Il futuro potrebbe essere bidimensionale. Almeno, quello dei materiali.
Da quando, nel 2004, i due fisici russi
Gejm e Novosëlov sono riusciti a isolare il primo strato monoatomico di grafene, partendo dalla punta in grafite di una semplice matita, si è scoperchiato il vaso di Pandora dei materiali 2D. Un famiglia allargata di reticoli atomici dalle proprietà quasi fantascientifiche, che fino ad allora erano considerati inaccessibili. Tra ardite sperimentazioni, ricerca di fondi e ostacoli tecnici, si è aperta così la corsa alla killer application per il grafene e i suoi fratelli, che promettono in vari campi soluzioni non solo più performanti di quelle attuali, ma anche energeticamente più efficienti e circolari.
Ne abbiamo parlato con
Camilla Coletti, entusiasta coordinatrice della linea di ricerca “2D Materials Engineering” e del Graphene Lab dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Camilla Coletti IIT grafene

Cosa sono i materiali bidimensionali? Come possiamo immaginarceli?
Non è un concetto intuitivo. I materiali bidimensionali, come il grafene, sono letteralmente materiali spessi un atomo. Possiamo immaginare un foglio con lo spessore di un atomo, quindi talmente sottile da essere invisibile. Proprio per questo siamo arrivati così tardi a scoprirne l'esistenza.
Il grafene si può definire la “madre” di tutti i materiali 2D e anche delle forme allotropiche del carbonio: pensiamo alla grafite, ai nanotubi di carbonio, ai fullereni, tutti materiali già studiati nel corso del XX secolo. La grafite non è altro che una sovrapposizione di strati di grafene, impilati uno sopra l’altro; arricciando il grafene su se stesso otteniamo invece il nanotubo; se ne facciamo una pallina otteniamo un fullerene.

Ma perché ci è voluto così tanto tempo per scoprire il grafene?
Innanzitutto perché mancavano le metodologie per riuscire a vedere qualcosa di così sottile e trasparente. In realtà le tecniche c'erano anche, ma quello che era forse un ostacolo ancora più importante è che questo materiale si pensava non stabile da un punto di vista termodinamico. Il che significa che staccandolo e isolandolo ad esempio dalla grafite si arriccia su se stesso e quindi non esiste come foglio di spessore atomico.

La scoperta del grafene, che ha valso il Nobel ai fisici russi Andrej Konstantinovič Gejm e Konstantin Sergeevič Novosëlov, è una di quelle storie che ha quasi dell’incredibile per la casualità e la semplicità con cui avviene...
È stata una scoperta nata dalla voglia di andare oltre ciò che si crede possibile. Nel mondo degli scienziati il venerdì sera, invece di andare fuori a fare l’aperitivo, ci si diverte a fare gli esperimenti “strani”. Questi due scienziati russi si sono quindi messi, un venerdì sera a Manchester, a provare a esfoliare la punta di una matita con dello scotch, più e più volte, con un movimento ripetitivo, per vedere se fosse possibile isolare un singolo strato di grafene. Alla fine ce l’hanno fatta e hanno vinto il Nobel. Spesso è stato detto che il premio è stato attribuito troppo frettolosamente, per un esperimento da bambini. Ma in realtà i due non hanno solo isolato il grafene, ne hanno studiate le proprietà ed è stato questo a cambiare un po’ tutto.

Quali sono dunque queste proprietà?
Il grafene è una struttura in cui gli atomi di carbonio sono disposti a nido d'ape, in forma esagonale. Non c'è niente di esotico in questo: la grafite è la stessa cosa solo che è costituita da tanti strati di grafene uno sopra l'altro. Era dunque già stata studiata e si era anche predetta la possibilità di avere delle proprietà esotiche con il grafene, però si pensava che in natura non fosse possibile isolare un materiale 2D senza che esso scomparisse all'istante. Invece poi ci si è riusciti e le proprietà trovate sono davvero eccezionali. Ecco perché si è cominciato a parlare del grafene come del “materiale delle meraviglie”.
Innanzitutto si può dire che sia un parco giochi per fisici. In questo materiale infatti gli elettroni, portatori di carica, viaggiano a velocità relativistiche, cioè paragonabili a quelle della luce. Molte delle predizioni teoriche fatte ai tempi di Einstein, che non erano comprovabili perché non c’era un materiale adatto che permettesse di verificarle, con il grafene hanno così finalmente trovato una piattaforma sperimentale.
Poi ovviamente si è cominciato a pensare ad applicazioni pratiche. Questi elettroni velocissimi aprono possibilità per progettare computer velocissimi: è nato il sogno del graphene inside, cioè di computer con processori in grafene invece che al silicio. Una cosa che poi si è capito essere problematica, perché il grafene conduce sempre, non ha “on” e “off”. Perciò in questi 17 anni dalla sua scoperta i vagheggiati computer al grafene non sono stati realizzati e probabilmente non saranno l’applicazione d’elezione di questo materiale.

