Nel mondo antico la materia era cosa preziosa. E quando le risorse scarseggiavano, anche meravigliosi marmi scolpiti e bronzi finemente modellati potevano essere sacrificati. Per secoli statue, fregi ed elementi architettonici in marmo sono stati polverizzati per farne calce e nuovo materiale da costruzione. Statue e oggetti in bronzo fusi per sopperire alla carenza di metalli e forgiare nuove armi. Altre opere, invece, sono state rimaneggiate e trasformate in qualcosa di totalmente nuovo. I concetti di “bene” e “tutela” non esistevano ancora, ma quelli di riciclo e riuso sì.

Quelle che oggi rivendichiamo come pratiche innovative già in età antica erano ampiamente utilizzate per reimpiegare in modo utile le materie prime più preziose. E, come è facile immaginare, il bisogno di preservare storia e bellezza spariva di fronte a necessità pratiche o motivazioni ideologiche.
In alcuni casi, però, è stato proprio il riuso a preservare alcune opere, consegnandole ai giorni nostri così come le conosciamo. Oggetti dal grande valore storico-artistico salvati proprio perché sottratti all’usura o all’iconoclastia e reimpiegati in nuovi contesti, con nuove funzioni e significati.

È uno dei tempi intorno a cui ruota Recycling Beauty, la nuova mostra curata da Salvatore Settis, Anna Anguissola e Denise La Monica negli spazi della Fondazione Prada di Milano, centrata sul riuso delle sculture greche e romane in contesti post-antichi.

Il riuso dal mondo romano al post-antico

Capitelli scavati e usati come acquasantiere, altari pagani convertiti in fonti battesimali, architravi e fusti di colonne trasformati in sarcofagi. E poi ancora, stele tombali forate e riutilizzate come tombini, urne intarsiate usate come reliquiari e latrine in marmo rosso di porfido riadattate in regali sedili per l’insediamento dei papi. Sono esempi di come alcune opere del mondo antico siano state riconvertite in oggetti nuovi e, grazie a questo, siano arrivate fino a noi con più di una storia da raccontare.

Dal periodo tardo-antico in poi, riciclare opere d’arte – sia distruggendole per ricavarne materia prima, sia riadattandole – era una prassi consolidata. Non c’è da stupirsi, visto che già nel mondo romano si registrava una grande sensibilità intorno al tema sia del renovare che del riciclare. Come dimostrato da uno studio su Pompei pubblicato nel 2020, infatti, gli antichi romani erano soliti differenziare gli scarti, accumulando oggetti guasti a materiale di risulta in un punto prescelto della città, per poi destinarli a un nuovo uso. Pezzi e cocci vari di ceramica, vetro, anfore, piastrelle e così via, accumulati e poi utilizzati come riempimento per le murature dei nuovi edifici.
Sempre con lo spirito del “non si butta via niente”, fra i romani era diffusa la pratica di “rilavorare i ritratti”. Centinaia di statue e busti raffiguranti personaggi illustri potevano essere letteralmente trasformati in altri personaggi, riscalpellando la foggia dei capelli e i tratti del volto. Anche quando si decretava la damnatio memoriae di un personaggio pubblico, la materia e il lavoro impiegati per realizzare quel ritratto non potevano andare sprecati.

Come la storia ci racconta, dalla caduta dell’Impero fino al pieno Cinquecento, le rovine di Roma e di altre centinaia di città si ridussero nel giro di pochi anni a vere e proprie cave di materiali, elementi architettonici e bellezze urbane da cui attingere. La pratica del riuso, quindi, è stata sia la causa della perdita di una buona fetta di patrimonio di quel periodo, sia la salvezza per una vasta categoria di beni che altrimenti sarebbero andati semplicemente distrutti, fusi o polverizzati.
Oltre a questo chiaro riuso utilitaristico della materia, diffuso per economizzare tempo, lavoro e risorse, individuiamo altre due tipologie di riuso, che potremmo così definire “salvifiche”. Il riuso di prestigio, che teneva conto del valore del materiale dell’opera e delle sue qualità estetiche. Secondo questo criterio, pezzi di opere o di edifici venivano prelevate e poi reinseriti in nuovi contesti con nuove funzioni. E il più noto riuso ideologico, che convertiva lo spirito e il significato stesso di un luogo o un oggetto, votandolo a una nuova causa. È il caso delle centinaia di templi pagani trasformati in chiese.

Riciclare bellezza

La mostra Recycling Beauty, allestita nel Podium e nella Cisterna della Fondazione Prada, celebra una moltitudine di queste storie. Statue, busti, urne, lastre marmoree, fregi, sarcofagi ed elementi decorativi del mondo antico che non hanno avuto una, ma bensì due, tre e a volte anche più vite fino al periodo barocco.
Un percorso che raccoglie oltre una cinquantina di opere provenienti dalle collezioni pubbliche di musei italiani e internazionali come il Musée du Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, i Musei Capitolini, Musei Vaticani e Galleria Borghese di Roma, Gallerie degli Uffizi di Firenze e Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Recycling Beauty non indaga solo il fenomeno del riuso contestualizzato in un periodo storico, ma riflette anche sulla traslazione dei significati,il dialogo fra le culture e la rielaborazione delle idee nel corso dei secoli. E, soprattutto, dirotta il discorso sull’importanza del riciclo in relazione alla scarsità di risorse e ai periodi di crisi, dal mondo antico a quello contemporaneo.

Immagine: Engin Akyurt (Unsplash)