Il 2014 per l’Europa doveva essere l’anno dell’avvento dell’economia circolare: un nuovo paradigma per progettare i modelli di sviluppo della nostra società e industria da qui al 2050. La doccia fredda sulle aspettative di chi aveva creduto in questa prospettiva è arrivata alla fine dello scorso anno, direttamente dalla nuova Commissione europea appena insediata sotto la presidenza di Jean-Claude Juncker, che ha deciso di tagliare una lunga lista di programmi ritenuti poco efficaci o troppo onerosi. Tra questi, appunto, quello relativo all’economia circolare.

Nel corso del 2015, però, le reazioni sconcertate degli stakeholder e le perplessità di molti stati membri hanno costretto la Commissione a rivedere la propria posizione, fino a dichiarare che il ritiro del primo pacchetto sull’economia circolare era in realtà finalizzato a proporne uno più incisivo e di maggior respiro strategico.

Sarà davvero così? Certo è che la prima proposta della Commissione risultava piuttosto lacunosa e focalizzata soprattutto sulla gestione dei rifiuti senza indirizzare, se non marginalmente, tutti gli altri aspetti fondamentali del nuovo paradigma economico, come il remanufacturing, la sharing economy e la bioeconomia.

 

Remanufacturing

Il remaufacturing è un modello produttivo che si basa su processi organizzati e ottimizzati per trasformare vecchi prodotti – siano essi beni usati o rifiuti – in prodotti nuovi, portandoli a livelli prestazionali equivalenti o in alcuni casi addirittura superiori, e dotandoli di garanzie adeguate a tutela del consumatore. Diversi paesi europei hanno investito in modo massiccio nel settore del remanufacturing. Il Regno Unito, per esempio, ha un piano per accrescere il fatturato di questo comparto dagli attuali 3,4 miliardi di euro a 7,8 miliardi di euro entro il 2030, sviluppo che dovrebbe portare alla creazione di almeno 20.000 nuovi posti di lavoro.

 

Con queste premesse, lo scorso giugno si è tenuta una conferenza in cui i commissari europei Timmermans e Katainen hanno solennemente promesso un impegno convinto a sostegno dell’economia circolare, definendola una “strategia fondamentale” per lo sviluppo del nostro continente.

Dunque a Bruxelles hanno ripreso a lavorare intensamente al pacchetto “Circular Economy” che dovrebbe esser pronto per la fine dell’anno. Staremo a vedere. Ma le aspettative questa volta sono elevate perché gli investimenti nell’economia circolare dovranno sostenere lo sviluppo dell’industria europea e, allo stesso tempo, contribuire al raggiungimento degli obiettivi che emergeranno dalla COP21 di Parigi sulla sfida fondamentale rappresentata dai cambiamenti climatici.

 

Economia circolare: unica alternativa possibile

Ma cosa possiamo aspettarci esattamente? Gli esperti che stanno lavorando ai programmi di sostegno all’economia circolare partono dalla consapevolezza che allo stato attuale circa il 90% del fatturato dell’industria europea (per non parlare di quella mondiale) è basato su modelli lineari di approvvigionamento, produzione, consumo e smaltimento della materia.

È però riconosciuto, almeno a parole, che l’unica alternativa possibile per assicurare una prospettiva alle future generazioni è una rapida transizione a un sistema industriale basato sull’economia circolare, orientando le imprese a ripensare i cicli produttivi in modo tale da eliminare il concetto di rifiuto, attraverso modelli ottimizzati per il riutilizzo dei prodotti, il disassemblaggio e il riciclo degli stessi. 

Tali modelli verso i quali si vorrebbe convergere dovranno specializzarsi per distinguere le problematiche dei prodotti di consumo da quelle dei beni durevoli. Nel primo caso la Ue spingerà sull’impiego di ingredienti naturali, non tossici e reintegrabili in modo sicuro nella biosfera. Per i beni durevoli e semidurevoli, invece, si punta a garantire tassi di riutilizzo e riciclo molto elevati, per evitare che le sostanze di cui sono fatti danneggino l’ambiente e in modo da ottimizzare l’efficienza nell’uso della materia.