Tornando alle proprietà dei materiali 2D...
La proprietà principale è appunto l'avere dei portatori di carica che viaggiano a velocità incredibili che approcciano quella della luce. Praticamente questi elettroni si muovono quasi senza incontrare resistenza, e questa caratteristica determina anche la proprietà della super conduzione.
Poi c’è la trasparenza: il 97 % della luce nello spettro del visibile ci passa attraverso.
Inoltre, il grafene è un materiale incredibilmente flessibile ma al contempo è anche molto resistente: robusto come il diamante ma flessibile come la plastica. Insomma potremmo farci tante cose interessanti.

Quali sono però i punti critici quando si tratta di lavorarci?
C’è come dicevamo il problema dell’on e off. Dal punto dei visto del lavoro pratico, il primo problema è naturalmente il fatto che il materiale sia così sottile, tanto che per vederlo al microscopio bisogna avere l’occhio allenato.
L'altro grande problema è stato cercare di realizzarlo su larga scala. Una cosa è avere un flake, un foglietto il cui diametro è quello di un capello: se sei in un laboratorio di ricerca ti ci puoi divertire a fare un piccolo dispositivo e vedere come lavori perfettamente. Però se parliamo di applicazioni, con dimensioni così infinitesimali non ci fai nulla. Quindi una delle prime difficoltà che gli scienziati hanno cercato di superare è stata quella di realizzare il grafene in maniera scalabile mantenendone le proprietà: con la stessa qualità cristallina, con tutti i suoi esagoni regolari, senza che manchi un atomo o che ci si trovi qualcos'altro invece del carbonio. Non è stato affatto facile, ma sono stati fatti tanti passi avanti sin da subito e ci sono stati diversi approcci che hanno permesso di arrivare ad avere grafene di alta qualità “cresciuto” su vari supporti.

Cresciuto?
Dico “crescere” perché questo è il metodo che usiamo nei nostri laboratori all’IIT ed è uno dei metodi più classici per ottenerlo. Si utilizza un piattello circolare, che chiamiamo wafer, per depositarci sopra il grafene. Il tipo di
supporto si sceglie in base all’applicazione finale e può essere di silicio, carburo di silicio, zaffiro, rame o altro materiale tipicamente usato in applicazioni elettroniche. Il wafer si mette in un grande forno scaldato con metano a temperature sopra i 1000 gradi e dopo alcuni minuti avviene la reazione detta “deposizione chimica da fase vapore” (CVD): in pratica il carbonio derivante dal metano si deposita sul supporto formando il grafene. Alla fine del processo raffreddiamo il forno e lo tiriamo fuori. Il più delle volte a occhio nudo non si vede niente e bisogna verificare con spettroscopia o microscopio se si è ottenuto il nostro perfetto monostrato di grafene.

Esistono altri modi per ottenerlo?
Sì, ci sono ad esempio processi di produzione che partono dalla grafite: centrifugandola a velocità ultrasonica in un solvente si ottengono degli “inchiostri”, che possono essere poi letteralmente spruzzati e miscelati ad altri materiali per rafforzarne le proprietà di base. Sono ideali per applicazioni low tech, come caschi e racchette, e perciò questo sistema è stato molto esplorato negli ultimi anni e ha permesso la produzione di prodotti che sono già sul mercato.
Il sistema dei forni permette invece di avere materiale di altissima qualità, puro e non in forma di soluzione. Una volta ottenuto, ci fabbrichiamo dei dispositivi, ad esempio per la trasmissione dei dati, che si dimostrano molto performanti, visto che il grafene funziona bene sia come trasmettitore che come ricevitore.

graphene on foil grafene IIT
Grafene su substrato, ph IIT

Perché sono così interessanti questi building blocks della fotonica fatti con il grafene?
Il Covid, se ce ne fosse stato bisogno, ci ha dimostrato quanto abbiamo bisogno di
trasmissione di dati. La richiesta è diventata enorme e ormai siamo arrivati a un raddoppio di banda ogni due anni, che però deve essere a parità di costo, di consumi energetici e di footprint, cioè la dimensione dei dispositivi. Richieste a cui non si riesce più a stare dietro con le tecnologie esistenti: nell'elettronica siamo arrivati alle dimensioni minime raggiungibili con dispositivi in silicio e nella fotonica siamo arrivati al massimo possibile raggiungibile con i materiali che utilizziamo. Abbiamo bisogno di nuovi materiali.
Il grafene è interessante in questo campo innanzitutto perché ha la capacità di convertire l'energia luminosa in segnali elettrici e lo fa in maniera energeticamente molto efficiente. Quindi permette di realizzare dispositivi che trasmettono e ricevono con basso consumo energetico e con prestazioni eccezionali, banda più larga, dimensioni piccolissime. Anche il costo è promettente, perché i monostrati di spessore atomico si possono trasferire sulle piattaforme fotoniche esistenti, senza chiedere alle aziende di cambiare tutte le loro linee di produzione.

È una prospettiva interessante anche per quanto riguarda la possibilità di sostituire materie prime critiche come le cosiddette terre rare…
Sicuramente un materiale a base di carbonio è una soluzione più sostenibile, anche dal punto di vista dell’inquinamento da rifiuti elettronici che sta diventando un grosso problema.

