La cultura dell’usato 

La cultura dell’usato è condivisione di ciò che abbiamo ora con chi lo ha avuto prima di noi o potrà averlo dopo di noi: nel tempo e nello spazio. E questo, sia che il passaggio di mano avvenga attraverso una o più compravendite; sia che avvenga attraverso le più diverse forme di dono o per vie ereditarie; sia che non avvenga affatto, perché siamo noi che continuiamo a usare la cosa già usata, dopo che è stata riparata. Sia infine che avvenga attraverso la condivisione vera e propria, che non è il passaggio da una mano all’altra, ma l’alternanza di molte mani sullo stesso bene. Che è forse la forma più spinta di riuso.

La dicotomia elementare tra nuovo e usato ci dice che, a ragion di logica, l’usato è più ricco di senso e più “nobile” del nuovo proprio perché vecchio o antico; e che il nuovo dovrebbe intervenire solo là dove l’usato non è più in grado di sopperire ai bisogni dei viventi: o per la sua quantità insufficiente; o per una naturale consunzione, che non fa altro che ridurne la quantità effettivamente disponibile; o perché il nuovo incorpora conoscenze che prima, al tempo in cui era nato l’oggetto usato, ancora non erano disponibili.

A complicare i termini di questa dicotomia intervengono però tre meccanismi che sono la molla degli odierni mercati e, attraverso di essi, sono anche la molla dello “sviluppo” economico, o di ciò che comunque si intende con questo termine: questi meccanismi sono l’iannovazione tecnologica, la pubblicità e la moda.

Si tratta di meccanismi che, nella forma e con la rilevanza che hanno assunto nel mondo contemporaneo, hanno poco più di un secolo di storia e in molti casi anche meno. Perché un tempo il ricorso a cose usate da altri, o la riparazione e il riuso, fino alla consunzione, di oggetti che noi stessi avevamo già usato erano nell’ordine delle cose.

 

L’innovazione tecnica

L’innovazione tecnica può creare nuove tipologie di prodotti, che prima non c’erano; e con questo creare nuovi e, per molti versi sacrosanti, bisogni che i prodotti vecchi e usati non sono in grado di soddisfare. Medicina, telecomunicazioni, mobilità e attività domestiche sono stati i campi privilegiati di questi processi nella vita quotidiana di oggi. 

Tutti gli ambiti della vita umana, compresi i più intimi, sono stati comunque investiti dalla diffusione del progresso tecnico, rendendo progressivamente inutilizzabili attrezzi, manufatti e modalità d’uso “superati” e riempiendo la nostra vita e le nostre abitazioni di prodotti e marchingegni sempre più complessi.

 

La pubblicità

Ma a imprimere velocità e frenesia a questo processo, a trascinare sempre più l’intero sistema produttivo verso i mercati di sostituzione, quelli che né colmano vecchi bisogni insoddisfatti, né soddisfano bisogni nuovi, ma creano il bisogno di sbarazzarsi del vecchio (producendo montagne di rifiuti) per accedere al nuovo (dilapidando sempre nuove risorse), è stata la pubblicità. La pubblicità è la vera grande innovazione che ha cambiato il volto dell’economia del ventesimo secolo. 

Oggi la pubblicità, grazie soprattutto ai progressi delle telecomunicazioni, raggiunge ogni angolo del mondo; accompagna in modo indissolubile ogni prodotto; controlla economicamente, attraverso i mass media, tutta l’informazione; si deposita in modo irreversibile nella coscienza e nell’inconscio di ciascuno di noi, plasmandone personalità, desideri e orientamenti. 

