La commerciabilità di questa risorsa è stata al centro del convegno “European Seaweed Production and Marketability” che si è tenuto a Oban, in Scozia, a metà maggio. Inserito tra gli eventi che celebrano la Giornata marittima europea, ospitato nel campus dell’Associazione scozzese per le scienze marine e accolto da due giornate di sole incredibili a certe latitudini, il workshop è stato un incontro unico nel suo genere. Per la prima volta, infatti, i responsabili di cinque progetti europei si sono riuniti per confrontarsi sulle pratiche e aspettative nella produzione e utilizzo industriale delle alghe marine: dalla coltivazione alla raccolta, fino all’estrazione di un prodotto di qualità. Un approccio molto concreto – dunque – nonostante la platea fosse formata per la metà da ricercatori.

Negli ultimi anni il volume di commercio di questi beni è aumentato di oltre il 30% rispetto alle precedenti stime (Fao, 2012), dimostrando il notevole e crescente interesse per le biorisorse marine. D’altro canto, le grandi aziende che utilizzano alghe nei loro prodotti richiedono un approvvigionamento regolare e affidabile del materiale, sia in termini di quantità sia di qualità. Questo può rappresentare un problema quando i fornitori sono piccoli produttori, situati in diverse regioni geografiche, che offrono prodotti con caratteristiche difformi, dovute sia a differenti pratiche di produzione sia alla naturale variabilità delle condizioni ambientali.

Queste criticità, così come le preoccupazioni per la sostenibilità per l’uso delle nostre risorse naturali, possono in gran parte essere affrontate ricorrendo a pratiche di acquacoltura, anziché utilizzare il raccolto naturale. Lo stanno facendo molte comunità rurali delle zone costiere del mondo – dall’Indonesia alle coste orientali del Canada fino alle coste atlantiche del Vecchio Continente – che per secoli hanno solo raccolto le alghe. Tanto che oggi la biomassa immessa sul mercato attraverso la coltivazione copre ben il 95% del totale commercializzato, per un valore di 6,4 miliardi di dollari. 

Per il futuro l’Europa sembra poter rivestire un ruolo centrale in questo scenario. L’inquinamento nucleare delle acque marine in aree di produzione elevata, come il Giappone, assieme alle preoccupazioni legate agli incerti standard di qualità di altri grandi paesi produttori asiatici, come la Cina, stanno portando molti clienti a rivolgersi all’Europa. Qui rigorose normative, nazionali e comunitarie, costringono anche il più piccolo dei produttori a rispettare elevati standard qualitativi per l’utilizzo di ingredienti naturali in prodotti destinati agli esseri umani.

Questo nuovo e pronunciato interesse fornisce una concreta opportunità di sviluppo per le comunità rurali delle zone costiere dell’Europa occidentale, dove un ambiente incontaminato e antiche pratiche di utilizzo sostenibile delle risorse naturali algali si combinano con un’adeguata e innovativa capacità di ricerca scientifica. Come dimostrato durante il piccolo incontro tenutosi in Scozia, questa sinergia fornisce soluzioni innovative per l’intera filiera del settore: dal miglioramento delle tecniche di coltivazione e di raccolta, all’ampliamento degli ambiti di applicazione. 

Per dare luogo al potenziale di sviluppo di questo importante settore della bioeconomia marina, secondo solo alla pesca, è però necessario che i piccoli produttori europei comprendano le esigenze dei grandi commercianti. E benché la presenza di ricercatori scientifici lungo le linee di produzione rappresenti un segnale molto incoraggiante per la sostenibilità e l’affidabilità di questo settore, la comunicazione tra i vari comparti necessita di supporto, organizzazione e occasioni di confronto.