Dunque una crescita complessiva consistente alimentata da molti settori. Nei cantieri edili nel 2010 sono stati riciclati e impiegati 51 milioni di tonnellate di rifiuti inerti e 22 milioni di rottami ferrosi (pari al 77% dell’intera produzione siderurgica nazionale). E l’intera metallurgia italiana dipende dai rottami metallici. Nel 2011 l’Italia è diventato il primo paese Ue per quantità di alluminio prodotto da materie prime seconde, riciclandone ben 927.000 tonnellate. Anche l’industria del piombo dipende dai rottami (il 92% derivante dalle batterie esauste): nel 2010 ne sono state recuperate 165.000 tonnellate. Dopo la metallurgia, l’industria cartaria è quella che dipende di più dagli scarti: nello stesso anno, più di 5 milioni di tonnellate di carta da macero sono state reimmesse nel ciclo produttivo, costituendo quasi il 59% dell’intera produzione nazionale.

L’Italia è anche il secondo paese Ue per quantità di rifiuti plastici recuperati, circa 1,7 milioni di tonnellate grazie a 200 aziende riciclatrici di polimeri che trattano più di 400.000 tonnellate di polietilene a bassa densità e 300.000 a bassa e media densità, oltre 350.000 di polipropilene, 200.000 di Pet, 100.000 di Pvc. Anche l’industria del vetro dipende dal recupero: su 5,2 milioni di tonnellate prodotte nel 2011, più di 2 milioni provenivano dal riciclo. Tuttavia continuiamo a essere un paese importatore netto di materie seconde: a fronte di un import di 7,1 milioni di tonnellate, ne abbiamo esportato 2,8 milioni: un saldo negativo di 4,3 milioni di tonnellate di materie, per un valore di 2,2 miliardi di euro. Dunque nonostante l’alto livello di recupero c’è ancora margine per una crescita ulteriore.

Un trend confermato dai dati globali. Negli ultimi dieci anni il commercio internazionale è praticamente raddoppiato per rottami ferrosi e scarti di alluminio, carta, plastica e legno. Per i rifiuti ferrosi è passato dai 61 milioni di tonnellate del 2000 ai quasi 108 del 2011 (un incremento del 75%), mentre per la plastica l’impennata è stata del 260% (dai 4,5 milioni di tonnellate del 2000 ai 14,84 milioni del 2011). In termini di valore, il commercio complessivo di queste cinque materie vale più o meno 90 miliardi di dollari all’anno.

Secondo l’Agenzia delle dogane, solo nel 2013 l’Ue ha esportato verso paesi terzi quasi 17 milioni di tonnellate di cascami e avanzi di metalli, quasi 10 milioni di carta e cartone, quasi 3 milioni di materie plastiche e 329.000 tonnellate di gomma. Rimanendo nei confini Ue, la Germania è la regina dell’export di materiali plastici, circa un milione di tonnellate (33% sul totale commercio Ue), mentre il Regno Unito ha il record nell’export di scarti metallici, più di 4 milioni e 700.000 tonnellate (28% sul totale Ue), e di carta e cartone da riciclo, circa 3 milioni e 700.000 (37%). La Francia esporta più di tutti avanzi e cascami di gomma, quasi 82.000 tonnellate all’anno (25%). 

Proprio perché si tratta di risorse strategiche per l’economia manifatturiera europea, il Comitato economico e sociale europeo dell’Ue nel 2011 ha emesso un parere nel quale ipotizza addirittura “dazi alle esportazioni per proteggere l’Ue dal rischio di perdere materiali di grande utilità”. Sostenendo, in particolare, che “l’Ue dovrebbe forse negoziare soluzioni di emergenza in sede di Omc, che stabiliscano condizioni chiare e trasparenti per le limitazioni o i dazi sui rifiuti di importanza strategica”.

