L’automobile: un mezzo di trasporto ordinario di cui abbiamo dimenticato la pericolosità. Certo, guidare implica disporre di una patente, ma è diventato un atto quotidiano a tal punto che i suoi rischi, sia quelli legati alla velocità a cui si viaggia, sia quelli correlati all’inquinamento atmosferico (e acustico), sono ampiamente sottovalutati. Lo dimostra uno studio che definisce questo atteggiamento motonormativity: la normalizzazione dell’automobile come mezzo di trasporto primario, se non esclusivo.

Lo studio, dal titolo Motonormativity: How social norms hide a major public health hazard, condotto da tre ricercatori di Swansea University, University of the West of England e Edinburgh Napier University, nel Regno Unito, è disponibile in prepubblicazione sul sito PsyArXiv Preprints. È stato condotto su 2.157 adulti, di cui 1.057 uomini e 1.132 donne, individuati in base a un campione quanto più possibile rappresentativo della popolazione inglese in termini di età, sesso, condizione lavorativa, stato civile e ripartizione regionale.

Il termine motonormatività è stato coniato a partire dal concetto di “eteronormatività”, cioè il pregiudizio delle persone eterosessuali secondo cui il proprio orientamento sessuale, l’eterosessualità, sia l’unico valido, mentre orientamenti diversi dal proprio siano eccezioni da non incoraggiare. Dare per scontata l’esistenza di categorie o abitudini diverse dalle proprie, però, rischia di essere un fattore che marginalizza i gruppi minoritari. Come chi sceglie di non viaggiare in auto.

Il doppio standard per le automobili

Uno dei risultati dei sondaggi condotti è che chi reputa normale viaggiare in automobile tende a considerare l’inquinamento dei gas di scarico un problema non grave quanto quello prodotto da altre fonti. Per esempio, fumare in un luogo affollato è considerato non corretto, ma guidare con un’automobile in un luogo densamente popolato, dove quindi le persone respireranno i gas di scarico, è reputato più accettabile.

Considerare l’auto una normalità implica sottovalutarne i rischi per la salute umana e per l’ambiente, due aree profondamente interconnesse. Sorprende inoltre che secondo lo studio anche persone che non guidano abitualmente abbiano la stessa mentalità dei guidatori. Questo perché viviamo in un mondo dove l’automobile non ha (ancora) rivali. “La motonormatività è profondamente radicata e inconscia”, spiega a Materia Rinnovabile il professore Alan Tapp, uno degli autori dello studio e docente presso la University of the West of England. “Non è una cosa a cui le persone pensano, è qualcosa che presuppongono, perché, guardandosi intorno ogni giorno, questa è la realtà che vedono.”

Secondo lo studio, l’abitudine al possesso dell’automobile ha reso le persone incapaci di ragionare su questo mezzo di trasporto in modo critico e oggettivo. Ciò porta a giustificare alcuni comportamenti illegali di chi guida, come l’eccesso di velocità. Anche perché, come evidenzia lo studio, oggi le persone che vivono in Occidente sono nate e cresciute in un mondo in cui i problemi dell’automobilismo sono la norma: tutti usano l’auto, tutti ne accettano implicitamente i rischi, in termini di salute, sicurezza stradale e inquinamento. Lo studio parla di una “normalizzazione della devianza”, avvenuta gradualmente nel secolo scorso, per cui le automobili sono le indiscusse protagoniste delle strade. Per guardare la questione in modo diverso, aggiunge Tapp, è necessario adottare un’ottica nuova, come quella nata in Germania, secondo cui "le auto sono ospiti nelle strade", non i pedoni.

Complice di questa normalizzazione è anche il marketing. Come ricorda il docente: “I mercati e la pubblicità sono stati molto bravi a impiantare l'idea che la proprietà di un'auto sia un simbolo di successo”. Uno status symbol soprattutto per le generazioni nate negli anni Sessanta, per cui possedere un’auto era normale. Le generazioni più giovani, invece, si pongono più dubbi: in un mondo dove la scienza conferma la responsabilità delle fonti fossili nella crisi climatica, comprare un’auto è davvero una buona idea?

