello mondiale, la domanda di gas sarà piatta a partire dal 2030 e quella di petrolio si stabilizzerà pochi anni dopo.
Raggiunto il famigerato picco, presto si perderà “una media annua equivalente all'incirca alla produzione di un grande giacimento petrolifero”. Investire in transizione energetica, sostenendo quindi anche politiche di remunerazione dei dirigenti che incentivino l'abbandono della produzione di combustibili fossili, è per le corporation una questione di sicurezza strategica, oltre che reputazionale. In caso contrario, tra pochi anni si potrebbe capire il vero significato del proverbio “ogni promessa è debito”.

Immagine: Grant Durr (Unsplash)