 

Waste grabbing

I rifiuti di oggi sono le nuove miniere urbane da saccheggiare. Per ciascuno di questi materiali esiste una Borsa dove si quotano i prezzi. Nel caso dei materiali riciclati a base di polietilene, il Pet azzurro in scaglie vale anche 1.000 euro a tonnellata. L’allumino riciclato dalle lattine e gli scarti in rame 1.500 euro, gli pneumatici fuori uso 500, i rifiuti tessili 280, i rottami ferrosi 168 (se acciaio 400), gli olii vegetali 250, i Raee 300, i rifiuti medici 470 euro e così via. Altro che seppellirli in un uliveto. 

Il “trafficante nuovo”, quindi, tratta materiali dal valore economico e strategico enorme. Soprattutto in Italia, che vantando una lunga tradizione di riciclo è tra i paesi maggiormente colpiti dall’emorragia illegale di questi materiali verso l’estero. Nel 2010, ricorda Duccio Bianchi, a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti riciclabili (la voce recyclables include metalli, carta, plastica, vetro, legno, tessili, gomma) su scala europea, in Italia ne sono state recuperate 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania ne sono state recuperate 22,4 milioni di tonnellate). In particolare, l’Italia è il leader europeo per il riciclo di metalli ferrosi, plastica, tessili. Dopo Stati Uniti e Giappone, siamo il terzo paese al mondo per il riciclo dell’alluminio. 

Bloccare i traffici illeciti di rifiuti vuol dire dunque difendere un pezzo di green economy. E, senza smettere di dare la caccia ai vecchi trafficanti su scala locale, è con questa nuova genia che occorre fare i conti. Veri uomini d’affari, broker sul mercato internazionale delle materie prime, attenti alle quotazioni in Borsa, al valore delle cose e alla fame di materie prime dei singoli paesi. Trafficanti che sono a capo di vere organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso. Reti criminali informali, flessibili, aterritoriali e situazionali, che proprio per questo si distinguono dai gruppi criminali veri e propri, non avendo necessariamente forme strutturate di coordinamento, patrimoni valoriali da condividere, confini stabili e gerarchici entro i quali muoversi. Sfuggenti ombre cinesi anche per gli investigatori più esperti. 

Queste reti criminali sanno bene che quei materiali sono fondamentali soprattutto nei paesi con una consolidata industria manifatturiera e scarse risorse cui attingere e, non a caso, con avanzati sistemi di riciclo, come l’Italia o la Germania. O con tassi di crescita a due cifre, come sta accadendo ai Bric, Brasile, Russia, India e Cina. Scatta così il waste grabbing per soddisfare la fame di nuove materie prime da parte di vecchi e nuovi soggetti economici, una domanda ulteriormente incentivata dalle nuove politiche sostenibili di incentivo alla raccolta e al riciclo, in particolare in ambito Unione europea.

La domanda che si fanno i riciclatori in difficoltà per la carenza di approvvigionamento è infatti: che fine hanno fatto questi materiali? Una risposta la sta dando l’Agenzia delle dogane con i sequestri alle frontiere. Nei container bloccati nel 2013 nei porti italiani, tra le 4.359 tonnellate di rifiuti controllate quasi il 69% era costituito da metalli, più del 14% da plastiche, poi ci sono gomme e pneumatici, tessili, veicoli rottamati, Raee. Desert waste è il nome di una delle più recenti indagini su questo fronte, e risale allo scorso mese di maggio: gli inquirenti hanno sequestrato quattro semirimorchi destinati in Iran e Libia carichi di rifiuti ferrosi, pezzi di camion rottamati, batterie esauste, pneumatici e Raee, per un peso complessivo di circa 70 tonnellate. 

