In un’intervista pubblicata nel quinto numero di Materia Rinnovabile, l’economista Mariana Mazzucato analizzava gli attuali motori dell’innovazione. Descriveva come, negli ultimi decenni, i modelli di governance pubblica e privata siano progressivamente mutati al punto di non poter più generare innovazione. E concludeva suggerendo come rimettere l’innovazione sul binario giusto. 

In questo numero di Materia Rinnovabile abbiamo chiesto all’economista austriaco Friedrich Hinterberger, presidente del Sustainable Europe Research Institute (Seri), di darci la sua opinione sulla questione. Pur concordando con l’essenza dell’analisi della Mazzucato, nel prendere in considerazione le priorità e le tendenze che emergono nella cosiddetta generazione Facebook, egli offre un punto di vista originale su ciò che, oggi, guida il cambiamento.

 

Circa 20 anni dopo la pubblicazione di Economia, ecologia, politica. Rendere sostenibile il mercato attraverso la riduzione delle materie (di Hinterberger Friedrich, Luks Fred, Stewen Marcus, Edizioni Ambiente, 1999) quanti progressi sono stati fatti in direzione della dematerializzazione da voi sostenuta?

“Sono stati compiuti molti progressi da quando Friedrich Schmidt-Bleek ha dato vita a questo concetto. In particolare, negli ultimi dieci anni grazie alla spinta della Ue e delle azioni del Commissario Janez Potočnik. Ciò che è più rimarchevole, è che il linguaggio della dematerializzazione è diventato di uso comune nella comunità imprenditoriale. Ossia si è diffuso proprio fra coloro in grado di utilizzarne al meglio i concetti portanti. Sfortunatamente, e in qualche misura paradossalmente, non si può dire che sia avvenuta la stessa cosa nella sfera del policy making, ambito nel quale questo linguaggio è rimasto confinato agli esperti. Va detto che il dibattito sui cambiamenti climatici ha fagocitato gran parte dell’attenzione. A tal punto che, ultimamente, la Commissione sembra molto esitante, tanto da tergiversare sull’adozione del pacchetto di misure per l’economia circolare. In altre parole, l’attenzione per la dematerializzazione è scemata, o meglio, non è più in crescita. D’altra parte, con la decisione di dare priorità alla decarbonizzazione mettendo un freno all’utilizzo di carbone e petrolio, il G7 ha dimostrato che la dematerializzazione è ancora in programma e che le cose si stanno muovendo.”

 

Quindi la sua impressione è che mentre la sfera della policy è poco attenta, la comunità del business sta facendo progressi. 

“Oggi le imprese stanno gestendo la dematerializzazione, anche se questo aspetto è ampiamente oscurato dal dibattito sui cambiamenti climatici. Per esempio se si considerano gli indicatori e i criteri del Gri (Global Reporting Initiative) esiste un unico indicatore per i materiali mentre ve ne sono diversi per i gas a effetto serra. Un altro modo di vedere la cosa in termini pratici è notare come il dibattito sulla dematerializzazione sia rimasto indietro di almeno 20 anni rispetto alla discussione sui cambiamenti climatici; perciò c’è ancora molto da fare. Inoltre, osservando i dati si nota che le economie che per prime hanno intrapreso il processo di industrializzazione – come l’Europa, il Nord America e il Giappone – hanno dematerializzato diminuendo l’input diretto di risorse. Nonostante ciò i dati assoluti dicono che, a livello globale, il consumo di materiali sta ancora aumentando sia che si osservi il fenomeno a livello complessivo, sia su base settoriale.”

 

Quali strumenti di policy si sono rivelati più efficaci, e quali pensa debbano essere sviluppati?

“Consideriamo la prospettiva europea. Nell’Unione europea il riciclo è ancora trascurabile, tranne in alcuni paesi. Negli ultimi 20 anni gran parte del dibattito ha riguardato soprattutto gli imballaggi, che naturalmente rappresentano una parte considerevole dei materiali di scarto delle economie dell’Unione europea. Eppure, alla fine, pochi prodotti sono riciclati e un numero ancora minore sono davvero prodotti da materiali riciclati. Per esempio, anche nel caso del Pet, che gode di un considerevole tasso di riciclaggio, la maggior parte delle bottiglie sono prodotte da materia vergine. Nell’utilizzo di materiali riciclati siamo rimasti indietro, specialmente con i prodotti di uso comune, perché il processo viene studiato a partire dallo scarto, ossia viene considerato l’aspetto dell’output dei prodotti piuttosto che l’input. Dobbiamo ancora compiere una completa inversione a U nella concezione dei prodotti per migliorarne i fattori chiave quali la durata, l’intensità di servizio (service intensity) e la loro potenzialità a essere condivisi. Oltre a essere preferibile per l’ambiente, un simile orientamento avrebbe l’ulteriore effetto positivo di aumentare l’intensità d’uso (usage intensity) dei prodotti: infatti, un utilizzo più ampio e completo del prodotto favorisce la creazione di una maggiore ricchezza complessiva. 