Un effetto della pubblicità, tanto fondamentale quanto trascurato, è quello di creare una barriera sempre più alta, e di rinnovarla ogni giorno, tra il nuovo e l’usato: un usato che diventa tale, cioè semplicemente “vecchio”, anche senza essere mai passato di mano. Lo fa accompagnando il nuovo passo per passo, a ogni suo “rinnovamento”; e sospingendo l’usato ogni volta ai margini, per fare posto al nuovo; anche quando esso è ben lungi dalla consunzione o dall’esaurimento della sua funzione. Lo fa imprimendo sull’utilizzo dell’usato le stimmate della riprovazione sociale – quella di non essere al passo con i tempi – per attribuire dignità di appartenenza al mondo immaginario che ha costruito soltanto a chi si impegna in una rincorsa sempre più affannosa del nuovo.

 

La moda

La vittima designata della moda è l’usato; che è “vecchio”, fuori moda, oggetto di irrisione e fonte di esclusione anche quando è sostanzialmente “nuovo”, cioè non consunto, poco utilizzato, perfettamente funzionale, ancora così come è uscito dalla fabbrica o è stato esposto nella vetrina di un negozio solo un anno prima.

 

L’ecodesign

L’inversione del paradigma che contrappone il nuovo all’usato non dovrà aprire una strada del tutto differente; una strada che rappresenta uno sviluppo e un’estensione di quella definita già oggi dai principi dell’ecodesign nella produzione degli oggetti nuovi. 

Questi principi prescrivono che i prodotti di nuova fabbricazione vengano costruiti in modo da facilitare al massimo non solo l’utilizzo di materiali riciclati nella loro produzione e il risparmio di risorse e di energia durante la loro fabbricazione, il loro utilizzo e la loro manutenzione; non solo le operazioni di raccolta e di disassemblaggio dei prodotti dismessi e il recupero e il riciclaggio dei loro materiali e dei loro componenti; ma soprattutto le operazioni di riparazione.

Se riuscirà ad affermarsi una nuova cultura dell’usato e della sua valorizzazione questi principi dovranno allora imporsi in misura anche più radicale. I prodotti dovranno essere concepiti e fabbricati sempre di più per durare; ma anche e soprattutto per potersi modificare e adattare a esigenze e orientamenti estetici e funzionali differenti. E questo, sia che permangano nella disponibilità della stessa persona che li ha acquisiti, sia che passino, come prodotti usati, da una mano all’altra per eredità, per donazione o per compravendita.

Ma perché un programma del genere abbia successo occorre non solo che l’economia dell’usato trovi una vera legittimazione etica e culturale; ma anche che si sviluppi l’infrastruttura materiale e istituzionale necessaria a sostenerla: in tutte le modalità praticabili di recupero e di valorizzazione dei prodotti dismessi: dono, eredità, baratto, compravendita, raccolta e redistribuzioni a scopo benefico, collezionismo. Ma soprattutto riparazione.

 

Manutenzione e riparazione

Perché la cultura del riuso è inscindibile dalla cultura della manutenzione e della riparazione; al punto che le due cose possono essere trattate come un’unica modalità di rapportarci alle cose del mondo. Sono entrambe inscindibili da una conoscenza delle loro caratteristiche e del loro funzionamento, da un’attenzione per le loro condizioni e per il modo in cui vengono usate e trattate e, in molti casi, da un vero e proprio amore per gli oggetti.

La cultura della manutenzione e le competenze tecniche e manuali per sostenerla impregnano e consentono il ricorso all’usato in tutti quei casi che rappresentano la forma più tradizionale di prolungamento o duplicazione della vita di un oggetto: cioè quando per garantirne la funzione occorre ripararlo. Naturalmente da sola non basta: che un oggetto funzioni non comporta di per sé che qualcuno sia disposto a usarlo; e soprattutto a usarlo al posto di qualcosa di equivalente più alla moda o più pubblicizzato, che si potrebbe facilmente reperire sul mercato del “nuovo”. 

 

L’amore per gli oggetti

Se la manutenzione è una condizione sine qua non, la vera molla che fa scattare l’impulso alla loro conservazione è l’amore per gli oggetti, o il fastidio prodotto dalla continua aggressione all’ambiente che l’acquisto del nuovo e lo smaltimento come rifiuto del vecchio comportano.

