La nostra impronta ecologica supera la capacità di assorbimento della Terra. E uno degli elementi meno noti dell’equazione planetaria è l’impatto dell’estrazione di molte materie prime. 

“La materia grezza, dall’alluminio alle terre rare, è strategicamente importante anche se non direttamente correlata con la stabilità del pianeta: se svuotassimo tutte le riserve di questi minerali non ci sarebbero grandi implicazioni sulla stabilità del pianeta. Con la chiara eccezione dei combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone, ndC) i quali sono direttamente correlati al cambiamento climatico e alla stabilità della nostra Terra.

Dal punto di vista scientifico tuttavia è chiaro: ogni report che noi analizziamo mostra un crescente sfruttamento delle risorse e una corsa agli accaparramenti dovuta non solo alla scarsità delle riserve di alcuni minerali ma anche alla crescente domanda mondiale di materiali grezzi. Molti di questi minerali possono essere riciclati o riutilizzati. Secondo la European Resource Efficiency Platform, piattaforma per la promozione dell’uso sostenibile delle materie prime, esiste sufficiente spazio di manovra per ripensare il re-impiego di queste materie nel sistema produttivo. È quindi fondamentale fare dell’uso efficiente delle materie prime una priorità nelle politiche di sviluppo.”

 

Se nell’equazione però introduciamo l’esternalità negativa degli impatti del settore estrattivo – escludendo ancora per il momento i combustibili fossili – vediamo come lo sfruttamento di materie prime ha un impatto diretto sui limiti del pianeta, in termini di inquinamento delle acque, di disboscamento, di emissioni.

“Indubbiamente la deforestazione, che è un problema fondamentale per l’assorbimento delle emissioni di gas climalteranti, è fortemente alimentata dalla continua ricerca di nuovi filoni di minerali, zinco, rame. Non dobbiamo dimenticare l’impatto del settore estrattivo in Amazzonia, nel Congo Basin e in Canada, se pensiamo alle sabbie bituminose: quello estrattivo rimane un settore che può avere impatti rilevanti, con una serie di effetti domino. Vorrei però dire che in alcune economie sviluppate ci sono sufficienti regolamentazioni per monitorare gli impatti del settore minerario.”

 

Nel suo libro analizza molto in dettaglio il peso di un altro settore primario dell’economia, l’agricoltura, che insieme alle foreste contribuisce alla produzione di materia prima per la nutrizione ma anche, e in maniera crescente, per la produzione industriale: dall’energia (biocombustibili) ai materiali (bioplastiche, legname, materiali derivati da residuo). Viene da chiedersi se stiamo spostando eccessivamente l’uso di terreni agricoli in direzione di finalità non alimentari, con il risultato da un lato di avere una crescente espansione dei terreni coltivati a scapito di foreste, praterie ecc. e dall’altro un potenziale rischio – come abbiamo visto con la crisi dei prezzi del 2008 – per la sicurezza alimentare nei paesi meno sviluppati.

“I nostri sistemi di analisi mostrano che a scala globale siamo arrivati al punto di non ritorno dell’espansione dei terreni agricoli. Non è possibile aumentare ulteriormente la superficie coltivata. Queste conclusioni, drammatiche, sono supportate da numerosi studi, incluse le ricerche di Jonathan Foley (direttore dell’Institute on the Environment, IonE, della University of Minnesota, ndC), dell’Unep, e via dicendo.

Rimangono pochissimi terreni fertili vergini che possono essere convertiti ad aree agricole. Questo mostra chiaramente che una rapida espansione di biocarburanti non può avere luogo. Non possiamo usare mais per etanolo sottraendolo al consumo alimentare, questa è una questione superata. Tuttavia i biomateriali possono diventare una risorsa sostenibile e di grande importanza, anche per sostituire molti prodotti derivati dai combustibili fossili, come le plastiche. E l’Italia in questo senso è uno dei paesi che sta mostrando leadership, impiegando piante non food per realizzare bioplastiche. Non c’è chiaramente una situazione bianco/nero, esistono molte nuance. 

Oggi dobbiamo porci domande specifiche: stiamo rischiando di non produrre cibo per aree del pianeta meno sviluppate? Consideriamo seriamente la minaccia dagli effetti del cambiamento climatico che nei prossimi anni tra siccità e fenomeni meteo estremi porterà a sempre maggiori shock sulla produzione agricola? Con questo in mente dobbiamo considerare attentamente come decidiamo di adattare l’agricoltura ai biomateriali.”

 

Rimane la questione dei carburanti fossili, che sono la principale fonte di energia e anche la più impattante delle materie prime, sia in termini ambientali sia di salute. Quale strategia andrebbe adottata per un phase-out di petrolio e carbone?

“Ogni analista oggi afferma che possiamo fare gradualmente a meno dei combustibili fossili, grazie a solare, eolico, idro e geotermico. Il solare oggi ha costi sempre più competitivi. Anche il nucleare può avere un ruolo nella transizione, non è una soluzione ma può avere un ruolo in questa transizione. Infine, per calmierare gli effetti delle emissioni dobbiamo considerare lo stoccaggio della CO2 e l’incremento della biomassa come carbon-sink. Dal punto di vista delle tecnologie si deve investire nella ricerca e sviluppo di tecnologie efficienti per lo stoccaggio dell’energia, nelle fuel cells, nei veicoli elettrici.

Il 30% delle riduzioni dei consumi pro capite inoltre deve venire dall’efficienza energetica. Non c’è dubbio che questa sarà una parte rilevante della strategia generale per affidare al passato i combustibili fossili. È una strategia che include molteplici soluzioni e tecnologie, che devono essere messe al lavoro in maniera integrata. In Europa serve sempre più un grande schema energetico che sappia governare questa trasformazione a livello comunitario controllando i flussi di energia. Oggi questa collaborazione a livello di Unione non la vediamo ancora, speriamo di vederla un domani.”

 

La variabile mancante per preservare i limiti del pianeta è proprio la politica. Manca una visione internazionale anche solo per quanto concerne la sfida del cambiamento climatico. Nel suo libro Natura in bancarotta porta avanti una critica articolata sugli ostacoli che impediscono il raggiungimento di un accordo globale per fermare le emissioni climalteranti: dalle lobby ai negazionisti.

“Ci troviamo in una situazione desolante. Abbiamo 5-10 anni al massimo per fermare la curva crescente delle emissioni di gas climalteranti. Questo non può accadere senza un accordo internazionale di cui abbiamo urgente bisogno. È chiaro che a Parigi (nel dicembre 2015 quando 193 nazioni cercheranno di siglare un testo sul clima, dopo il fallimento di Copenaghen nel 2009, ndC) non avremo un accordo legalmente vincolante, ma nel 2014 abbiamo visto grandi attori come Usa e Cina mostrare di essere seriamente intenzionati a ridurre le proprie emissioni. C’è speranza che questa volta si possa raggiungere quantomeno un accordo. Attendiamo.”

 

Foto © M. Axelsson/Azote