Il ruolo della disinformazione e dei bias

Una delle ipotesi per spiegare i doppi standard dei partecipanti allo studio è quella della cosiddetta ignoranza pluralistica. Singolarmente le persone sono favorevoli all’introduzione di queste norme, ma poiché credono che gli altri non lo siano si conformano a quella che reputano essere l’opinione comune. La loro paura è di saperne meno degli altri e quindi essere nel torto, o di venire marginalizzate in quanto unica eccezione, senza sapere che in realtà la loro vera opinione è più condivisa di quanto pensino.

L’ignoranza pluralistica, secondo Tapp, è dovuta principalmente alla disinformazione presente nei media e a una cultura di negazione dei vantaggi delle politiche progressiste sui trasporti. La disinformazione presente nei media, secondo il professore, è frutto soprattutto della propaganda politica, che la sfrutta anche per fomentare l’ostilità nei confronti della promozione di modelli di mobilità più sostenibili, come quelli relativi alla limitazione della velocità nei centri abitati.

Un esempio italiano è quello delle critiche al modello Città 30  introdotto nel comune di Bologna, che impone agli automobilisti una velocità massima di 30 km/h in tutte le strade urbane, con alcune eccezioni nelle principali vie di scorrimento, dove il limite rimarrà a 50 km/h. L’idea di base è quella di ripensare lo spazio urbano, per azzerare le morti causate da incidenti stradali e mettere al centro la salute delle persone che abitano la città. Misure simili sono state prese anche altrove in Europa, per esempio in Galles, dove da settembre 2023 è in vigore il limite di 20 miglia orarie, che corrispondono circa ai nostri 30 km/h.

La normalizzazione dell’uso delle auto fa sì che a oggi, spiega Tapp, “gli automobilisti non riescono a concepire un altro modo di vivere. Vedono il mondo intero attraverso il parabrezza dell'auto. La loro visione è legata al presupposto profondo che non ci sia un altro modo di spostarsi, non ci sia un modo di viaggiare migliore di quello che hanno.” Le persone sentono, in qualche modo, “minacciata la propria libertà”. Se una persona possiede un’auto tenderà a usarla, e prenderà decisioni su come spostarsi basandosi sull’idea che l’auto è stata un investimento economico ormai concluso. Non terrà conto dei costi della benzina o del parcheggio, perché è tanto abituata all’automobile e all’idea di libertà che essa comporta. L’automobilista pensa di avere il controllo del proprio ambiente, anche quando si trova bloccato nel traffico, senza rendersi conto che anche la sua scelta di guidare ha generato quell’ingorgo in cui egli stesso si trova.

Come combattere la motonormatività?

“Serve una leadership a tutti i livelli dell’ecosistema – risponde Tapp – per disincentivare l’uso dell’auto privata e incentivare l’uso dei mezzi pubblici. Per esempio, si migliorano i treni, gli autobus, si creano percorsi separati per i pedoni e per le biciclette.” Un altro modo per disincentivare la presenza delle auto, secondo Tapp, è quello di impedire o limitare il loro afflusso nei centri delle città, per esempio aumentando i costi dei parcheggi.

“Le persone sopporteranno il cambiamento, abbiamo le prove che funziona. È stato usato nei Paesi Bassi e in Germania, non molto nel Regno Unito né in Italia, credo. Non c'è una soluzione unica che possa funzionare, bisogna fare dei cambiamenti strutturali.” aggiunge il professore. Un esempio è la città di Amsterdam, dove, a partire da un referendum del 1992, sono state introdotte gradualmente restrizioni per i veicoli a motore nel centro città. Oggi, la capitale dei Paesi Bassi è un esempio di sostenibilità, dove muoversi con i mezzi pubblici o con la bicicletta è non solo più economico ma anche più efficiente. Il cambiamento è stato graduale e prosegue ancora oggi, con il progetto Clear Air Action Plan, che prevede l’introduzione di zone a zero emissioni per il 2030. L’obiettivo? Una città più vivibile per tutti.

 

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Immagine: Envato

 

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