Il 22 marzo si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua, che quest’anno sarà dedicata ad accelerare il cambiamento per risolvere la crisi idrica e igienico-sanitaria. Lo stesso giorno, a New York, le Nazioni Unite daranno il via ai lavori della UN Water Conference 2023, la prima in quasi 50 anni, summit che dovrebbe portare ad un’agenda globale per l’acqua. Tuttavia, mentre già si parla di un “momento Parigi” per le risorse idriche – con aspettative di risultato paragonabili, per l'azione sul clima, all'Accordo di Parigi – c’è un altro tema, anch’esso fulcro della Conferenza: la cooperazione idrica.
Mentre il mondo sta affrontando un'imminente crisi idrica, con una domanda di acqua dolce che si prevede supererà l'offerta del 40% entro la fine di questo decennio, la gestione transfrontaliera dell’oro blu non si può più rimandare. Le acque transfrontaliere rappresentano infatti il 60% dei flussi mondiali di acqua dolce e collaborare, in fondo, significa darsi regole comuni. Così, per capire quale ruolo rivesta il diritto in questa sfida, Materia Rinnovabile ha intervistato Gabriel Eckstein, geologo e avvocato, professore presso la Texas A&M University School of Law, ex presidente dell’International Water Resources Association (IWRA) nonché consulente di numerose organizzazioni nazionali e intergovernative, tra cui l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, la Banca Mondiale, la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, FAO e UNESCO.

Quali sono le ragioni alla base della UN Water Conference 2023?

Sono molte le ragioni che spingono le Nazioni Unite a organizzare questa conferenza. È dal 1977, da Mar del Plata, che non si tiene una conferenza sull'acqua di così alto livello. Nel frattempo, ci sono state summit sulla biodiversità, sulle questioni ambientali, sull'ambiente sostenibile, sull'alimentazione e sull'agricoltura. Ma non sull'acqua. E molti di noi pensano che sia un'iniziativa attesa da tempo. Non possiamo fare nulla senza l'acqua, sia che si tratti di sostenere l'ambiente, l'agricoltura, l'industria o di garantire l'igiene e il sostentamento delle persone. Le Nazioni Unite stanno riconoscendo che l'acqua è al centro di tutte le attività sociali che svolgiamo.

C'è o no un crescente consenso verso un'agenda globale sull'acqua?

Credo che ci sia un crescente consenso verso un'agenda globale sull'acqua, ma sono un po' titubante sul fatto che possa essere sufficientemente articolata. A livello globale diamo l'acqua ancora come un bene scontato e non la valorizziamo come dovrebbe. E non intendo solo in termini economici, cioè di quanto si paga come consumatore, ma anche in termini non economici. Non credo che riconosciamo l'importanza cruciale dell'acqua. Non ha sostituti. Non possiamo vivere senza. Il livello di priorità che diamo all'acqua nelle nostre agende nazionali e internazionali non è neanche lontanamente vicino a quello che dovrebbe essere.

La conferenza sarà co-ospitata dal governo dei Paesi Bassi e del Tagikistan. Il Tagikistan, in particolare, ha una disputa aperta sulle acque transfrontaliere con Uzbekistan e Kirghizistan. Qual è il ruolo della cooperazione idrica nel terzo millennio?

La cooperazione idrica non è uno strumento, è un concetto. Aspiriamo a cooperare su queste importanti risorse, soprattutto quando sono transfrontaliere e condivise tra Paesi. Ma non basta avere questa aspirazione. Dobbiamo creare meccanismi più forti che sostengano e portino alla cooperazione idrica. Ad esempio, il diritto internazionale sulle risorse idriche sotterranee transfrontaliere si sta evolvendo, ma non è ancora riconosciuto. Eppure, potrebbe fornire alla diplomazia una cornice e una struttura per favorire la cooperazione.

Si sta evolvendo solo perché è principalmente diritto consuetudinario? 

