“L'analisi dell'insicurezza alimentare acuta condotta dall'IPC nel dicembre 2023 nella Striscia di Gaza ha segnalato il rischio che si verifichi una carestia entro la fine di maggio del 2024, se non si applicasse un'immediata cessazione delle ostilità e se non si garantisse l'accesso alla fornitura di cibo e di servizi essenziali alla popolazione. Da allora, le condizioni necessarie per prevenire la carestia non sono state soddisfatte. E le ultime evidenze confermano che la carestia è imminente nei governatorati settentrionali della Striscia di Gaza.”

Non lascia spazio a molti dubbi l’ultimo report di The Integrated Food Security Phase Classification (IPC), l’iniziativa, nata nel 2004, che unisce i Governi, le agenzie delle Nazioni Unite, le ONG, la società civile e altri attori rilevanti che collaborano per determinare la gravità e l'entità delle situazioni di insicurezza alimentare acuta e cronica e di malnutrizione acuta nei Paesi, secondo standard scientifici riconosciuti a livello internazionale.

Dall'analisi dell’IPC emerge che l'intera popolazione di Gaza è a rischio fame/carestia: il 45% della popolazione della zona settentrionale di Gaza è in fase di emergenza, il 30% in fase catastrofica, mentre nelle aree meridionali il 45% è in fase di emergenza e il 15% in fase catastrofica.

La situazione idrico-sanitaria a Gaza è drammatica

La fame sta diventando un’arma impropria dell’operazione militare dell’esercito israeliano su Gaza, in una forma senza precedenti nei conflitti contemporanei. Ed è l’aspetto più evidente di un impatto impressionante sul territorio e sui 2,3 milioni di abitanti di un lembo di terra grande quanto Las Vegas ma con più di tre volte la sua popolazione, e la cui città più grande, Gaza City, è più densamente popolata di New York City. Macerie, oltre un milione di persone sfollate, collasso sanitario: uno scenario che si è evoluto giorno dopo giorno, in peggio, dall’inizio delle operazioni militari, ma che un rapporto delle Nazioni Unite del 2014 già definiva a rischio entro il 2020, quando sarebbe mancata la soglia minima di accesso alle risorse per essere considerata abitabile dagli esseri umani.

“Nonostante le difficoltà nella raccolta dei dati e gli approcci conservativi negli studi, per cui si utilizza solo ciò che viene validato, il livello di distruzione a Gaza è senza precedenti”. A raccontarlo è Clara Capelli, economista dello sviluppo che vive e lavora in Palestina da oltre dieci anni. “Dei 36 ospedali di Gaza, solo 13 sono parzialmente o minimamente operativi. La situazione a livello idrico-sanitario è drammatica. L’aiuto umanitario (non solo alimentare, ma anche l’ingresso di carburante e medicine) é fortemente osteggiato dalle autorità israeliane. Agenzie internazionali come UNRWA e OCHA e altre lo ripetono e documentano da mesi. Tuttavia, non possiamo prescindere dal fatto che l'aiuto umanitario assolve a una funzione temporanea e non può, specialmente in queste condizioni, fare fronte ai bisogni quotidiani di 2,3 milioni di persone. Per esempio: l'aiuto alimentare fornisce farina, cibo in scatola e confezionato e poco altro, ma a livello nutrizionale questo non può sopperire a una normale dieta che necessita di alimenti freschi che forniscono proteine e verdure. Anche da un punto di vista economico, l'attività di produzione locale deve riprendere per fare fronte alla crisi. Questo rende ancora più necessario un cessate il fuoco, non solo per la distribuzione dell'assistenza ma anche per ridare un ruolo attivo alla popolazione di Gaza nella propria esistenza socio-economica.”