Riparare un oggetto vuol dire conoscerlo a fondo; sapere come e perché funziona; saperci “mettere le mani dentro”; ma anche trovare o disporre delle parti che richiedono una sostituzione. Più l’oggetto è complesso, più sono numerose, ampie e specialistiche le conoscenze richieste per ripararlo. Fino a un certo punto possono bastare le competenze e le abilità di chi l’oggetto lo ha in uso o ne intende entrare in possesso. 

 

Le competenze specialistiche

Da un certo punto in poi, però, l’intervento di competenze specialistiche diventa indispensabile e, in alcuni casi, anche obbligatorio per legge (si pensi alla certificazione dell’impianto elettrico o di una caldaia a gas di un appartamento). E non è detto che sia facile, conveniente, o anche solo possibile reperire le professionalità necessarie a riparare invece che sostituire integralmente un impianto o un’apparecchiatura guasta o difettosa. 

La presenza e il grado di diffusione nel tessuto sociale di conoscenze e abilità del genere danno la misura del peso che in un determinato assetto sociale viene riservata alla cultura materiale; cioè alla “cultura” degli oggetti della vita quotidiana: dagli ingredienti della cucina agli strumenti di lavoro, dalle strutture dell’abitare ai mezzi per garantirsi la mobilità ecc. 

 

L’uomo artigiano

Anche quando viene esercitata in forme professionali, la manutenzione o la riparazione di un oggetto, di un’attrezzatura o di un impianto richiede quelle virtù di attenzione, conoscenza, intelligenza e abilità manuale che Richard Sennett attribuisce alla figura del moderno Uomo artigiano (2008): le modalità di un approccio al lavoro in cui l’autore intravede una alternativa radicale alla spersonalizzazione e allo svuotamento dell’attività lavorativa che ha caratterizzato il modo di produzione fordista, fondato sulla parcellizzazione delle mansioni lungo la catena di montaggio; e, poi, in un crescendo di deresponsabilizzazione e di estraneazione dal contenuto di quello che si fa, il regime lavorativo dell’Uomo flessibile (Sennett, 1999), proprio dell’universo cosiddetto post-fordista.

Un elettricista, un idraulico, un meccanico che ripara auto o motori, un ciclista che ripara biciclette e ciclomotori, ma anche un sarto o una sarta che ripara o adatta gli abiti, o chi gestisce una tintoria e, a maggior ragione, un restauratore di mobili o di oggetti di antiquariato, per poter lavorare devono in qualche modo “amare” gli oggetti dei loro sforzi; o comunque devono prestare loro grande attenzione e utilizzare l’intelligenza per individuare guasti e difetti, capire e progettare come farvi fronte; e poi combinare queste doti con una notevole dose di abilità manuale per intervenire sull’oggetto. 

Attraverso la rivalutazione dell’usato e del lavoro per prolungare la vita degli oggetti e delle attrezzature, o per restituire loro una nuova vita, la manutenzione ci introduce in un mondo che sovverte completamente le caratteristiche di quelle attività seriali, ripetitive, monotone e vuote che i precedenti stadi dello sviluppo industriale hanno elevato a paradigma del lavoro umano.

 

Le competenze del riuso

Tutti gli oggetti suscettibili di recupero devono essere puliti, spesso riparati, a volte riverniciati o lucidati; in alcuni casi cannibalizzati per estrarne dei componenti (particolarmente preziosi perché spesso permettono di aggiustare oggetti di cui non sono più in commercio né la marca, né il modello, né i pezzi di ricambio). Sono in pochi, e sempre in meno, a saper fare queste cose: basta pensare alle nostre difficoltà nel trovare chi sa ancora riparare una vecchia radio, un giradischi, un aspirapolvere, un vecchio abito in buono stato e simili. 