Che i rifiuti abbiano già conquistato il mercato delle materie prime, seguendo la scia della delocalizzazione produttiva e della globalizzazione dei commerci sono ancora i dati Eurostat a ribadirlo. Dal 2001 al 2009 le esportazioni legali di rifiuti dai paesi Ue verso paesi non Ue sono cresciute del 131%. La crescita delle esportazioni di plastica tra i paesi Ue, dal 1999 al 2011, è aumentata di ben cinque volte: da circa un milione di tonnellate a più di cinque. Lo stesso vale per gli scarti di metalli, più che triplicati nello stesso arco di tempo. Contemporaneamente sono cresciute le rotte illegali, come dimostrano i dati dei sequestri effettuati negli ultimi due anni dall’Agenzia delle dogane nei nostri porti: quasi 20.000 tonnellate di scarti (per l’esattezza 18.800) destinati illegalmente all’estero, soprattutto plastica, carta e cartone, rottami ferrosi, pneumatici fuori uso (Pfu) e rifiuti elettrici ed elettronici (Raee). Con un incremento di circa il 35% rispetto al biennio 2008-2009, quando i sequestri doganali erano stati poco più di 12.000 tonnellate. Solo nel 2012, il 59% delle esportazioni di Pfu, il 16,5% di rottami metallici e più del 14% di scarti plastici si sono rivelati fuori legge, quindi sequestrati, ai controlli delle dogane italiane.

 

Raee e Terre rare

Tra i rifiuti più gettonati dai trafficanti ci sono i Raee, uno scrigno di materiali e terre rare (Ree – Rare Earth Elements), 17 elementi chimici della tavola periodica usati nei prodotti hi-tech (Pc, monitor, telefonini ecc.). Per capirne il valore, basta analizzare la curva dei prezzi delle Ree. Secondo l’Enea, questi prezzi hanno visto una crescita stabile e continua dal 2003 a oggi (nonostante una battuta d’arresto nel 2013) seguendo la forte domanda di alta tecnologia. Oggi la richiesta di neodimio, praseodimio e disprosio, per la produzione di magneti, continua a spingere il mercato. In futuro il consumo di europio, terbio e ittrio nella produzione di fosfori potrà ulteriormente far salire il valore delle loro quotazioni.

 

La produzione mineraria mondiale di queste terre rare per il 2012 – con una domanda che a breve potrà superare l’offerta – è stata stimata in 110.000 tonnellate dall’Usgs (U.S. Geological Survey). La Cina è il produttore dominante, rappresentando il 97% della domanda e il 55% delle riserve. Un monopolio di fatto. 

In Italia non esistono ancora impianti in grado di estrarre le terre rare dai Raee. Perdiamo così una incredibile risorsa che i trafficanti e i canali informali sono – manco a dirlo – prontissimi a intercettare: i mercanti di rifiuti solo in Italia governano circa 900.000 tonnellate all’anno di Raee. È contro le loro ruberie che si è scagliato recentemente uno dei principali consorzi italiani del settore, Ecodom sostenendo che più del 65% di questi scarti finisce nel circuito illegale, diretto soprattutto verso la Cina e alcuni paesi africani, con un andamento dei traffici che rispecchia, secondo l’analisi del direttore generale Giorgio Arienti, le quotazioni delle materie prime seconde: quando crescono anche i traffici illeciti aumentano, e viceversa.

Il discorso non cambia in Europa, dove non si producono Ree e il riciclo è limitato a una quota simbolica (1%), mentre si producono apparecchiature elettriche ed elettroniche che poi diventano Raee. Non sorprende allora se l’Ue negli ultimi cinque anni sia stato un importatore netto di composti di Ree, metalli e leghe, per circa 12.000 tonnellate anno.

Bloccare i flussi illegali di questi scarti diventa quindi sempre più urgente per evitare danni incalcolabili all’economia legale e all’ambiente. Con una risposta che non può appiattirsi alla sola dimensione repressiva, che serve a poco senza l’innovazione dei processi e dei prodotti: la migliore lotta alle ecomafie e alla criminalità ambientale è il passaggio verso modelli economici completamente diversi, che abbandonino la classica impostazione lineare a favore di quella circolare, partecipata e sostenibile. Come ci insegnano anni di indagini sulle rotte dei trafficanti di monnezza, il miglior argine contro il loro strapotere è cambiare il mercato, sottraendo loro campo d’azione, ossigeno, alibi. Mettendoli fuori dalla storia.