Gli impatti economici e ambientali a lungo termine

Questa fase acuta è sempre più grave, ma anche le conseguenze di medio e lungo termine non sono migliori. “Secondo OCHA, il 60% degli edifici abitativi sono distrutti o danneggiati: circa 1,2 milioni di persone a Gaza non hanno più una casa”, spiega Capelli. “I danni infrastrutturali sono immensi, specialmente nei governatorati di Gaza Nord, Gaza e Khan Younes, dove l’84% di edifici, rete idrica ed elettrica, scuole e università, ospedali e centri medici è distrutto, come il porto di Gaza, servizi municipali in generale e il 62% della rete stradale. La Banca Mondiale ha fornito alcune stime sull'impatto economico dell'escalation del conflitto post 7 Ottobre. È possibile affermare che la distruzione è tale da avere sostanzialmente ridotto l'economia di Gaza a piccole isole di attività, condizionate alla possibilità di muoversi e di rifornirsi. La parola chiave è scarsità: un assedio che dal 9 ottobre si aggiunge al blocco in atto dal 2007, che si somma alle restrizioni imposte da ben prima della crisi con Hamas. Dove c'è scarsità, c'è inflazione: siamo oltre il 30%, secondo stime della Banca mondiale e del Palestinian Central Bureau of Statistics. Chi possiede qualcosa ed è disperato cerca di vendere al più alto prezzo possibile per soddisfare gli altri bisogni. Chi ha posizioni di ricchezza e potere approfitta della situazione per accrescere la propria influenza.”

Quanto questo impatterà sulla ricostruzione è difficile da capire. “La quantità di detriti e macerie è tale da richiedere anni per lo smaltimento ed è impossibile prevedere i danni di medio e lungo termine a livello ambientale per la difficoltà di raccogliere dati e fare analisi”, spiega Capelli. “Non è possibile stimare in maniera accurata il livello di inquinamento e avvelenamento di terreni e falda acquifera, in un contesto che è già gravissimo.

In secondo luogo, la maggior parte dell'economia e delle attività che creano e animano il tessuto sociale di una comunità, a cominciare dall'istruzione di ogni ordine e grado, è da ricostruire praticamente da zero. Produzione di cibo, negozi e mercati per la distribuzione, trasporto, servizi di base. Rimangono isole di attività, ma rifare il sistema richiederà anni e moltissime risorse. In una situazione del genere, la ricostruzione in contesto conflittuale o post guerra favorisce sempre chi ha risorse e potere accumulati in precedenza, per consolidare posizioni di influenza, controllo dell'economia e quindi della società. Indipendentemente da affiliazione e lealtà politica dei notabili che emergeranno o si rafforzeranno, se ci sarà una ricostruzione sarà un processo socioeconomico feroce.”

L’emergenza idrica a Gaza

Per finire, oltre a tutto questo, c’è il tema dell’accesso alle risorse idriche, cronico problema per la popolazione palestinese. Nella Striscia di Gaza l’unica risorsa d’acqua è costituita dalla falda acquifera costiera che risultava insufficiente a rispondere ai bisogni della popolazione già prima del 7 ottobre. A causa del suo eccessivo utilizzo negli anni, la falda ha subìto infiltrazioni dalle vicine acque marine e di scarico, con il risultato che oggi il 90-95% della sua acqua è contaminata e inadatta al consumo umano.

Il blocco al quale è sottoposta la Striscia da 16 anni aveva già limitato l'ingresso di beni e materiali necessari per la manutenzione delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie esistenti e per la costruzione di nuove. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito già un mese dopo l’inizio della guerra che l'intenso sovraffollamento e i sistemi sanitari, idrici e igienici danneggiati e interrotti avrebbero portato a un'emergenza sanitaria.

Gli abitanti sono perciò costretti a comprare acqua da soggetti privati, da oltre 5 mesi a prezzi stellari. La Striscia di Gaza rappresentava già una delle maggiori aree al mondo di stress idrico, con conseguenti problemi igienico-sanitari. E non era ancora arrivata l’ennesima guerra.

 

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Immagine: Emad el Byed, Unsplash

 

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