Del resto, i dati sono chiari: il cambiamento climatico non si ferma, non c’è possibilità di dare un lavoro alle centinaia di milioni di giovani disoccupati e la competizione tra le nazioni del mondo si fa sempre più serrata. Gli economisti hanno un’unica soluzione per questi problemi e per le ingiustizie che creano: la crescita, sostenuta da un incremento dei consumi e dei debiti.

Molti dedicano tempo e impegno all’analisi delle informazioni disponibili. Molti cercano disperatamente delle soluzioni alternative. Nessuno sembra però capace di invertire i trend negativi. C’è una fiducia incondizionata in un’unica soluzione: la crescita, assieme a un periodo di austerità per quei paesi che non riescono a crescere. Ogni esperto analizza i dati da una prospettiva ristretta e strutturata in compartimenti stagni. Diventa così impossibile avere quella conoscenza integrata e connessa che è indispensabile per avere una visione capace di delineare percorsi innovativi ed efficaci in direzione del futuro.

La mancanza di una comprensione olistica sulle modalità di funzionamento dei sistemi economici e sociali non lascia spazio al buon senso. Di buon senso c’è invece urgente bisogno, per mobilitare le menti migliori e per andare oltre la sterile analisi dei drammi e proporre iniziative pragmatiche. Dal mio punto di vista, si spreca troppo tempo ad analizzare i problemi, a teorizzare soluzioni e a dibattere su questa o quella opzione. In pochi invece si sforzano di ottenere risultati migliori di quelli dell’attuale modello di crescita, anche assecondando gli ormai consolidati parametri del successo.

Sono poche le persone che hanno capito che analisi e teoria, sviluppo dei concetti e case studies non possono modificare di una virgola gli attuali trend negativi. Occorre piuttosto un cambiamento sostanziale nel modello di business. Dobbiamo superare la logica delle economie di scala e della riduzione continua dei costi per arrivare a una società che usa quel che ha a disposizione, che soddisfa come prima cosa le esigenze di base di tutti i suoi membri, che ridistribuisce i proventi nelle comunità locali e che genera capitale, soprattutto capitale sociale, per esempio rinforzando i beni e le risorse comuni. Dobbiamo superare l’idea che le cose vadano utilizzate una sola volta, idea che si basa su catene di fornitura lineari e rigidamente compartimentate, per arrivare all’impiego a cascata di nutrienti, materie ed energie, così come fanno gli ecosistemi. Possiamo raggiungere questo risultato solo con un’economia basata su materiali e risorse biologiche, supportata dall’upcycling creativo dei minerali. L’economia locale ne esce rafforzata, e si creano forme di resilienza adatte ad affrontare cambiamenti e traumi globali.

Il cambiamento fondamentale nel modello di business consiste nel superare l’approccio che ha di mira solo la riduzione dei costi. Occorre una strategia che punti a generare più valore con quanto è disponibile a livello locale, e che si affidi sempre più alla rigenerazione delle varie risorse entro i limiti della loro capacità di carico. Questo cambiamento è l’unico modo per costringere le aziende a non focalizzarsi su una gamma ristretta di prodotti. Accettare questa novità – anche se in effetti si tratta di una strategia facile da comprendere – è difficile, poiché è profondamente diversa da quanto viene insegnato nei Mba di tutto il mondo. Questo nuovo modello di business consente di generare ricavi multipli con le risorse che si trovano nelle immediate vicinanze dell’azienda, dell’imprenditore e delle comunità. Allo stesso tempo, può riportare la natura verso il suo naturale percorso evolutivo, e la protegge dall’inconsapevolezza dei consumatori. La cosa sorprendente è che quando un’azienda genera più flussi di profitto a partire dalle risorse disponibili può considerarsi al riparo dalle fluttuazioni dei prezzi sul mercato globale.

Non si tratta perciò della fine della globalizzazione, ma dell’inizio di qualcosa di gran lunga migliore!