I saperi, l’esperienza e l’abilità manuale di queste persone andrebbero salvaguardati, valorizzati e recuperati, offrendo loro la possibilità di trasmetterli ad altri che li possano usare per farne un mestiere; ma anche al numero pressoché infinito di persone a cui piacerebbe saper mettere le mani sui loro apparecchi guasti, invece di doverli buttare via perché non trovano più chi glieli aggiusti; o perché non hanno a disposizione gli strumenti adatti per quel lavoro. 

È un problema la cui soluzione potrebbe avere un impatto enorme sulla cultura materiale di noi tutti; sul nostro rapporto con le cose di cui ci siamo circondati; sulla sopravvivenza di questi beni. E anche sul nostro portafoglio. Si tratta solo di individuare le persone, le sedi e le modalità adatte per promuovere una trasmissione diffusa di queste competenze.

 

Il ruolo di una comunità

In ogni caso, il confine tra la capacità di intervenire direttamente sugli oggetti che abbiamo in uso e la necessità di rivolgersi a personale o ditte specializzate varia non solo nel tempo, con un progressivo impoverimento della nostra autonomia personale; e neanche solo passando da un ambiente semplice, come sono ancora oggi molte società rurali, o anche da molte comunità urbane insediate in slum autocostruiti, a un ambiente urbano complesso. Varia anche a seconda del carattere, dello stile di vita e degli orientamenti di una persona. Ma varia soprattutto – e a volte in modo radicale – in base alla tipologia degli oggetti in questione. 

In molti casi sono proprio questi oggetti – o queste “cose”, nell’accezione più ampia del termine – una bicicletta, una moto, un’automobile, una barca, un paio di sci, una casa, che fanno sentire la loro voce al loro “padrone”; e chiedono di essere accudite come parte integrante dell’uso che se ne fa. Naturalmente non tutti sentono o prestano ascolto in egual misura a questo richiamo; e alcuni non lo ascoltano affatto. Resta il fatto che il rapporto, spesso di proprio e vero amore, che si instaura tra una persona e una cosa, o un’attrezzatura, costituisce un modello di riferimento per qualsiasi azione di promozione di una più diffusa cultura del riuso.

 

Una forma di legame sociale

In una dimensione diversa, un’attenzione generale per lo stato di salute delle attrezzature e degli oggetti che popolano la vita quotidiana può rivelarsi il legante che tiene unita una comunità o la chiave per ricostruirne la dimensione di mutuo aiuto e radicarla nelle pratiche quotidiane dei suoi membri. È a tal fine necessario che la manutenzione e la riparazione di un insieme di oggetti e attrezzature sia ripartita tra i membri di una rete solidale e che le competenze per effettuarla siano sufficientemente diffuse al suo interno. 

Sono tutti aspetti che, nel loro insieme, disegnano una costellazione culturale in grado di configurare una svolta radicale nella collocazione dell’uomo nel modo, e tra le cose del mondo, rispetto all’atteggiamento impostoci oggi dal lavoro seriale, alienato e parcellizzato, e dalla cultura dell’usa e getta promossa dalla pubblicità e dalla moda.

 

Meccanismi industriali

Anche da un punto di vista industriale sistemi che sostituiscono all’acquisto del prodotto e poi al suo smaltimento come rifiuto un contratto con l’impresa produttrice che si incarica non solo della sua produzione, ma anche della sua riparazione, della sua rigenerazione, della sua consegna e del suo ritiro sono sempre più in uso per molti input altamente inquinanti della produzione industriale: lubrificanti, solventi, catalizzatori ecc. Anche qui ci troviamo di fronte a soluzione industriali finalizzate alla promozione del riuso. 

Un esempio di rilievo per quanto riguarda la manutenzione e la riparazione dei beni complessi è quella dei componenti modulari che permettono di sostituire solo le parti logore, guaste od obsolete di un’apparecchiatura, preservando per il riuso tutto il resto.

In alcuni casi, che potrebbero tornare a essere i più frequenti, come lo erano nelle società preindustriali e per tutta la prima fase della Rivoluzione industriale fino a pochi decenni fa, il riuso non comporta affatto un passaggio di mano dei beni, ma solo la loro manutenzione. 