Trattandosi di carbonio, si possono ipotizzare processi di cattura e recupero della CO2 da cui partire per la produzione di grafene?
Utilizzare la CO2 invece del metano è in effetti una delle prime soluzioni a cui abbiamo pensato, ma ci siamo dovuti fermare per limiti tecnici dei nostri macchinari. Ci sono però già delle ricerche che utilizzano diversi tipi di scarti, prodotti organici, oli vegetali per ricavare il carbonio da cui produrre il grafene. La qualità ancora non è ottima, ma certo in futuro questi processi verranno affinati.

Si può quindi immaginare un’economia circolare del grafene?
Sì, le possibilità ci sono. Tutto sta nel riuscire a dimostrare non solo che si può fare – perché questo già lo sappiamo – ma che si può fare mantenendo la qualità elevata del materiale ottenuto.
Soprattutto, il sogno mio e di chi lavora sul grafene è di trovare la cosiddetta killer application, cioè l’applicazione importante, che veramente possa cambiare qualcosa nella vita pratica delle persone. Senza nulla togliere a prodotti low tech che già sono sul mercato, come racchette, gomme delle bici o altri, vorrei vedere il grafene in un’applicazione capace di rivoluzionarci la vita in meglio. Potremmo avere, come dicevo, tecnologia di largo uso per trasmissioni più veloci e più green. Se immaginiamo un panorama di questo tipo, avere la possibilità di produrre grafene di alta qualità con processi circolari sarebbe l’ideale.

A proposito di applicazioni green, ci sono allo studio anche dispositivi al grafene per purificare l’acqua...
Sì, anche in questo campo il grafene ha mostrato di avere possibili applicazioni interessanti e delle buone performance. Essendo un materiale molto versatile, a seconda di come viene processato può diventare altamente impermeabile oppure poroso, e in questo caso si presta appunto ad assorbire.

Abbiamo parlato tanto di grafene, ma non è l’unico materiale 2D. Dopo la sua scoperta sembra essersi aperto un universo di nuovi materiali a due dimensioni: quanti ne esistono?
Ce ne sono tantissimi. Ci sono studi teorici che parlano di centinaia e centinaia, poi ovviamente nella pratica quelli che riusciamo a sintetizzare, isolare e studiare sono molti di meno. Quelli su cui si concentrano al momento gli interessi maggiori sono il fratello bianco del grafene, il nitruro di boro, e i dicalcogenuri dei metalli di transizione. Il nitruro di boro è fatto esattamente come il grafene a nido d'ape, ma invece di avere tutti atomi di carbonio, ci sono un atomo di boro e un atomo di azoto alternati. Al contrario del grafene è un materiale isolante, per cui mettendoli insieme si ottengono dispositivi elettronici da sogno.
Poi c’è tutta la famiglia dei dicalcogenuri dei metalli di transizione (TMD) che sono formati da un atomo calcogeno (zolfo, selenio per esempio) e da un metallo di transizione come il tungsteno o il molibdeno: quindi abbiamo il disolfuro di tungsteno, il disolfuro di molibdeno e via così. Questi materiali sono in realtà tridimensionali, ma gli strati sono così debolmente connessi l'uno all'altro che è possibile esfoliarli e ottenere altri materiali 2D. La cosa interessante è che come materiali tridimensionali hanno determinate proprietà, ma isolando il singolo atomo o il singolo strato di atomi, le proprietà sono completamente diverse. Ad esempio il solfuro di tungsteno normalmente è un semiconduttore e non emette luce, ma in forma 2D è il contrario e ci si possono perciò fare un sacco di applicazioni di elettronica e optoelettronica.

Che cosa manca ancora e cosa servirà nel prossimo futuro per arrivare a delle applicazioni concrete e commerciabili per i materiali 2D?
Sicuramente da un punto di vista di investimenti c'è stato un forte aiuto dalla Comunità Europea con il progetto Graphene flagship, di cui facciamo parte e di cui fanno parte tanti Paesi europei e tante istituzioni. Questo progetto ha permesso di creare delle sinergie fra aziende e istituti di ricerca per muoversi rapidamente verso lo sviluppo di applicazioni pratiche.
Quello che manca è
riuscire a identificare le applicazioni migliori fra tutte le possibili e in quella direzione continuare a lavorare in maniera sinergica con le aziende e con quelli che potrebbero essere i fruitori finali dell'applicazione. Io direi che siamo a buon punto: se ora non si interrompe questo circolo virtuoso, abbiamo buone possibilità di vedere materiali 2D in applicazioni rilevanti in 5 o 10 anni. Fortunatamente l’interesse dal mondo dell'industria c'è. Il problema ora è riuscire a dimostrare la riproducibilità dei materiali 2D su larga scala: tutto quello che per ora riusciamo a fare su 3 centimetri, dobbiamo arrivare a farlo su 15 centimetri. Per sintetizzare, adesso ci servono riproducibilità e mercato.