La faccia della Terra è da sempre in lento ma continuo mutamento: scavata da corsi d’acqua e ghiacciai, erosa da venti, sconvolta dalla formazione delle montagne e dalle eruzioni vulcaniche, soggetta a cambiamenti della copertura vegetale e del clima. Dal 20° secolo però si è affermata una nuova forza della natura: l’azione della specie umana. Per la quantità dei materiali che movimenta, la specie umana è infatti ormai in grado di competere con le più importanti cause di cambiamento geomorfologico. Gli esseri umani spostano intenzionalmente ogni anno tra i 50 e i 60 miliardi di tonnellate di roccia, pietre, sabbia e ghiaia (compresi i minerali di scarto), di cui un terzo circa per il prelievo di minerali per l’industria metallifera e due terzi per altre industrie e per le costruzioni. Si tratta di una quantità pari al doppio di quella eruttata dai vulcani oceanici, al triplo di quella portata al mare da tutti i fiumi del mondo, al quadruplo di quella che sposta la formazione di montagne, a dodici volte quella trascinata dai ghiacciai e a sessanta volte quella dovuta all’erosione eolica. 

Persino maggiore è lo spostamento di terra involontario ma comunque dovuto all’azione umana, e in particolare all’erosione indotta dalle pratiche agricole: 80 miliardi di tonnellate. 

La nostra sete di combustibili fossili comporta poi il prelievo annuo di circa 45 miliardi di tonnellate di materia dormiente in natura, di cui 14 miliardi sono i combustibili effettivamente utilizzati. L’appropriazione umana di biomasse è arrivata invece a 27 miliardi di tonnellate di cui 5,5 miliardi non utilizzati. 

Nei processi di produzione e consumo questi materiali vengono raffinati, combinati tra loro, mescolati con l’acqua e gli elementi atmosferici. Il consumo di acqua a livello globale è stato quantificato: siamo ad almeno 4.000 km cubici. Quanto agli input dall’atmosfera, si può stimare in almeno una trentina di miliardi di tonnellate la quantità di ossigeno, azoto e altri elementi prelevati.

Queste enormi quantità definiscono il perimetro materiale del nostro rapporto con la natura. La loro misura – pur se in molti casi necessariamente approssimativa – ci aiuta a intuire quanto sia imponente la quantità di materia che viene messa in circolazione ogni anno dall’attività della specie umana per produrre cibo, per alimentare l’industria, per ridisegnare il territorio secondo le proprie esigenze. 

L’altra faccia della medaglia del prelievo di queste ingenti quantità di materiali è il loro “consumo”, cioè la loro progressiva trasformazione in residui da restituire all’ambiente o accumulare in discariche. A seconda dei modi d’impiego e di gestione dei materiali, un dato prelievo può trasformarsi in residuo immediatamente o dopo millenni, ma inevitabilmente prima o poi ogni risorsa utilizzata si trasformerà in residuo, con quel che ne consegue per gli equilibri naturali. Sette su nove dei planetary boundaries identificati da Rockström et al. sono facilmente collegabili all’uso di materiali. 

 

 

Un’immensa fame di materiali, ma cosa ne facciamo?

È praticamente impossibile seguire tutti gli innumerevoli rivoli in cui il flusso dei materiali prelevati si scompone, si ricompone e – sempre più – si riavvolge su se stesso, per sfociare chissà quando, dove e in che forma nell’ormai sterminato mare dei residui di origine antropica accumulati nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera. Altrettanto difficile è reperire dati globali affidabili, non solo sui flussi di minore entità o supposti di minore importanza, ma anche su flussi ingenti e qualitativamente importanti come quelli dei rifiuti. Tuttavia avere un’idea anche di questi numeri è estremamente importante. È importante per l’economia e per l’ambiente, perché in un caso e nell’altro ci aiutano a capire sia la dimensione dei problemi con i quali dobbiamo fare i conti sia quella delle potenziali risorse a disposizione per cominciare a dare risposta a questi problemi chiudendo i cicli. 

 

Dunque che fine fanno i materiali che estraiamo? Le “filiere” più brevi sono quelle dei materiali inutilizzati, che sono estratti solo in funzione dei materiali utili e diventano immediatamente rifiuti:

  • 5,5 miliardi di tonnellate di biomasse, di cui 0,7 in Europa (80 milioni di tonnellate in Italia): in parte vengono lasciate sul suolo, a rigenerarne la fertilità, in parte bruciate, in parte raccolte e buttate via. Suscitano sempre più l’interesse dell’industria energetica e dalla crescente industria dei prodotti biobased
  • 42 miliardi di tonnellate di minerali (cappellacci, trivellazioni, scavi, scarti di prima selezione...), di cui il 10% estratti in Europa (60 milioni di tonnellate in Italia), giudicati inidonei per l’uso, o non convenienti, per esempio per lavori di costruzione.

Dei 14 miliardi di tonnellate di minerali energetici utili estratti (0,8 miliardi in Europa), la gran parte viene raffinata e poi bruciata, generando ogni anno 32 miliardi di tonnellate di CO2 e 140 milioni di tonnellate di metano, cui vanno aggiunti i prodotti della combustione delle impurità residue. Fino al 15% del petrolio diventa bitume o zolfo. Una parte degli idrocarburi fossili è usata per trarne i 265 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno nel mondo. Con il resto si fanno solventi e prodotti chimici d’ogni sorta.