I vantaggi che gli esperti di Bruxelles vogliono conseguire attraverso il riposizionamento dell’assetto industriale dell’economia europea sono dunque strettamente correlati all’obiettivo di disaccoppiamento (decoupling) dell’estrazione e utilizzo di risorse naturali – passata in Europa dai 12 miliardi di tonnellate nel 1980 agli attuali 22 miliardi di tonnellate – dalla crescita economica necessaria per assicurare sviluppo e benessere al continente. Si tratta di una prospettiva interessante, che consentirebbe, tra l’altro, di ridurre la volatilità dei prezzi delle materie prime critiche, dando stabilità alla nostra industria e riducendo i rischi di approvvigionamento. In termini economici la Commissione stima che, grazie all’economia circolare, il risparmio di materie prime per l’industria nel 2025 potrebbe essere almeno del 14% a parità di output, una percentuale equivalente a circa 400 miliardi di euro. Per l’industria italiana questo potrebbe rappresentare un risparmio di almeno 12 miliardi di euro. Inoltre il modello circolare potrebbe favorire la creazione di nuove filiere business, ridando stimolo ai consumi e favorendo la crescita occupazionale.

 

L’industria europea è già partita

In qualche modo l’industria europea sta anticipando le mosse di Bruxelles. Alcuni gruppi industriali leader hanno già avviato una fase di transizione dei propri sistemi produttivi e di servizio verso il nuovo assetto “circolare”. Ciò sta avvenendo perché le aziende più innovative hanno compreso che l’adozione di modelli produttivi basati sull’ economia circolare favorisce lo sviluppo del loro business e crea valore per gli azionisti. Le strategie più utilizzate vanno dal remanufacturing dei prodotti esausti, alla trasformazione dei prodotti in servizi, in sintonia con il paradigma della sharing economy, alle politiche zero-waste, fino alla riprogettazione dei i propri modelli produttivi per operare in simbiosi con i partner di filiera.

La Commissione europea ha manifestato l’intenzione di incentivare e accelerare gli investimenti delle imprese che adottano modelli di economia circolare, premiando le realtà più virtuose. Staremo a vedere se queste intenzioni si tradurranno in misure concrete, capaci di trasformare l’attuale fase sperimentale in uno scenario cosiddetto mainstream, dove i modelli di riferimento dell’industria saranno effettivamente fondati sul concetto di economia circolare.

 

Il “pacchetto” europeo per l’Italia

Un buon pacchetto di misure per sostenere l’adozione dell’economia circolare sarebbe estremamente importante anche per il nostro paese, dove gli ingredienti per fare bene ci sono ma dove scontiamo un ritardo sia di investimenti in innovazione sia culturale. Ciò non preoccupa solo per la situazione contingente da gestire, ma rappresenta un rischio in termini di capacità del nostro sistema produttivo di attrarre investimenti dall’estero. Infatti, le imprese globali che puntano sull’economia circolare potrebbero avere un motivo in più per esprimere scetticismo rispetto al nostro paese. È dunque necessario iniziare a costruire anche in Italia un contesto favorevole allo sviluppo dei nuovi modelli industriali ispirati all’economia circolare, eliminando i fattori di rallentamento che ci penalizzano. A partire dal deficit di competenze nel mondo delle imprese e delle istituzioni e dalla scarsa sensibilità al tema da parte dei consumatori, per arrivare all’assenza di una visione integrata necessaria a sviluppare un moderno settore del riciclo. 

Per questo il pacchetto di economia circolare della Commissione europea di prossima pubblicazione potrebbe fornire gli strumenti necessari ad affrontare e risolvere gli attuali limiti. Occorrono misure atte a premiare e a favorire le aziende che investono nel design di prodotti, nei servizi e nei processi industriali fondati su una visione di innovazione sistemica, con una particolare attenzione alle Pmi. A tal fine sarà importante riconoscerle, studiarne le strategie e rendere disponibili meccanismi premianti efficaci ed equilibrati. Per esempio incentivi rivolti alle aziende che si impegnano a trasformare i prodotti in servizi, mantenendo la proprietà dei beni commercializzati al fine di gestirne in modo più efficace il fine vita, anche attraverso l’introduzione di servizi finanziari in grado di rispondere alle specifiche esigenze dei consumatori. Inoltre, le misure di stimolo all’economia circolare potrebbero inserirsi in un quadro più ampio di revisione delle politiche fiscali a sostegno della green economy e della ecoinnovazione. 