Sì, ci sono aspetti consuetudinari. Ma ci sono anche alcune regole scritte nella UN Watercourses Convention, che ha 37 firmatari. Anche la Convenzione UNECE sulla protezione e l'uso dei corsi d'acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali ne conta qualcuno in più, forse quasi 50. Tuttavia, se si considera che nel mondo ci sono quasi 200 Paesi, significa che la maggior parte di essi non ha firmato questi accordi. Certo, abbiamo il diritto consuetudinario, ma è più vago. Non abbiamo ancora un solido insieme di leggi internazionali sull'acqua che la maggior parte dei Paesi ritiene pienamente applicabili.
Inoltre, non abbiamo posto abbastanza enfasi sui meccanismi istituzionali per promuovere la cooperazione. In Europa, ad esempio, esiste una grande commissione per il fiume Danubio e il fiume Reno. Ne abbiamo di simili nell'area dei Grandi Laghi, tra Stati Uniti e Canada, tra Stati Uniti e Messico, lungo lo Zambesi in Africa e in altre regioni. Ma nel mondo ci sono 310 corsi d'acqua internazionali e la maggior parte di essi non ha alcun tipo di meccanismo istituzionale. Finora sono stati identificati circa 486 acquiferi transfrontalieri. Tuttavia, solo sette di essi hanno un trattato e non tutti hanno un meccanismo istituzionale che aiuti a promuovere la cooperazione. Questo è un aspetto che dobbiamo spingere e incoraggiare ulteriormente a livello internazionale.

La Conferenza delle Nazioni Unite sull'acqua sarà utile per stabilire un quadro globale, in grado di promuovere accordi multilaterali?

Lo scopo di questa conferenza delle Nazioni Unite è, in parte, quello di incoraggiare la cooperazione, quantomeno le relazioni tra Paesi vicini, creare istituzioni e forse anche stabilire leggi regionali, non soltanto quindi il diritto consuetudinario internazionale. Ma è davvero difficile farlo in una conferenza di due giorni. È un periodo di tempo molto breve. La conferenza sarebbe dovuta durare una o due settimane. Avrebbe potuto essere molto più intensa e inclusiva per raggiungere l'obiettivo della cooperazione idrica ad un livello veramente globale.

Di recente lei è stato consulente del governo della Bolivia nel caso Silala davanti alla Corte internazionale di giustizia (CIG), una controversia che ha avuto esiti interessanti... Cosa è successo?

La controversia riguardava un corpo idrico transfrontaliero, il Silala, un fiume che nasce dalle acque sotterranee come sorgenti sul lato boliviano del confine, per poi scorrere sia in superficie che sottoterra verso il Cile e l'Oceano Pacifico. La domanda era: chi ne ha diritto e quanta acqua può prelevare ciascun Paese?
Questo è un buon esempio di come non abbiamo ancora raggiunto il livello di cooperazione di cui ho parlato prima, perché questo è un caso che si sperava potesse essere risolto attraverso la cooperazione. In effetti, i due Paesi hanno cercato per molti anni di sedersi e di trovare un meccanismo o un accordo. Purtroppo, non ci sono mai riusciti. Per questo motivo si sono rivolti alla Corte di giustizia internazionale, nonostante la via della cooperazione avrebbe garantito meno costi, nonché meno rischio di esternalità ed effetti collaterali.
L'esito di questo caso è stato molto interessante perché la Corte ha affermato che su quasi tutti i punti della controversia, nel corso dei cinque anni in cui le parti si sono confrontate, le parti hanno effettivamente raggiunto convergenza, in particolare sulle opinioni dietro la scienza riguardante il flusso idrico e il regime giuridico. La Corte ha infatti dichiarato di non doversi pronunciare su quasi tutte le questioni perché le parti avevano effettivamente già raggiunto un accordo su questi punti.

Quindi ora dovranno mettersi d'accordo sul fatto di essere d'accordo?

In linea di massima sì, ma è una buona decisione quella della Corte? Forse sì, perché le parti sembrano aver raggiunto un accordo sulla maggior parte delle questioni. Si spera che la decisione getti le basi per una migliore cooperazione tra Bolivia e Cile.

Come geologo, avvocato e accademico, quale è la sua opinione riguardo l'attribuzione di personalità giuridica ai fiumi?

La concessione di diritti legali alla natura è un fenomeno molto interessante, iniziato decenni fa, negli anni Settanta. Ma per quanto riguarda i fiumi, l'idea di poter dare a un oggetto non umano diritti assimilabili a quelli umani ha preso piede circa un decennio fa. È successo in Nuova Zelanda, Australia, India ed Ecuador, e più recentemente in Canada e in alcuni altri luoghi.
Da un punto di vista giuridico, l'idea è strana perché bisogna chiedersi: come si può dare un diritto a una cosa? I diritti sono normalmente qualcosa di cui godono solo le persone. Inoltre, cosa significa che un fiume può godere di un diritto? E poi, godere di un diritto significa anche poterlo proteggere da qualcun altro. Continuando il ragionamento, ciò significa che si ha la possibilità di ledere i diritti di qualcun altro nel tentativo di proteggere sé stessi. Questo comporta anche i fiumi a cui è stata riconosciuta personalità giuridica possono essere citati in giudizio a causa delle inondazioni o di altri danni che potrebbero causare?

