Efficientare un sistema già complesso crea spesso complicazioni. Tramite una lente filosofica, si nota l’urgenza di una mentalità che favorisca la semplicità: semplificare, evitando il semplicismo, snellisce la strada verso la circolarità.

Il perché della filosofia

We’ve forgotten how to ask the big questions, such as what makes a good life”, scrive Carolyn Steel nel libro Sitopia (Chatto & Windus, 2020). Approcciata da un dirigente Shell, Steel disse che “quello che davvero manca all’umanità è la filosofia, non le buone idee su cui investire i soldi”. Il dirigente si allontanò, indignato dal fatto che Carolyn Steel considerasse la filosofia, e non l’innovazione tecnologica, la risposta al sovrappopolamento mondiale e al vivere oltre le nostre possibilità.

Non è forse la tecnologia la soluzione ai grandi problemi di oggi?
Solo in parte, poiché utilizzare la filosofia significa analizzare i problemi a partire dai loro fattori scatenanti, e quindi dai preconcetti alla loro base. Avere un approccio filosofico significa perciò avere un approccio sistemico: la tecnologia si rivolge alla gestione di un problema, mentre la filosofia mira al suo stesso presentarsi. Un concetto approfondito ad esempio nel paper Leverage Points: Places to Intervene in a System di Donella Meadows (The Sustainability Institute, 1999).

Tale considerazione aiuta a interpretare il modello di economia circolare fondato sulle 5 R. Ad esempio passare dalle bottiglie monouso di plastica riciclata alla propria bottiglia (da Recycle a Reuse) è un cambio di filosofia e non di tecnologia. Il modello delle 5 R è gerarchico poiché ci sono approcci che hanno una maggiore efficacia di altri in un’ottica di cambiamento sistemico. Infatti, anche se si riuscisse a recuperare tutta la plastica monouso, riciclare comporta un alto dispendio energetico e, di conseguenza, un impatto ambientale non trascurabile.

Efficientare è complesso

L’innovazione sembra ancora concentrata sull'efficientamento del sistema attuale, piuttosto che sul riformare il business as usual. Può tale attitudine portare il cambiamento radicale di cui tanto abbiamo bisogno?

La questione delle bioplastiche è un esempio di come sia facile introdurre complessità nel sistema, generando malintesi e richiedendo nuovi processi normativi, industriali e di monitoraggio. Per esempio, “biodegradabile” e “compostabile” sono spesso erroneamente utilizzati come sinonimi. In realtà, il primo descrive una decomposizione in condizioni comunemente presenti in natura, mentre il compostaggio è un processo indotto dall’uomo. Pertanto, in un’ottica di raccolta differenziata, le bioplastiche hanno bisogno di condizioni di compostaggio diverse rispetto al resto della frazione organica con le quali vengono conferite. In effetti, il compost prodotto risulta spesso di bassa qualità per via di un’alta percentuale di corpi estranei. Oltretutto, va considerato che le bioplastiche potrebbero derivare da fonti fossili, visto che European Bioplastic Association definisce bioplastiche anche alcuni materiali di derivazione fossile.

Allo stesso modo, si può parlare delle startup che utilizzano gli eccessi di produzione di altre industrie: se presi singolarmente sembrano fenomeni positivi ma, basando il proprio modello di business sull'abbondanza di un certo scarto, non esistono motivazioni per risolvere tali eccessi. Un esempio tra tanti sono le birre fatte con pane di scarto: questa innovazione, sebbene molto positiva nel suo pragmatismo, non si rivolge alla causa scatenante degli sprechi, ovvero una logica produttiva che usa l’eccesso come modo di assicurare un’offerta abbondante e sempre accessibile per i propri clienti.

A tal proposito Carlotta Manzoni, organizzatrice a Milano del Circular Economy Club (CEC), citando la mappatura fatta da questo network di professionisti dell’economia circolare da lei coordinato, sottolinea: “La maggior parte delle startup mappate hanno un modello di business basato sulla valorizzazione di sottoprodotti come materie prime seconde (“waste as a resource”). Sicuramente utilissime, per ridurre l’impatto estrattivo delle industrie produttrici di beni, ma soprattutto per il ruolo educativo nei confronti dei consumatori, che, a mio avviso, rappresenta la componente a maggior valore aggiunto della loro offerta. A mio parere, ci si dovrebbe concentrare di più sull’innovazione del design, della progettazione di oggetti di uso quotidiano, per facilitare il recupero di materiali e rallentare drasticamente, se non arrestare, la corsa all’estrazione. Abbiamo bisogno di soluzioni che ci aiutino a rallentare i consumi e la produzione, senza rivoluzionare lo stile di vita a cui siamo abituati. Ben vengano, quindi, le soluzioni di produzione da materiali di scarto, purché riutilizzabili o biodegradabili a fine vita, ma finché questi modelli continuano a stimolare consumi smodati, faremo pochi passi avanti.”