 

Disownership

Il concetto di disownership (letteralmente “rinuncia alla proprietà”) che sta alla base dell’emergente sharing economy rappresenta uno degli aspetti più innovativi e interessanti dell’economia circolare. La sharing economy consente di ridurre l’impronta ambientale delle attività produttive, di creare occupazione e di valorizzare il capitale umano trasformando la vendita di beni in fruizione e accesso a servizi a valore aggiunto. In questo particolare contesto i nuovi modelli di business a cui ci si ispira creano interessanti opportunità occupazionali legate allo sviluppo di moderne reti di servizio, di assistenza tecnica, di consulenza, di servizi finanziari e di logistica. In Europa e nel mondo è in atto lo spostamento delle preferenze dei consumatori verso l’accesso ai servizi con modalità pay per use, come alternativa alla proprietà giuridica dei beni. Questa transizione offre notevoli vantaggi alle imprese da un punto di vista della produttività degli assets, in quanto consente di generare economie di scala, di ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture produttive e di servizio e di assumere personale altamente specializzato. Diversi paesi europei hanno già avviato questa transizione. La Svezia per esempio sta mettendo a punto un piano da 12 miliardi di euro di investimenti per l’economia circolare, che ha come punto di forza proprio il tema della società dei servizi sostenibili.

 

 

Economia circolare e rifiuti

Il pacchetto per l’economia circolare dovrebbe anche affrontare in modo organico e innovativo il tema dei sistemi di gestione dei prodotti a fine vita. Sappiamo che in Europa generiamo 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno ma solo il 40%, limitatamente a pochi flussi, viene raccolto e avviato al riutilizzo, al riciclo al recupero energetico o al compostaggio. Ci sono ampi margini di miglioramento, soprattutto se pensiamo che la situazione italiana è peggiore rispetto alla media europea. Molti rifiuti sfuggono al controllo e finiscono all’estero per essere valorizzati e spesso, anche quando si attuano operazioni di riciclo e recupero, le materie prime subiscono un downgrading rispetto a quanto oggi si potrebbe ottenere con le migliori tecnologie disponibili. I nostri sistemi di raccolta sono in genere costosi e inefficienti e non aiutano le imprese ad abbandonare i tradizionali sistemi produttivi lineari di trasformazione della materia e di smaltimento dei prodotti finiti da essa ricavati alla conclusione della fase di consumo degli stessi. La Commissione sta quindi valutando la possibilità di introdurre ulteriori semplificazioni per favorire aumenti di efficienza dei sistemi di raccolta, integrandoli con le industrie a monte che fanno uso di componenti di recupero e di materie prime provenienti da prodotti a fine vita. Un altro tema su cui Bruxelles intende porre l’accento è quello dello sviluppo di reti professionali specializzate nel ricondizionamento di apparati a fine vita che potrebbero rientrare nei cicli di produzione e consumo, evitando così la generazione dei rifiuti e favorendo lo sviluppo di nuove professionalità tecniche, cosa che potrebbe essere vantaggiosa anche in termini occupazionali.

 

Aspettiamoci dunque che il pacchetto “Circular Economy” contenga strategie più efficaci rispetto al passato per sviluppare la domanda di materia proveniente da operazioni di riutilizzo e riciclo di prodotti a fine vita. Agli esperti della Commissione è ormai chiaro il fatto che la generazione di domanda da parte di filiere industriali a valle di processi produttivi che generano scarti che potrebbero trasformarsi in risorse da utilizzare, è forse il modo migliore per alimentare un circolo virtuoso ispirato al concetto di economia circolare. Non è un caso se negli ultimi 24 mesi sono nate in Europa diverse imprese che hanno realizzato modelli di brokeraggio capaci di mettere in collegamento domanda e offerta per materie prime seconde o per prodotti a fine vita, generando benefici per il mercato e profitti significativi per gli investitori. In questa prospettiva il nuovo pacchetto di misure punterà a favorire la nascita di nuove filiere industriali basate su una maggiore integrazione tra imprese su scala europea, in grado di utilizzare in modo più efficace le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione per ridurre le asimmetrie informative che frenano gli scambi e lo sviluppo di processi cooperativi.