Come lei ha detto, i casi sono in aumento. Ci stiamo muovendo in questa direzione?

Il motivo per cui ci si è mossi in questa direzione, almeno secondo me, è che molte persone si sono sentite frustrate dalle nostre leggi ambientali, che sono solitamente antropocentriche. Di solito proteggiamo l'ambiente a beneficio delle persone. Ma qualcosa sta cambiando. Ci sono estinzioni, perdita di biodiversità, perdita di foreste, e non riusciamo a vedere il valore umano in tutto questo. I sostenitori di questo approccio ritengono che solo dando ai fiumi dei diritti saremo in grado di prevenire queste tragedie.
Di conseguenza, c'è un movimento per dare ai fiumi diritti simili a quelli che diamo agli esseri umani. E dico equivalenti, non necessariamente uguali. L'idea sottesa, tuttavia, è che se non riusciamo a proteggere i fiumi attraverso il nostro normale sistema ambientale, forse dovremmo espandere tale sistema in modo da dare loro (ai fiumi) diritti in modo (quasi) uguale.

La maggior parte di questi casi che riguardano i fiumi sono storicamente legati alle comunità indigene?

Quando guardiamo alla legge, di solito la guardiamo da una prospettiva molto occidentale. E facciamo molta fatica a capire cosa significhi un punto di vista "indigeno"; e un punto di vista indigeno non è sufficiente perché ciò che si intende per indigeno in Nuova Zelanda - e quali valori comprende - è molto diverso da quello che si intende in Canada o in Lesotho.
Noi occidentali non siamo cresciuti come parte delle loro comunità. Pertanto, non abbiamo vissuto la "legge" dal loro punto di vista. Quindi, l'idea che un fiume possa essere un'entità vivente per noi può risultare strana. Ma dal loro punto di vista giuridico e culturale, è semplicemente normale. Non voglio scartare la possibilità di riconoscere una personalità giuridica ai fiumi, alle foreste o a qualsiasi altra cosa. Trovo solo che sia molto difficile da comprendere appieno dal mio punto di vista di occidentale.
Tuttavia, voglio cercare di essere comprensivo e di creare spazio per queste prospettive. Forse funzionerà in alcune leggi nazionali. Prendiamo la Nuova Zelanda, per esempio. Se per loro ha funzionato, chi sono io per dire che è sbagliato? La legge deve emergere dalla comunità che la sta sviluppando. Se vogliono essere vincolati da questo tipo di regime giuridico, e fintanto che non è contrario ai diritti umani fondamentali, non c'è alcuna base per dire che è sbagliato. È solo nuovo, unico e forse anche strano. Ma non è sbagliato.

A proposito di scarsità d'acqua, negli Stati Uniti di recente si sono verificati due eventi recenti strettamente legati alla quantità e alla qualità dell'acqua: la California ha trascorso gli ultimi due decenni in quella che gli scienziati definiscono la più estrema "mega-siccità" degli ultimi 1.200 anni; e l'Ohio ha subito le conseguenze del deragliamento di un treno della Norfolk Southern che trasportava sostanze chimiche tossiche, un evento che fornisce indicazioni su quali potrebbero essere gli impatti di un massiccio inquinamento idrico.

Qual è il ruolo della legge nell'affrontare questo tipo di problemi? Abbiamo bisogno di una maggiore governance o dell'attuazione, ad esempio, del principio di prevenzione o del principio non arrecare danni significativi?