La gran parte dei quasi 22 miliardi di tonnellate di biomasse utili prodotte (2,7 miliardi in Europa e circa 110 milioni in Italia) è costituita da cibo per gli uomini (8 miliardi di tonnellate) o per gli animali (11 miliardi di tonnellate). Dalle foreste vengono prelevati 2,5 miliardi di tonnellate di legname e altri prodotti. La gran parte delle biomasse va a finire – essendo digerita o bruciata – in atmosfera. Parte però va nelle acque reflue, e nei rifiuti. Lo spreco alimentare è stimato (Fao) in almeno un terzo delle biomasse adatte all’alimentazione umana. Dalle acque reflue i residui organici vengono spesso recuperati come fanghi di depurazione, che a loro volta vanno in discarica, o destinati all’uso agricolo, o all’incenerimento. 

I minerali metalliferi utili estratti ammontano a quasi 8 miliardi di tonnellate. Di questi, solo 170 milioni di tonnellate sono estratti nella Ue a 27, area in cui viene importato mezzo miliardo di tonnellate di concentrati e di prodotti in metallo e da cui escono verso il resto del mondo 420 milioni di tonnellate di prodotti frutto di queste lavorazioni. Il saldo – 250 milioni di tonnellate – è trasformato in rifiuti (molto spesso pericolosi) e beni durevoli sul territorio europeo.  

 

 

L’atmosfera, pattumiera globale

Diamo adesso uno sguardo ai flussi di materiali globali secondo una prospettiva di “destino finale”. Salta subito agli occhi come la più sfruttata pattumiera globale sia l’atmosfera. Considerando solo il carbonio contenuto nelle emissioni da combustione di fossili e nella produzione di cemento, nel 2013 il flusso annuo ha raggiunto quasi 10 miliardi di tonnellate, il che vuol dire 36 miliardi di tonnellate di CO2. Alle quali vanno aggiunti: un miliardo e mezzo di tonnellate di altri gas, a effetto serra e non; sostanze volatili e particolato; 3,5 miliardi di tonnellate dalla combustione di biomasse (buona parte del legname raccolto, parte dei residui agricoli); una quantità dello stesso ordine di grandezza dalla respirazione di uomini e animali (la digestione trasforma in CO2 e metano le biomasse alimentari ingerite). Un recentissimo studio del National Center for Atmospheric Research del Colorado, ha stimato che lo smaltimento di quasi un miliardo di tonnellate di rifiuti avviene mediante combustione nei siti di produzione (620 milioni di tonnellate) o di stoccaggio (350 milioni di tonnellate). Il prodotto di tale combustione va a contribuire alla saturazione della grande pattumiera aerea.

La produzione di rifiuti solidi è in buona parte un fenomeno urbano. Secondo uno studio della Banca Mondiale del 2012, i rifiuti solidi urbani generati annualmente nelle città di tutto il mondo ammonterebbero a 1,3 miliardi di tonnellate, mentre la International Solid Waste Association, includendo nelle stime anche la popolazione non urbana, parla di 1,84 miliardi di tonnellate. Quella rappresentata nella figura a pagina seguente è la composizione dei rifiuti compresi nello studio della Banca Mondiale sopra citato. 

Queste cifre non comprendono buona parte dei rifiuti industriali, e in particolare gli scarti dell’attività mineraria, ed escludono la parte non utilizzata delle biomasse coltivate o raccolte. Già con riferimento al 2001, l’Ocse (63% del Pil mondiale) stimava in 4 miliardi di tonnellate la produzione complessiva di rifiuti dei suoi stati membri. L’Unep, in un rapporto del 2011, parla di 11,2 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi raccolti a livello globale.

 

Secondo alcune stime, il 20% dei rifiuti solidi sarebbe generato dal settore tessile. I rifiuti elettronici invece sono “appena” 50 milioni di tonnellate, ma presentano specifici profili di pericolosità, oltre che opportunità per il recupero. 

Infine, tutto ciò che non viene restituito alla natura rimane immobilizzato all’interno del sistema antropico sotto forma di infrastrutture, edifici, macchinari, beni durevoli. In questi ultimi si trovano: una parte del miliardo di tonnellate di legname da lavoro che annualmente viene estratto; derivati del petrolio come bitume e plastica; la gran parte dei 34 miliardi di tonnellate di minerali da costruzione o per usi industriali estratti annualmente; il risultato della lavorazione degli 8 miliardi di tonnellate di minerali metalliferi.

Le quantificazioni globali qui riportate sono ovviamente soggette a incertezze, margini di errore spesso ampi (per lo più incompletezze) e all’effetto delle divergenze tra le convenzioni adottate tra i diversi autori e le diverse fonti. Tuttavia, il tipo di analisi qui abbozzato (con tutti i limiti del riferimento al livello globale) è di fondamentale importanza per comprendere quale sia il contributo al superamento dei problemi che hanno a che fare con l’uso di risorse materiali che può venire dal concetto di rinnovabilità della materia. La gestione razionale dell’immensa quantità di prodotti già esistenti e di materia stoccata in infrastrutture, edifici e beni durevoli non più utili sarà sicuramente importante per ridurre l’estrazione di metalli, lo scavo di inerti, il taglio di foreste, la coltivazione di terreni sfruttati, la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi, le produzioni inquinanti.  

Fino a che punto? Per quali materiali e filiere di utilizzo? A quale scala geografica? Impossibile dirlo in generale. Analisi più approfondite e puntuali saranno, speriamo, momenti utili nella ricerca delle risposte, che certamente non possono essere date solo sulla base delle quantità in gioco, ma che con esse devono fare i conti.

 

Illustrazione di © Bazzier / Shuttersock

 


 

Bibliografia