Per cogliere tre frutti d’oro dal giardino delle Esperidi, Ercole aveva dovuto reggere il cielo sulle spalle al posto di Atlante. I pionieri dell’agromining sperano invece di dover fare molta meno fatica per ottenere un bel raccolto di nichel o cadmio da un campo di fiori selvatici.
Detta così, la faccenda suona un po’ alchemica. Ma in realtà l’agromining o phytomining è un filone di studi e sperimentazioni che vanta già una riconosciuta tradizione ultra-trentennale e che oggi sta vivendo un picco di interesse per via delle potenzialità sia nel recupero di risorse critiche che nella bonifica di terreni contaminati.
Tutto si basa sulla capacità delle piante di assorbire e stoccare quantità variabili di metalli dal suolo. Alcune hanno portato questa abilità ad alti livelli di specializzazione, arrivando ad accumulare elementi come nichel, cobalto, arsenico o selenio fino a cento o anche mille volte più della norma. Sono le cosiddette piante “iperaccumulatrici” e diversi scienziati in giro per il mondo stanno oggi lavorando per sfruttare questo super-potere e riuscire a ricavare elementi critici dalla terra senza scavare.
Per fare il nichel ci vuole un fiore
Una distesa di piccoli fiori gialli selvatici in un’area montuosa tra Albania e Grecia: quello che ad occhio inesperto potrebbe sembrare un comune scorcio di macchia mediterranea è in realtà una miniera, o meglio, una coltivazione di nichel. “I monti in questa zona d’Europa – spiega a Materia Rinnovabile Mirko Salinitro, ricercatore presso il dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna - sono pieni di serpentino, un minerale che contiene grandi quantità di nichel. E così anche i terreni che derivano da tali rocce sono naturalmente ricchi di questo metallo, il che li rende poco fertili e praticamente inutili da un punto di vista agricolo, ma decisamente interessanti per sperimentare l’agromining”. L’area è infatti tra quelle scelte per il progetto europeo Life-Agromine, che tra il 2016 e il 2021 ha condotto sperimentazioni sul campo in 5 Paesi (oltre a Grecia e Albania, anche Austria, Francia e Spagna), ognuno con specifiche condizioni climatiche e di suolo.
“Ma le iperaccumulatrici – continua Salinitro – sono diffuse un po’ in tutto il mondo, dalle zone tropicali ed equatoriali fino al Nord Europa e Nord America. Si sono evolute in habitat molto difficili e selettivi, con poca altra vegetazione a far da cibo a erbivori e insetti. Si ritiene dunque che l’iperaccumulo di metalli sia una caratteristica sviluppata da queste specie come strategia di difesa contro gli animali”. Un esempio di questa tattica difensiva ben noto agli esperti di montagna è l’Astragalus bisulcatus, un gentile fiorellino viola a grappolo che fa impazzire i bovini che disgraziatamente lo brucano e uccide le pecore per intossicazione da selenio.
Altre iperaccumulatrici famose sono l’erba storna azzurrina (Noccaea caerulescens), che estrae zinco e cadmio dalla terra, l’Haumaniastrum robertii, ghiotto di cobalto e rame, la Biscutella montanina che ama il titanio, e due tipi di felci, la Pteris vittata che assorbe arsenico, mercurio e piombo, e la Dicranopteris linearis, amica delle terre rare. “Le specie sono comunque tantissime – precisa Salinitro - ad esempio gli iperaccumulatori di nichel conosciuti sono ben 750”. Fra tutti, il più rappresentativo e studiato è di certo l’Alisso murale o Odontarrhena chalcidica, il cui fiore giallo ha dato non poche soddisfazioni negli studi sul campo in Albania: secondo i dati dell’Università francese di Lorraine, capofila del progetto Life-Agromine, la sua coltivazione è stata infatti “ottimizzata per produrre fino a 10 tonnellate di biomassa secca per ettaro, da cui si possono estrarre fino a 150 kg di nichel”. Una resa confrontabile a quella della miniera, visto che in media il minerale estratto contiene l’1 o 2% di nichel.