Vorrei che avessimo questi principi di prevenzione qui negli Stati Uniti.
Li abbiamo in alcuni aspetti della legge, ma non nelle nostre leggi ambientali, nel nostro diritto dell'acqua, nel nostro regime di proprietà, che sono per lo più basati sull'economia. E anche il nostro regime di proprietà privata si basa in gran parte sull'economia. Gli obblighi di prevenzione e l'approccio precauzionale sono elementi che non si adattano bene al nostro sistema economico capitalistico, che è più miope che lungimirante. Di conseguenza, per noi è più difficile rispondere a problemi come il rischio climatico.
Per quanto riguarda il deragliamento in Ohio e l'esaurimento delle acque sotterranee in California, certo, abbiamo i sistemi di assegnazione dei diritti di prelievo e il Clean Water Act. Ma questi regimi legali sono molto più reattivi che basati sulla prevenzione. I legislatori stanno cercando di trovare dei meccanismi di risposta che permettano al sistema di reagire più velocemente e in modo preventivo, dato che al momento il sistema è piuttosto lento. Alcuni Stati hanno cercato di introdurre forze di mercato, come è stato fatto in Australia, creando un sistema di domanda e offerta per i diritti idrici. È questo il meccanismo o l'approccio appropriato per gli Stati Uniti? Non ne sono ancora sicuro. Penso che sia qualcosa che dobbiamo continuare a testare ed esplorare.

Lei ha parlato di commercializzazione dell'acqua. Il 7 dicembre 2020, attraverso il Nasdaq Veles California Water Index (NQH2O), l'acqua è diventata una merce scambiata sul mercato azionario statunitense…

Checché se ne dica, l'acqua è unica, non ha sostituti ed è fondamentale per la vita, così come l'aria. Le forze di mercato sono state applicate ai nostri regimi di proprietà, alle foreste, all’industria petrolifera e a varie risorse naturali. Ma non ha funzionato così bene con l'acqua. Io stesso mi trovo a metà strada. La privatizzazione completa e il libero mercato senza vincoli non mi piacciono. Tuttavia, non sono d'accordo sul fatto che l'acqua debba essere esclusivamente di dominio pubblico. Penso che ci debba essere una sorta di regime intermedio in cui sia il settore privato che quello pubblico collaborino insieme alla sua gestione e protezione. E non credo che negli Stati Uniti sia stato fatto molto bene.

Quando gli Stati Uniti non avrebbero gestito bene l'acqua, per esempio?

Non eravamo preparati all'enorme siccità che abbiamo ora nell'Ovest americano, né alle recenti e massicce nevicate e ai fiumi atmosferici che hanno colpito quelle stesse aree. Sia il nostro regime giuridico che le nostre infrastrutture non erano preparati a questo. Ad esempio, dobbiamo disporre di riserve idriche che non soffrano di eccessiva evaporazione. Avere un serbatoio nel deserto non ha senso. Ma che dire dello stoccaggio dell'acqua nel sottosuolo, nelle falde acquifere? Dobbiamo essere molto più ponderati e creativi in termini di gestione delle nostre risorse idriche. Devo dire che sono anche un grande sostenitore delle soluzioni basate sulla natura. Per esempio, stiamo ignorando il valore delle falde acquifere come filtri. Ignoriamo il valore delle zone umide e delle paludi di mangrovie. E ignoriamo il modo in cui gli ecosistemi naturali lavorano per produrre più acqua, creare acqua pulita, trattare l'acqua e immagazzinarla. Sembra che cerchiamo sempre di trovare una via d'uscita dalla siccità e dalle alluvioni. E non credo che sia giusto. Dovremmo invece lavorare insieme alla natura.

Qual è il ruolo del settore privato nell'acqua?

Credo che il settore privato e quello pubblico debbano unire le forze, in un mercato regolamentato, per affrontare i problemi dell'acqua. Deve essere un mercato che si occupi delle esigenze domestiche delle persone, che rappresentano una piccola percentuale dell'uso totale dell'acqua rispetto all'uso dell'acqua da parte dell'agricoltura e dell'industria. L'uso domestico dell'acqua può essere facilmente sovvenzionato dagli altri settori, così come dagli utenti del tempo libero, perché si tratta di una percentuale modesta. Un sistema di questo tipo dovrebbe consentire alle aziende di trarre profitto dalla fornitura, dal trattamento e dalla depurazione dell'acqua, sia per le persone che per l'agricoltura o le attività industriali. Ma per le persone, la tariffa deve essere ragionevole. Non può essere un mercato totalmente libero, ma nemmeno un servizio pubblico gratuito. Di conseguenza, il settore privato ha un ruolo importante da svolgere perché il governo non può essere totalmente responsabile dell'acqua. Infatti, abbiamo visto troppi esempi in cui i monopoli governativi dell'acqua sono inefficienti e spreconi. Di conseguenza, è necessaria la collaborazione. Del resto, quando si usa la parola "stakeholder" nel contesto dell'acqua, si intendono tutti i soggetti del settore pubblico e privato.