Uno sguardo altrove

“Del maiale non si butta via niente: la tradizione del ‘non sprecare’ è tipica di qualsiasi popolazione nell'era pre-industriale”, ricorda Alice Casiraghi, consulente di economia circolare per Milano nell’ambito del progetto europeo Food Trails. “Prima dei processi produttivi meccanizzati, il lavoro per produrre beni era più faticoso, le risorse più scarse e quindi utilizzate nella loro interezza, con creatività e ingegno. In Italia nello specifico sono nate varie eccellenze da ciò che oggi riteniamo scarti: le corde in budello naturale del centro Italia per le orchestre di tutta Europa (arte ancora attiva a Salle), la carta per artisti dagli stracci vecchi di Amalfi, e, più di recente, le ormai famose friulane con la suola ricavata da vecchi copertoni di bicicletta”.

Per innovare, potremmo quindi farci ispirare dal nostro passato, o da altre culture: in India è ritornato ad essere normale per gli ambulanti vendere le bevande take-away in bicchieri di argilla (kullad). Persino le salse consegnate a domicilio possono arrivare in tali contenitori. I kullad sono considerati usa e getta proprio perché l’argilla, sgretolandosi, torna ad essere semplicemente terra, unendosi a quella presente al bordo strada.
Altra usanza sono i piatti di foglie (patravali): alle volte delle foglie di grandi dimensioni vengono usate semplicemente a mo’ di vassoio, ma spesso alcune foglie vengono pressate o cucite insieme nella forma di un piatto. Questi piatti biodegradabili sono accessibili per tutti i rivenditori, anche gli ambulanti.

Lodare la semplicità però, non deve cadere nel semplicismo: considerare le criticità logistiche (il peso della terracotta), gestionali (la fragilità della terracotta) e igieniche (la conformità con l’HACPP), oltre di un inevitabile aumento dell’estrazione delle materie prime, rimane necessario. Ma fino a che punto queste criticità dovrebbero limitarci? D’altronde, utilizziamo il vetro che è pesante, ma necessita di tanta energia per essere riciclato; e avendo già protocolli che garantiscono l’igiene dei cibi, perché questi non potrebbero garantire anche per i contenitori take-away alternativi? Il punto che si vuole evidenziare è come l’utilizzo di materiali biodegradabili, semplici da reperire e da smaltire, potrebbe essere chiave per una transizione più economica e democratica, e auspicabilmente più veloce.

All’atto pratico: alleanze, localismo e progettazione

La nostra economia iper-globalizzata è basata sulla collaborazione con partner di tutto il mondo: quest’estrema delocalizzazione è un fattore che crea efficienza economica, ma comporta spesso impatti negativi in ambito sociale e ambientale. “La maggior parte delle aziende oggi si sta concentrando sulle Emissioni di Scope 1 e 2 che sono più facili da azzerare, piuttosto che su quelle di tipo 3. Per agire con efficacia sulle emissioni di tipo 3, serve che le aziende modifichino interi processi produttivi, partnership di lungo termine, modelli di vendita e di utilizzo dei prodotti: tutto ciò può essere molto sfidante”, osserva Alice Casiraghi. Le emissioni di tipo 1 – spiega - sono le emissioni dirette delle operazioni aziendali, le emissioni di tipo 2 quelle indirette dovute all’uso di energie generate da terzi, mentre le emissioni di tipo 3 sono quelle che vengono dall'intera filiera produttiva: ad esempio in fase upstream l'estrazione di risorse vergini, i processi di lavorazione e trasporto fino al luogo di trasformazione. A cui si aggiungono quelle della fase downstream: l'energia associata all’utilizzo del prodotto, gli scarti generati da packaging o dal prodotto stesso a fine del ciclo vita. Poi continua: “Per la piccola e media impresa italiana, che costituisce gran parte del nostro tessuto produttivo, attualmente i fondi PNRR rappresentano una grandissima opportunità di innovare per la circolarità: innovare in rete è molto più semplice in questo tipo di economia. Il problema risulta scalare con efficacia.”