Nonostante ciò, anche se molti sostengono la necessità di fare progressi in questa direzione, in termini pratici si è fatto ben poco. Oggi il trend è marginale in termini di quantità, ma molto promettente in termini di possibili sviluppi. Lo si può paragonare alla diffusione delle prime auto, o dei primi telefoni cellulari che, prima di diventare di uso comune, sembravano rivolti a un mercato di nicchia. 

Un’altra posizione che veniva sostenuta vent’anni fa – e che a oggi non è mutata – è quella che ritiene che i prezzi non siano ‘giusti’, cioè non riflettano il vero costo perché creati come strumenti di policy ambientale. Intendo dire che, per esempio, le tasse colpiscono le emissioni di anidride carbonica anziché mettere apertamente un freno all’utilizzo di materie prime. Alla fine colpiscono solo chi utilizza l’auto ossia i consumatori, con effetti solo indiretti sull’industria, e questo non è sufficiente.”

 

 

Quali sono gli effetti di altre tendenze – per esempio l’incremento dell’economia della condivisione – sulla dematerializzazione dell’economia?

“Ciò che davvero non avevamo previsto 20 anni fa sono i cambiamenti di vasta portata nelle abitudini di consumo delle generazioni più giovani. Questi cambiamenti sono in parte dovuti a fattori economici. Stiamo infatti attraversando una crisi economica di grande portata, che non si limita in alcun modo ai mercati finanziari. Tutti i motori classici dell’economia sono falliti, mettendo in luce la natura sistemica della crisi attuale. Ciò significa che le persone hanno sempre meno soldi, e pertanto una parte crescente della popolazione sta adottando soluzioni simili a quelle offerte da AirB&B per chi cerca una sistemazione e non può permettersi l’albergo o le altre forme classiche di accoglienza. Ciò naturalmente non impedisce lo sviluppo di nuove soluzioni semi-commerciali che emergono da questi nuovi canali. Il che comporta tutta una serie di nuovi problemi quali la percezione di una concorrenza sleale da parte delle realtà esistenti in precedenza e la conseguente perdita di posti di lavoro. Oltre tutto, quando è possibile, i giovani sono più attenti alla qualità del cibo, tanto che molti diventano vegetariani. Nell’insieme stanno adottando un atteggiamento più consapevole dal punto di vista ambientale, senza per questo trasformarsi necessariamente in ambientalisti militanti.”

 

Tra le policy che si occupano dell’utilizzo dei materiali e le tendenze di consumo delle generazioni più giovani, quali, secondo lei, hanno la maggiore probabilità di mettere in moto la transizione verso un’economia dematerializzata?

“Già 20 anni fa si pensava che le misure necessarie per progredire in questo campo si rinforzassero a vicenda. Idealmente, per poter ottenere il maggiore impatto possibile, tutte dovrebbero essere messe in opera, anche se a livello pratico ciò non implica che debbano essere adottate contemporaneamente. In realtà queste misure vengono adottate in maniera progressiva. Come ho detto prima, i cambiamenti nelle abitudini di consumo dei giovani influiscono sul mercato consentendo a nuove attività economiche di emergere. A sua volta, ciò potrebbe influenzare i contenuti dei programmi ideati per le elezioni locali e nazionali. Addirittura, potrebbe anche darsi che le aziende comincino a chiedere di tassare le risorse invece del lavoro, dato che la maggior parte delle attività legate al manutenzione e al rinnovamento dei prodotti sono ad alta intensità di lavoro. È chiaro che l’insieme di queste misure può avere effetti di vasta portata, che vanno ben al di là del loro obiettivo ambientale. Ma ciò che è ancor più importante è che hanno effetti economici e sociali molto positivi, poiché generano nuove opportunità di lavoro.”

 

Quali sono, secondo lei, le misure più urgenti che devono essere adottate dalla prossima Conferenza sul Clima di Parigi (COP21)?

“Anche qui è molto difficile poter indicare una strada in particolare, perché la dematerializzazione deriva da una combinazione di misure e di tendenze. Un miglior regime di tassazione è altamente auspicabile, ma risulta inutile se poi le aziende non sono in grado di offrire soluzioni appropriate. Oltretutto, è possibile che le tasse vengano riscosse senza che questo abbia alcun effetto rilevante sui prodotti. Questo a meno che non vengano concepite anche delle azioni complementari, come nel caso delle Fiandre che affida a consulenti il compito di aiutare le aziende a ideare nuove soluzioni. Un altro aspetto molto importante riguarda i media e il modo in cui possono rapportarsi a ciò che sta succedendo fra i giovani. Oggi, nel mio paese, l’Austria, la maggior parte dei giovani non prende nemmeno in considerazione l’idea di prendere la patente; non sono più interessati a guidare l’auto, mentre la mia generazione ha un atteggiamento molto diverso. In Francia l’età media di chi acquista un’auto è di 50 anni.”

 

In questo contesto, quali sono gli obiettivi e le azioni del Sustainable Europe Research Institute (Seri), da lei creato a Vienna nel 1999?