In varie forme: dalle più elementari a quelle via via più complesse, che richiedono la riparazione invece della sostituzione del bene guasto nella sua interezza. Oppure la sostituzione di alcune delle sue parti soltanto: quelle logore od obsolete. O anche la loro riparazione, resa sempre più difficile perché ormai i pezzi di ricambio sono concepiti e fabbricati per essere sostituiti in blocco: basta pensare alle trasformazioni subite nel corso degli ultimi decenni da componenti come il cruscotto di un’automobile o la resistenza di un elettrodomestico.

 

Riparazione e concorrenza

Tra i processi industriali e di marketing e la resilienza di una comunità, intesa come la disponibilità al suo interno di una quantità di competenze sufficienti a garantire la riparazione di tutto – o quasi – ciò che si guasta, esiste un rapporto dialettico che è sotto gli occhi di tutti.

Dove quelle competenze mancano o vengono meno, il fatto che un bene durevole sia facilmente riparabile o non lo sia affatto non fa alcuna differenza. Quando si guasta bisogna sostituirlo con uno che funzioni, perché comunque non c’è a disposizione nessuno in grado di ripararlo. Ma se quelle competenze esistono, e sono sufficientemente diffuse in una comunità, il fatto di produrre e mettere in commercio beni che garantiscono di durare più a lungo e che sono facilmente riparabili può diventare un fattore competitivo decisivo: sia per il singolo sia per la comunità nel suo complesso.

 

Importanza dell’infrastruttura

Uno strumento fondamentale per promuovere la cultura della riparazione e del riuso è la costruzione e la diffusione dell’infrastruttura, al tempo stesso materiale e culturale, necessaria per promuovere il recupero dei beni dismessi. Questa infrastruttura potrebbe svilupparsi, come ormai proposto da più parti, da un ampliamento e da una riorganizzazione di quelle che oggi sono le stazioni ecologiche o riciclerie.

Una ricicleria ideale, che sappia svolgere questo ruolo, è composta di due grandi aree. La prima parte, di estensione maggiore, si trova subito dopo i cancelli d’ingresso; è dedicata alla selezione e al prelievo dei materiali suscettibili di riuso, ai magazzini e ai laboratori di riparazione, ai locali per le esposizioni e alla sala conferenze. La seconda parte, più arretrata e di minore estensione, è destinata al conferimento in forma differenziata dei materiali suscettibili solo di essere avviati a riciclo. 

 

L’organizzazione interna

La prima area, a sua volta, ha due corsie di accesso: da una parte scaricano i veicoli dei privati, quelli delle imprese artigiane e quelli dell’azienda di igiene urbana che raccolgono i rifiuti ingombranti. In questa corsia affluiscono anche le apparecchiature e gli oggetti estratti nelle demolizioni controllate effettuate con modalità compatibili con il recupero dei materiali: sanitari, lampade, caldaie, termosifoni, infissi, cavi elettrici e tubature, travi ecc. 

Nella seconda corsia scaricano invece i furgoni dell’azienda adibiti al prelievo e allo svuotamento dei cassonetti destinati alla “sesta frazione” della raccolta differenziata che ogni comune dovrebbe istituire sul territorio: quella dedicata agli oggetti durevoli; oggi, prevalentemente, solo di grande taglia , ma che potrebbe essere ampliato per includere anche quelli di piccola taglia. Lungo entrambe le corsie, a fianco del percorso di ingresso, c’è una fila di banconi per esaminare gli oggetti che vengono scaricati. Dietro i banconi, una serie di cassoni carrellati sono destinati a raccogliere in modo differenziato i diversi oggetti selezionati perché giudicati recuperabili come cose destinate al riuso. 

