Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi potrebbero davvero fare una prova, soprattutto se tutti e tre toccano giustizia climatica e ambientale e arrivano nello stesso giorno. Il 29 marzo, il Parlamento Europeo ha chiesto all'unanimità il riconoscimento del reato di ecocidio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato sempre all'unanimità una storica risoluzione che chiede alla Corte internazionale di giustizia di stabilire gli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico (e delle conseguenze legali che i governi devono affrontare in caso di inadempienza) e la Corte europea dei diritti dell’Uomo si è trovata a esaminare, per la prima volta nella sua storia, un caso di climate litigation. Possiamo dirlo, è proprio arrivata la primavera.

Il Parlamento Europeo chiede il riconoscimento del reato di ecocidio

L'Unione europea sta rivedendo la Direttiva 2008/99/CE del 19 novembre 2008 sulla tutela penale dell'ambiente. Così, dopo il voto unanime della Commissione giuridica arrivato la settimana scorsa, mercoledì 29 marzo il Parlamento europeo ha convalidato la sua posizione per includere l'ecocidio, con una definizione solida che ancora manca nel panorama internazionale, nel diritto europeo e riconoscere i reati ambientali in maniera autonoma. I negoziati proseguiranno nel “trilogo” con Commissione e Consiglio, durante il quale ogni Stato membro dovrà esprimere il proprio parere sulla questione. Il testo finale dovrebbe essere adottato entro l'estate.

"Ci sono voluti più di 50 anni di discussioni internazionali perché il tema del riconoscimento dell'ecocidio, cioè dei più gravi crimini contro l'ambiente, fosse messo seriamente sul tavolo. 50 anni durante i quali si sono moltiplicati gli sconvolgimenti climatici, la distruzione della biodiversità, l'inquinamento chimico, l'acidificazione degli oceani, la deforestazione... in breve: gli attacchi mortali agli esseri viventi, il più delle volte nell'impunità dei loro autori”, ha dichiarato Marie Toussaint, eurodeputata, avvocato, fondatrice dell'associazione Our Common Cause e dell'Alleanza Internazionale dei Parlamentari contro l'Ecocidio, reato ambientale che provoca danni gravi e diffusi o danni a lungo termine o irreversibili alla qualità dell'aria, alla qualità del suolo o alla qualità dell'acqua, o alla biodiversità, ai servizi e alle funzioni degli ecosistemi, agli animali o alle piante.

“La diossina in Vietnam, i disastri di Bhopal, Chernobyl e Fukushima, le fuoriuscite di petrolio della Deepwater Horizon e della Prestige, il caso Probo Koala. Questi enormi crimini contro gli ecosistemi e la salute umana non hanno portato a condanne penali proporzionate, ostacolando così qualsiasi ruolo dissuasivo del diritto penale”, continua Touissant, ricordando che il riconoscimento dell'ecocidio è stato posto per la prima volta sul tavolo della comunità internazionale dagli stessi europei, per voce di Olof Palme, primo ministro svedese, nel 1972, in occasione dell'apertura del primo grande vertice internazionale sulla Terra.

Da allora è stato riconosciuto in una decina di Stati dell'ex URSS, a partire dalla Russia e dall'Ucraina, che ora sollecita l'UE a riconoscerlo, nonché in Vietnam, colpito dall'Agente Arancio utilizzato dall'esercito statunitense, una diossina che ancora oggi continua a mietere vittime umane e non. Negli ultimi anni, grazie al lavoro della rete Stop Ecocide, di avvocati e attivisti di tutto il mondo, il tema dell'ecocidio è riemerso.

Se si dovesse concretizzare, ricorda Stop Ecocide International, questo progresso giuridico europeo potrebbe avere forti conseguenze anche a livello internazionale. Infatti, gli Stati membri dell'UE rappresentano il 20% degli Stati parte della Corte penale internazionale; la consacrazione dell'ecocidio nel diritto nazionale potrebbe quindi avere un effetto a catena nella condanna di questo reato a livello globale, introducendo questo reato tra quelli già perseguibili per Statuto dalla Corte penale internazionale, cioè genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressione.

