Ovviamente il mare è collegato alla circolarità perché è un elemento essenziale di alcuni cicli fondamentali, da quello dell’acqua a quello del carbonio. Ma questo è un aspetto tecnico che rimanda a conoscenze molto antiche, come quelle scolastiche sull’evaporazione, o molto moderne, come le indagini sui meccanismi che finora hanno consentito di assorbire circa la metà dell’anidride carbonica emessa e che stanno entrando in crisi per colpa del cambiamento climatico.

C’è però un altro aspetto del rapporto tra mare e circolarità che produce un impatto emozionale più immediato e di presa più larga. Basta mettere piede in una spiaggia o concedersi un tuffo per sperimentare in diretta l’invasione di ciò che è poco circolare, degli oggetti indesiderati che prendono il posto dei pesci, dei rifiuti che pensavamo di aver liquidato con un gesto frettoloso e distratto e che tornano prepotenti davanti ai nostri occhi. A partire dalla plastica.

Nell’aprile scorso, sulla Stampa, Mario Tozzi ricordava le isole di plastica, i cinque vortici di dimensioni continentali che contengono ciascuno 7 miliardi di tonnellate di plastica: “Nell’oceano Pacifico, a Kamilo Beach (isole Hawaii), ci sono ormai più frammenti di plastica che granelli di sabbia. Sono soprattutto sacchetti (shopping bag), di cui se ne fabbricano 500 miliardi all’anno (e pensare che nel 1970 nemmeno esistevano), che costituiscono circa il 40% dei rifiuti marini del Mediterraneo”.

Questi fiumi di plastica si frammentano progressivamente fino a confondersi con gli organismi marini e a essere mangiati da pesci e tartarughe che li scambiano per meduse finendo per soffocare. Ormai ci sono 7 rifiuti per ogni metro di spiaggia come risulta dall’indagine “Beach Litter 2017”, condotta da Legambiente ad aprile e maggio di quest’anno in 62 punti del litorale italiano. E oltre l’80% di questi rifiuti è plastica: frammenti di reti, tappi, bottiglie e contenitori, stoviglie usa getta, sacchetti.

Come arginare il fenomeno del marine litter, che costa all’Unione europea 477 milioni di euro l’anno? Le opzioni sono varie e non alternative. Nell’immediato si può pensare a un pronto intervento come quello che ha proposto Castalia, il consorzio che lavora in collaborazione con il ministero dell’Ambiente, lanciando il progetto Sea Sweeper, lo “spazzino del mare”: un sistema di reti di nylon fisse – senza impatto sulla vita acquatica – per intercettare la plastica galleggiante portata dai fiumi (è l’80% di quella che finisce in mare).

Poi ci sono le best practice come gli shopper in plastica compostabile che sono al centro anche di una battaglia per la legalità, come ha sottolineato la campagna #unsaccogiusto – testimonial l’attore di Gomorra Fortunato Cerlino, alias il boss Pietro Savastano – che ha lanciato l’allarme contro le buste taroccate: un fenomeno che comporta una perdita economica netta per la filiera legale dei sacchetti compostabili pari a 160 milioni di euro, oltre a 30 milioni di evasione fiscale a danno dell’intera collettività.

Ma i vari tasselli della proposta vanno poi messi assieme provando a delineare i contorni di una nuova economia basata su attività sostenibili e sull’uso di materiali continuamente recuperati e di origine biologica invece che sull’usa e getta alimentato dai pozzi petroliferi e dalle miniere. È quello che hanno provato a fare due appuntamenti a cui diamo spazio nelle pagine seguenti. Il primo è la conferenza Onu sugli oceani che si è svolta a giugno. Il secondo è BlueMed, l’evento che punta a sbloccare il potenziale del Mediterraneo per la crescita blu. E nella stessa direzione va l’Unione europea con la nuova normativa sull’etichettatura dei pesci descritta nel servizio di Renata Briano sulla piccola pesca artigianale che rispetta i ritmi biologici del mare.

#unsaccogiusto