“Il nostro obiettivo principale è quello di far passare un messaggio semplice: ‘ciò che è inutile non ha valore’. In pratica lavoriamo con le aziende per aiutarle ad applicare e a comunicare questo concetto. Di conseguenza le aiutiamo a identificare i punti critici e i loro effetti principali, e poi mettiamo in pratica le azioni correttive o creiamo nuove soluzioni. Una volta che il lavoro è finito ci assicuriamo che i consumatori siano adeguatamente informati dello sforzo compiuto, così che i progressi fatti possano poi essere premiati da una scelta di consumo. Inoltre offriamo alle aziende degli strumenti di contabilità dei flussi materiali che consentono loro di massimizzare gli impatti negativi evitati, ossia di ridurre la CO2 ecc. Questi stessi strumenti sono utili anche nel momento in cui le aziende redigono i rapporti sulla propria sostenibilità. Infine il Seri aiuta i policy maker a creare nuovi strumenti di policy.”

Secession, Vienna. Foto di Tony Hisgett

 

Da economista di formazione lei si riferisce spesso al lavoro di Walter Eucken, uno dei padri della ripresa tedesca successiva alla Seconda guerra mondiale. Può dirci perché il suo lavoro è per lei una fonte di ispirazione?

“Walter Eucken e il gruppo di economisti a lui legati sono tra i fautori del miracolo economico tedesco. Eucken ha dato vita al concetto di economia sociale di mercato, che comprende aspetti molto liberali che – appunto – sostengono l’approccio del libero mercato e aspetti altamente sociali che, per esempio, tengono conto della questione della corretta distribuzione della ricchezza. Tuttavia, la caratteristica maggiore del suo lavoro è l’esigere limiti chiari e regole di mercato stabilite con molto rigore. In altre parole, sostiene la creazione di una struttura di regole condivise all’interno della quale il mercato può evolvere liberamente. Complessivamente questo concetto dà vita a un particolare modello di capitalismo ‘continentale’ che è chiaramente distinto e forse anche opposto al modello di capitalismo anglosassone del laissez-faire. Questo approccio caratterizzava, in una certa misura, anche l’economia italiana e dell’Europa occidentale del Dopoguerra. Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 in Austria questo concetto è stato ampliato e si è trasformato nell’eco-economia sociale di mercato. Anche se inizialmente si occupava di questioni ambientali generiche, piuttosto che di risorse specifiche e di cambiamenti climatici, in qualche modo rappresentava un ampliamento del pensiero conservatore, che permise di far rientrare problematiche sociali e ambientali all’interno del pensiero economico dominante. Di conseguenza il mantra della crescita economica oggi comprende la definizione dei limiti e delle condizioni più appropriate per raggiungerlo. Negli ultimi 20 anni però questi concetti sono stati spazzati via dall’approccio neoliberista, per essere ripresi solamente nel 2008 a causa dell’attuale crisi economica. Perciò, oggi, l’analisi dei limiti e delle regole al contorno del mercato ha riconquistato nuova legittimità.

È interessante notare che questa nuova legittimazione non proviene dalle università, né dai più importanti think tank economici, ampliamente colonizzati dal pensiero neoliberista, ma dagli studenti più giovani che chiedono ‘una pluralità di punti di vista in economia’. Oggi gli studenti chiedono l’opportunità di accedere a teorie e analisi economiche davvero diverse, e di poterle mettere a confronto attraverso un approccio pragmatico e non ideologico. Recentemente il movimento per la decrescita, nato in Francia e Italia e diffusosi in tutta Europa, ha alimentato il dibattito con nuove idee e priorità. Ciò ha portato il parlamento tedesco a dare vita a un processo di inchiesta su ‘Crescita e benessere’, che ha alimentato un confronto tra parlamentari ed esperti durato due anni. D’altra parte, perseguendo il concetto di economia della transizione, gli olandesi hanno inaugurato un altro filone di analisi complementare di grande valore. Quest’approccio è particolarmente interessante perché profondamente pragmatico e strettamente legato alle attività militanti di chi vive veramente secondo i principi che ne derivano, così consentendo un utile scambio tra teoria e pratica.”

 

Quali saranno le evoluzioni per i prossimi anni?

“Non credo che le cose evolveranno molto, almeno a livello di policy. Tuttavia le grandi istituzioni, le burocrazie (come la Ue), continueranno a fare il loro lavoro e ci saranno alcuni progressi. Nonostante ciò, è più probabile che il cambiamento e le innovazioni partiranno dal basso. Aziende, in particolare, piccole e medie imprese nelle quali vi è un cambio generazionale, cittadini e iniziative locali si muoveranno in modo più efficace e – credo – molto più rapidamente delle istituzioni di governo. Insisto sulle nuove generazioni perché, anche se è probabile che saranno meno radicali, hanno familiarità con le questioni ambientali. In questo senso, posso dire di essere ottimista. Anche il probabile perdurare della crisi finirà con l’avere un effetto positivo: infatti – sul più lungo termine – il valore dei materiali continuerà a crescere e ciò incentiverà la dematerializzazione.”

 

 

Sustainable Europe Research Institute (Seri), seri.at/en/