I rifiuti cosiddetti ingombranti, scaricati dagli utenti con l’aiuto degli addetti alla ricezione, vengono collocati su dei carrelli per essere esaminati; oppure vengono depositati direttamente sui banconi, a seconda delle dimensioni, del peso e delle indicazioni fornite dagli addetti alla ricezione. L’esame si svolge sia sul materiale depositato sui carrelli sia su quello scaricato sui banconi. I materiali che superano la valutazione di recuperabilità vengono sistemati nei cassoni carrellati corrispondenti alla loro tipologia, che vengono poi avviati al magazzino per esser sostituiti da nuovi cassoni vuoti. Quelli che non superano l’esame vengono rimessi sui carrelli o vi rimangono dentro, oppure vengono depositati in altri cassoni carrellati. 

I carrelli e i cassoni pieni dei materiali scartati vengono trainati sulla rampa della seconda parte dell’impianto dagli addetti al servizio, che li scaricano nei container scarrabili sottostanti, differenziati questa volta solo in base alla tipologia del materiale. Il materiale più pesante, come gli elettrodomestici rotti, o il materiale più delicato, come le apparecchiature elettroniche non più recuperabili vengono invece accatastati direttamente dal piano di carico nei container scarrabili dedicati.

 

L’addestramento

Da entrambi i flussi avviati al magazzino, quello degli ingombranti e quello dei piccoli oggetti, vengono prelevati dei campioni di materiale (mobili, arredi, vestiti, apparecchiature elettroniche, macchine da cucire, elettrodomestici, computer, giocattoli, gadget, biciclette ecc.), che verranno poi utilizzati come materiale didattico nei laboratori di riparazione o di restauro. I laboratori sono gestiti dalla stessa organizzazione che si è aggiudicata il lavoro di selezione. 

Il resto viene diviso in piccoli lotti omogenei che vengono venduti, con un sistema di aste periodiche, a un insieme di operatori accreditati. Per accreditarsi non sono necessari particolari requisiti. Potranno essere accreditate anche associazioni di migranti, che poi distribuiranno i lotti acquisiti secondo criteri conformi ai propri regolamenti interni. Ovviamente la struttura che gestisce la selezione non partecipa all’asta.

I laboratori – di falegnameria, di meccanica, di sartoria, di restauro, di elettrotecnica, di idraulica, di elettronica, di artigianato artistico e altro – sono attrezzati con una buona strumentazione e sono diretti da uno o più professionisti del ramo, dipendenti dell’organizzazione che gestisce la selezione, oppure convenzionati con essa. Non è ovviamente necessario che ogni ecocentro abbia al suo interno tutti i laboratori necessari a riportare a nuova vita gli oggetti selezionati per il riuso. Quando gli ecocentri saranno molti, e saranno in rete, ognuno potrà specializzarsi solo in alcuni campi. Saranno i responsabili dei laboratori a fare il giro degli ecocentri per svolgere attività di formazione e affiancamento degli addetti alle selezioni, mentre i materiali da riparare verranno concentrati nei laboratori meglio attrezzati.

I laboratori degli ecocentri hanno una triplice finalità. Innanzitutto la formazione: vi si tengono dei corsi pratici di riparazione e restauro di beni dismessi prelevati dal flusso di quelli smistati: i corsi sono aperti a tutti, a diversi livelli di complessità tecnica, anche con lo scopo di salvare saperi e competenze che rischiano di andare perdute con la scomparsa dell’ultima generazione di artigiani che ancora ne dispone. In questa sede si mettono anche a punto programmi di educazione ambientale e di lavoro creativo con i rifiuti, da sviluppare nelle scuole del territorio. 

Ma quei laboratori possono svolgere anche un’attività di assistenza tecnica: si può permettere a chi fa bricolage, restauro o riparazione delle proprie cose a casa sua, di accedere al laboratorio in orari particolari per utilizzare, sotto il controllo del personale responsabile, attrezzature e macchinari complessi che non avrebbe nessun senso possedere in proprio. Così la cultura della manutenzione e della riparazione si diffonde in tutta la comunità.