Svizzera di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo

Sempre il 29 marzo, a Strasburgo, la Corte europea dei diritti dell’Uomo è stata chiamata invece per la prima volta a decidere in che misura uno Stato debba ridurre in modo più significativo le proprie emissioni di gas serra per tutelare i diritti umani della propria popolazione. A chiedere l’intervento dei giudici non sono stati under 30 consapevoli di essere l’”ultima generazione”, ma ricorrenti con più del doppio di quell’età. Come ricordato dai ricercatori dell’Università di Zurigo nel Climate right database, il ricorso è stato avanzato nel 2016 dall'organizzazione svizzera "Donne anziane per la protezione del clima Svizzera " (in tedesco: "Verein KlimaSeniorinnen"), che ha avviato un procedimento in merito alle presunte omissioni del governo federale svizzero nell'adottare un'adeguata politica di protezione del clima. Istanze che erano state respinte lungo i tre gradi di giurisdizione nazionali.

L'organizzazione, composta da 2000 soci e socie in tutta la Svizzera con un’età media di 73 anni, sostiene che gli attuali obiettivi e misure nazionali in materia di clima non sono sufficienti a limitare il riscaldamento globale a un livello sicuro. Questa incapacità di prevenire le catastrofi climatiche - motivano le ricorrenti ricordando di essere particolarmente vulnerabili alla crisi climatica perché le ondate di calore, sempre più frequenti e intense, mettono a rischio la loro salute - rappresenta una mancata tutela del godimento dei diritti di cui agli articoli 2 e 8 della CEDU, rispettivamente il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare dei membri dell'organizzazione. Tempistiche per il verdetto? Ancora niente di ufficiale, anche se è probabile che la decisione arrivi nella prima metà del 2024.

Le Nazioni Unite approvano una storica risoluzione sulla giustizia climatica

Nelle stesse ore, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato all'unanimità una storica risoluzione che chiede alla Corte internazionale di giustizia di stabilire gli obblighi delle nazioni per proteggere il clima della terra e le conseguenze legali che devono affrontare se non lo fanno.

La decisione è arrivata a pochi giorni di distanza dall’ultimo rapporto di sintesi IPCC, report che ha ribadito che questo è il decennio critico per l'azione sul clima soprattutto per tutelare coloro che hanno contribuito meno alla crisi climatica e che stanno già affrontando “l'inferno climatico e gli alti livelli delle acque marine”, come le nazioni insulari del Pacifico. Tra queste Vanuatu, arcipelago che si è fatto promotore della bozza di risoluzione approvata col supporto di 105 Paesi, nazioni grandi e piccole, tra cui la maggior parte dell'Europa, l'Australia, il Canada, il Vietnam, la Colombia e il Bangladesh.

"Insieme, state facendo la storia", ha detto il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres , sottolineando che, anche se non vincolante, un parere della Corte internazionale di giustizia "aiuterebbe l'Assemblea generale, l'Onu e gli Stati membri a prendere le decisioni più audaci e un'azione climatica più forte di cui il nostro mondo ha così disperatamente bisogno".

Il potere di un parere consultivo della Corte internazionale di giustizia è quello di creare un precedente che possa influenzare non solo la futura interpretazione del diritto internazionale, ma anche la legge in ogni nazione del mondo. Ed è proprio questo il nesso fra tutti i tre indizi di giustizia di questo 29 marzo: superare l’inazione, anche attraverso dissuasione e repressione, come nel caso dell’ecocidio. Per questo le Assemblee propongono e approvano, e i ricorrenti chiedono. Del resto, tra legge terrena e legge divina c’è una differenza. Non tutto ciò che chiedi ti sarà dato.

Immagine: Envato Elements