Da oggi, ogni anno, il 24 maggio sarà la Giornata di lutto nazionale per le 15 vittime dell'alluvione in Emilia-Romagna. Lo ha deciso il Consiglio dei Ministri, dopo aver disposto gli interventi urgenti per la gestione dell'emergenza e aver stanziato i primi due miliardi di euro per i territori e le popolazioni colpite, tanto in pianura quanto in Appennino. Sono 23 i fiumi e corsi d’acqua esondati, 100 i comuni coinvolti, 350 i milioni di metri cubi d’acqua caduti nell’areale più colpito, migliaia le frane.

Tricolore a mezz’asta, quindi, così come vuole il rituale collettivo nei casi di cordoglio. Ma anche minuti di silenzio, unici istanti capaci di sospendere l’ansia, legittima, della ricostruzione. Di fronte a tropicalizzazione del clima e “colpi di frusta meteorologici”, estremi sempre più intensi e sempre più frequenti, non possiamo più immaginare il futuro ripristinando un paradigma – fatto di consumo di suolo, scarsa manutenzione, difetti di progettazione e mancato ascolto della comunità scientifica – che in Emilia-Romagna è rimasto sommerso due volte in un solo mese. Così, per comprendere quali soluzioni sono percorribili, Materia Rinnovabile ha intervistato Arcangelo Francesco Violo, Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi.

Nei territori colpiti dall’emergenza piove di più o di meno rispetto al passato? 
Eventi meteorici importanti ci sono stati anche nel passato, ma ora registriamo con certezza una frequenza sempre maggiore, con periodi di siccità sempre più prolungati e, anche se a livello di quantità totali non ci sono grandi differenze, con piogge che si concentrano in periodi sempre più ristretti.

Al di là dei dati statistici delle serie storiche delle precipitazioni, che si valuteranno poi, va evidenziato che quello che è avvenuto in questi giorni in Romagna è un evento meteorico estremo e caratterizzato da una concomitanza di fattori. A maggio abbiamo avuto due eventi importanti che si sono susseguiti nel giro di pochi giorni. Il primo, in particolare, è arrivato dopo un lungo periodo di severa siccità, impattando su un terreno arido in cui la pioggia ha avuto difficoltà ad infiltrarsi, causando un forte ruscellamento. Di contro, il secondo evento è avvenuto dopo che il terreno si era saturato.

Andiamo subito alle soluzioni, cosa possiamo fare?
Dobbiamo essere consapevoli che nei prossimi anni dovremo fare sempre di più i conti con questo tipo di eventi. C’è quindi la necessità di attuare tutta una serie di azioni integrate, strutturali e non strutturali, ma soprattutto di fare dei piani di adattamento pluriennali. Per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico vanno stabilite bene le priorità. In passato, anche quando i soldi ci sono stati, spesso su questa materia non sono stati spesi dando un ordine di priorità oggettivo.

Spesso, poi, ci sono risorse per le opere e non per una progettazione di qualità, aspetto che però determina l’efficacia di un intervento. Mancano anche piani di manutenzione e monitoraggio successivo all'esecuzione degli interventi. Un aspetto fondamentale, perché le infrastrutture non annullano mai il rischio. Quello residuo va valutato e gestito anche dopo la realizzazione delle opere.

Ha parlato di azioni strutturali e non strutturali, cosa intende?
Dove necessarie dobbiamo lavorare alle opere strutturali, realizzando ad esempio vasche di laminazione e di accumulo che riescano a immagazzinare l'acqua quando è in eccesso e a rilasciarla quando manca. Senza trascurare però il ruolo fondamentale che possono avere i serbatoi acquiferi sotterranei nella mitigazione degli effetti dei periodi di siccità prolungati. 

Per quando riguarda il Decreto Siccità abbiamo partecipato in audizione alla Commissione Ambiente alla Camera chiedendo di adottare anche queste soluzioni, prevedendo la possibilità di rendere queste vasche utili anche per la ricarica delle falde. Tuttavia, abbiamo lamentato che in alcune aree del nostro Paese non c'è una conoscenza approfondita delle potenzialità dei corpi idrici sotterranei che, se si vogliono rendere utilizzabili, vanno studiati evitando di creare modificazioni irreversibili dei regimi idraulici sotterranei.

E per le azioni non strutturali?
Le opere strutturali non basteranno a risolvere il problema.  In alcuni casi, anche per l’intensiva urbanizzazione che è stata fatta spesso senza tenere conto dei pericoli, ci troviamo infatti in situazioni dove è veramente difficile intervenire in maniera risolutoria.
Vanno quindi affiancate attività non strutturali: da una pianificazione sempre aggiornata a presidi territoriali che monitorino il territorio costantemente, quindi che siano efficaci sia in fase di programmazione degli interventi - perché conoscono effettivamente le criticità dei luoghi - sia in caso di emergenza, perché conoscono le problematiche che la popolazione di quell'area può avere nel recepire i comportamenti di autoprotezione, ciò quelle condotte che ogni cittadino deve sapere e mettere in pratica, in maniera quasi automatica, quando scatta l’allerta.

Ad esempio, anche se purtroppo si sono registrate comunque tante vittime, per la Romagna c'è stata un’allerta rossa che sicuramente ha diminuito le possibili conseguenze negative. Questa è una cosa su cui bisogna lavorare per cercare di non registrare più perdite di vite umane.

Quale può essere il ruolo della riforestazione? 
La riforestazione è utile in molte aree e per vari motivi. Oltre a fare bene ad ambiente e atmosfera, limita l'erosione superficiale del terreno, con effetti positivi sul regime di ruscellamento superficiale e sul rischio idrogeologico. Al di là di casi particolari dove sono stati effettuati disboscamenti “forzati”, vediamo però che c'è  un aumento delle aree forestali in Italia dovuto ad un altro problema, lo spopolamento delle aree interne. Terreni collinari e montani che nei decenni passati erano utilizzati per agricoltura rurale e che ora, abbandonati, danno spazio a vegetazione spontanea.

Riduzione del rischio significherà ridare spazio ai fiumi o arrivare, come accade già in alcune aree degli Stati Uniti, anche a demolire e delocalizzare interi quartieri?
Sicuramente sì, anche perché abbiamo delle situazioni conclamate di grave pericolosità sia per il rischio idraulico sia per le frane; pensiamo all’Appennino in questi giorni, in una prima fase i cedimenti sono stati trascurati, ma ora sono sotto gli occhi di tutti. 

In alcuni casi bisogna rinaturalizzare i corsi d'acqua e, dove è necessario e oggettivamente possibile, ovviamente delocalizzare. Ci sono aree in cui è impossibile, con costi accettabili, dare un minimo di sicurezza ai cittadini. Questa opzione è quella che noi chiamiamo “decostruzione”, cioè la delocalizzazione di fabbricati anche non abusivi, che sono stati costruiti grazie a piani territoriali urbanistici che negli ultimi decenni non hanno tenuto conto di aree a elevata pericolosità geologica.  Per farlo servono forme di incentivi, anche urbanistici,  per riqualificare quelle aree dove avverrebbe la demolizione andando quindi a recuperare il suolo senza consumarne nelle aree intorno, puntando ad un bilancio a zero consumo di suolo.

Immagine: Dipartimento Protezione Civile