A questo proposito, Carlotta Manzoni parla di rilocalizzazione: “Una soluzione può essere rappresentata dai distretti industriali in cui si creano simbiosi industriali come a Kalundborg. Qui è più facile adottare pratiche come la condivisione di impianti e flussi di materiale ed energia, grazie alla prossimità.”
Per far fruttare le simbiosi di filiere iper-localizzate, l’innovazione di prodotto risulta imprescindibile. Alice sottolinea: “Il cambio di offerta sul mercato non deve avvenire necessariamente dall’oggi al domani, l’importante è che però sia una priorità a livello di ricerca e sviluppo. In questo modo si possono sperimentare in contemporanea molte più soluzioni sostenibili e alternative circolari al modello di business corrente dell'azienda, per esempio: nel mondo dell'alimentare nuovi materiali per le confezioni, vuoto a rendere con abbonamento, riuso degli scarti, riduzione dell'energia e dei materiali nel processo produttivo. Sul mercato si possono lanciare periodicamente alcune linee di prodotto che seguono una logica di innovazione radicale e coraggiosa, partendo da target di nicchia, in contesti e periodi temporali specifici, per testare la risposta dei clienti. Non sarebbe niente di nuovo per le aziende, la novità è farlo con prodotti sinceramente sostenibili, senza greenwashing”.

Anche Carlotta Manzoni sottolinea l’importanza del design: “Un fattore abilitante dell'economia circolare è proprio il design. Noi circular geeks amiamo termini cool come Design for Reuse, Design for Maintenance, Design for Refurbishment, Design for Remanufacturing, Design for Recycle, ma di fatto il fine è uno, quello di operare scelte di progettazione che facilitino la manutenibilità, la riparabilità, la sostituzione di componenti, la rigenerazione e il riciclo di un prodotto e /o delle sue singole parti.”
La progettazione deve quindi mirare alla semplicità per favorire la circolarità. 

Un approccio democratico 

“La democratizzazione della circular economy deve venire dai policy makers, dalle istituzioni a cui fa capo l’istruzione e dalle grosse aziende, che possono influenzare i comportamenti dell’intera filiera in cui operano, rendendo così l’offerta circolare accessibile ai più”, dice Carlotta Manzoni, citando inoltre la deregolamentazione come fondamentale per adottare pratiche circolari. Infatti, ad oggi, i processi burocratici riguardanti l’economia circolare sono lunghissimi e la loro complessità richiede un know-how specifico che costa molto alle aziende. Ciò crea una barriera all’ingresso e fa sprecare tempo ed energie, limitando così l’innovazione. Alice Casiraghi concorda: “In Italia dobbiamo sicuramente semplificare i processi burocratici, soprattutto per il settore dell'innovazione che cerca di portare soluzioni inedite e rilevanti dovendo tuttavia districarsi tra innumerevoli cavilli, commi, ed eccezioni ad hoc. Un modo di semplificare la burocrazia è tramite l'adozione di tecnologie di tracciamento, che rendano le filiere più trasparenti e quindi semplifichino il lavoro del legislatore. Nel mondo occidentale ci sono molte leggi nate da esigenze di sicurezza lavorativa, alimentare, abitativa e via dicendo, che rischiano di diventare barriere controproducenti per l'innovazione e la sostenibilità.”

Per entrambe, ricerca ed educazione sono altri aspetti fondamentali di cui le istituzioni pubbliche si devono necessariamente interessare: le municipalità dovrebbero fare più bandi sia per l’educazione dei cittadini, dei lavoratori e degli stessi policy makers che per implementare nelle filiere pubbliche sistemi di recupero materiali efficaci.

Rigenerare piuttosto che estrarre

Per trovare un equilibrio con l’ecosistema Terra, questo tipo di azioni andranno compiute senza troppi indugi e seguendo il principio fondamentale della circolarità: semplificare, allearsi, innovare ed educare non serviranno a nulla se la nostra filosofia sarà ancora quella estrattiva e non diventerà rigenerativa. Bisogna ricordarsi che per rigenerare non basta ricondividere un po’ di energia con il sistema in maniera raffazzonata: bisogna invece che questa ricondivisione sia equa e proporzionale a quello che è stato tolto al sistema in principio. Siamo pronti alla sfida?

Immagine: Kintsugi, Riho Kitagawa (Unsplash)