 

Fondi europei per l’innovazione e sviluppo delle competenze

La strategia europea per l’economia circolare dovrà, gioco forza, sfruttare al meglio il patrimonio di fondi europei per l’ecoinnovazione (Horizon 2020 e altri fondi strutturali), in modo da sostenere gli investimenti necessari a creare massa critica su alcune filiere industriali a elevato impatto. Vale la pena sottolineare come l’Italia presenti alcuni punti di forza da valorizzare, che potrebbero consentirci di conseguire posizioni di leadership a livello internazionale ma che hanno bisogno di essere sostenuti da investimenti mirati in innovazione. Dunque converrà focalizzarsi sulle competenze distintive rispetto alle quali abbiamo una concreta opportunità di emergere e per cui esiste una vocazione da parte del nostro contesto imprenditoriale. Si potrebbe per esempio sviluppare l’industria dell’idrometallurgia e della biometallurgia per il recupero di metalli preziosi e terre rare come alternativa ai grandi impianti pirometallurgici del Nord Europa. Si tratta di tecnologie innovative a basso impatto ambientale (se paragonate alle “vecchie” tecnologie che lavorano alle alte temperature) in cui l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante. Da questo punto di vista sarebbe importante presentarsi in Europa con una visione chiara e con la capacità di sottoporre proposte progettuali robuste e credibili al fine di conseguire i finanziamenti necessari. In questo ambito si potrebbero identificare alcuni champion di filiera in grado di guidare una rete di partner verso la realizzazione di un nuovo sistema industriale che rafforzi i meccanismi di integrazione in chiave di economia circolare.

Quasi certamente il nuovo pacchetto europeo per l’economia circolare indirizzerà il tema dello sviluppo di imprenditorialità e cultura dell’innovazione, attraverso il sostegno di interventi più incisivi di formazione teorica e sul campo. Come già accennato in precedenza, la Commissione è consapevole che la carenza di competenze e di professionalità nelle istituzioni e nelle imprese frena l’adozione di modelli innovativi di economia circolare.

 

Semplificare per innovare

Speriamo dunque che il pacchetto di Bruxelles riesca a modernizzare la regolamentazione ambientale. Nelle economie moderne l’ambiente rappresenta una risorsa essenziale da proteggere, ma non solo e non tanto attraverso un approccio formale, fatto di vincoli, adempimenti e oneri. Occorre piuttosto capire come misurare con precisione ed efficacia le esternalità ambientali (costi ambientali legati all’utilizzo degli ecosistemi da parte dei privati) penalizzando chi non interviene per ridurle e premiando chi progetta l’azienda per mitigare il proprio impatto sugli ecosistemi. Oggi molto spesso questi tentativi vengono frustrati da una normativa rigida e obsoleta, che vede il “rifiuto” esclusivamente come un problema ambientale e non come un’opportunità di creare valore lungo le filiere produttive. 

 

 

Una questione di priorità

In attesa di verificare i contenuti del pacchetto “economia circolare”, che recepirà tra l’altro gli esiti della consultazione con gli stakeholder appena conclusa, sarebbe opportuno che la Commissione definisse alcune priorità, indicando i settori a elevato potenziale su cui l’Europa dovrebbe puntare. Per quanto riguarda per esempio i beni con cicli di vita molto lunghi (settore delle costruzioni e delle infrastrutture) si possono avviare interventi ad altissimo potenziale soprattutto nel lungo periodo, mentre nel breve termine le azioni più interessanti possono essere sviluppate sui beni durevoli di consumo, in particolare i prodotti di struttura costruttiva caratterizzata da una complessità medio-alta. Si fa qui riferimento per esempio ai macchinari, agli apparecchi elettrici ed elettronici, ai mobili, alle macchine utensili, ai motori e ai veicoli. Il fatturato annuo attribuibile a questa tipologia di beni è di circa 2.600 miliardi di euro, a testimonianza dell’importanza del recupero a fine vita delle materie prime. Se ipotizzassimo che il costo delle materie prime incida mediamente per il 25% sul prezzo dei prodotti, potremmo attenderci un valore economico associato al recupero integrale, sia pure teorico, della materia di almeno 500 miliardi/anno, dato che sta facendo seriamente riflettere i decision maker della Commissione. Se son rose fioriranno...