Chi studia la natura in ogni sua forma, o ha il privilegio di viverci immerso, acquisisce ‒ volontariamente o meno ‒ la capacità di stabilire connessioni emotive con le altre specie. Il successo di questa relazione dipende non tanto dal tempo che passiamo immersi nella ricchezza della diversità biologica che ci circonda, ma dal modo in cui ci relazioniamo con essa. In pratica, più empatia saremo in grado di sviluppare nei confronti delle altre specie e degli ecosistemi, più staremo meglio e maggiori possibilità avremo di essere in grado di attivare comportamenti virtuosi a favore dell'ambiente e della conservazione della natura.

La vera connessione non è una cosa facile da descrivere, e nemmeno da ottenere. Ma per aumentare le possibilità di successo ci viene incontro quello che viene chiamato “antropomorfismo critico”, un concetto introdotto negli anni Ottanta del secolo scorso dal biopsicologo Gordon Burghardt. Questo approccio non sottintende, fortunatamente, l’umanizzazione degli animali ma richiede il superamento di quei vincoli e limiti che la tradizione culturale antropica, quantomeno dalla bête-machine di Cartesio in poi, ha posto all’ambito di studi e ricerche collegate al comportamento interspecifico. È un bellissimo esercizio di pazienza, e di umiltà, che permette a chi ha voglia di guardare e ascoltare quel mondo “altro” di sciogliere confini e barriere, di imparare nuovi linguaggi e di stare, semplicemente, meglio.

L’importanza delle foreste

In letteratura è ormai ampiamente riconosciuto che l'interazione con la natura, compresa quella a cui concediamo di sopravvivere in ambiente urbano, porta ad alleviare lo stress, a migliorare l'umore, le capacità cognitive e la coesione sociale, oltre a una serie di altri benefici fisiologici. Come tutte le relazioni, però, anche quella tra uomo e natura comporta delle differenze a seconda dei soggetti considerati. Una ricerca pubblicata nel 2023, infatti, spiega come la connessione con le altre specie presenti delle differenze in termini di risposta del nostro organismo. Ad esempio, rispetto ad altri taxa presenti nelle foreste ‒ come uccelli e insetti ‒ gli alberi sarebbe maggiormente in grado di stimolare risposte positive, associate al benessere fisiologico e mentale.

Ciò è probabilmente attribuibile alla visibilità degli alberi durante tutto l'anno e ha importanti implicazioni nell’ambito della conservazione delle foreste, in particolare di quelle con numerosi esemplari secolari. Una constatazione non di poco conto se consideriamo che oggi le foreste coprono circa un terzo della superficie terrestre e supportano servizi ecosistemici pari al 9% del prodotto interno lordo globale. Tuttavia, la loro estensione è diminuita del 31,6% tra il 1990 e il 2015 a causa della deforestazione, della frammentazione e di altre pressioni antropiche.

Salute, finanza, economia: i costi della perdita di biodiversità

Come tutte le relazioni, anche quella con la natura può rivelarsi complicata se noi esseri umani continuiamo a comportarci come quel partner tossico che sfrutta ogni risorsa di cui è in possesso. Un compagno vampiro che, il 19 maggio di quest’anno, ha già consumato tutte le risorse a sua disposizione in quel giorno mondialmente conosciuto come overshoot day. Un atteggiamento rischioso, per la nostra specie, visto che le risorse della diversità biologica sono i pilastri su cui costruiamo il nostro modello socioeconomico.

Secondo le Nazioni Unite, infatti, il pesce fornisce il 20% delle proteine animali a circa 3 miliardi di persone. Oltre l'80% della dieta umana è fornita dalle piante. Ben l'80% delle persone che vivono nelle aree rurali dei Paesi non industrializzati si affida a farmaci tradizionali di origine vegetale per l'assistenza sanitaria di base. Senza contare i rischi epidemici che aumentano mano a mano che la distruzione della natura avanza, facilitando l’emergere e la diffusione di malattie zoonotiche (trasmesse dalla fauna selvatica all'uomo) come il famigerato Covid-19, l’influenza aviaria e suina, e via dicendo. Con ovvie perdite dal punto di vista umano, animale e, naturalmente, anche economico. Solo negli ultimi vent'anni, le malattie zoonotiche hanno causato perdite economiche per oltre 100 miliardi di dollari in tutto il mondo.

La perdita di biodiversità e il degrado ambientale sono inoltre associate a rischi finanziari importanti che possono derivare dalla dipendenza delle attività produttive dalle risorse biologiche e dagli ecosistemi (ad esempio agricoltura, pesca e farmaceutica, per citarne alcuni) o dagli impatti che questi settori generano sulla natura. Quando le imprese devono affrontare rischi significativi dovuti alla perdita di biodiversità e al degrado degli ecosistemi, la loro affidabilità creditizia può essere compromessa. Pertanto, le banche che finanziano clienti le cui attività dipendono da beni naturali e biodiversità, o che hanno impatti significativi sulla loro conservazione, affrontano a propria volta rischi associati al degrado della natura.

Ecco perché la volontà da parte delle Nazioni Unite di puntare l’accento sul principio di interconnessione ‒ sia nella giornata dedicata alla biodiversità, che nella visione enunciata dal Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, conosciuto anche come Biodiversity Plan ‒ è di vitale importanza per la nostra specie e per tutte quelle con cui coesistiamo sul pianeta, e ci impone di guardare con attenzione al prossimo incontro delle parti che si terrà a Cali dal 21 ottobre al 1° novembre 2024.

 

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Immagine: Juan Rumimpunu, Unsplash

 

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