Ogni anno in Italia si verificano più di 1.000 casi di danni ambientali, ma solo lo 0,45% delle imprese italiane ha attivato una copertura assicurativa di responsabilità ambientale. A evidenziare questo gap di protezione è il rapporto Pool Ambiente 2024 - Riscrivere le priorità per la tutela dell’ambiente e della nostra salute. Un documento di indirizzo prezioso, presentato alla Camera dei Deputati il 27 febbraio scorso, che conferma la diagnosi di cronica penuria ‒ tutta nostrana ‒ di cultura della prevenzione. Secondo i dati del Pool ‒ che per inciso è il consorzio di coriassicurazione nato in risposta al disastro di Seveso del 1979 e centro d’eccellenza nazionale per la gestione dei rischi ambientali ‒ il 73% dei danni all’ambiente potrebbe essere evitato intervenendo su manutenzioni ed errori umani.

Basterebbero “investimenti per poche migliaia di euro” per allargare la distanza tra cause ed effetti. Briciole, se paragonate al costo di interventi d’emergenza e ripristino come le bonifiche, che possono arrivare a costare anche diversi milioni di euro. Somme che per un’organizzazione sono difficili da sostenere senza accantonamenti o coperture adeguate, con dirette conseguenze sui conti pubblici, in caso di insolvenza parziale o totale dell’azienda. Questa seconda linea rappresenta un fallimento che rischia di infangare qualsiasi strategia di responsabilità sociale di impresa, se chi inquina alla fine non paga.

Ma perché non si riesce a cambiare, allora? Come diceva quasi un secolo fa il premio Nobel Alexis Carrel, autore de L'uomo, questo sconosciuto, “l’essere umano è un tutto indivisibile estremamente complicato […]. È anche l'homo economicus, che deve continuamente consumare perché le macchine di cui è schiavo possano produrre”. E forse è proprio qui, nel business as usual, nell’incapacità di vedere un modello diverso e sostenerlo con obblighi e incentivi, la radice profonda della scarsa propensione del nostro sistema industriale alla prevenzione. Materia Rinnovabile ne ha parlato con Lisa Casali, manager di Pool Ambiente.

Lisa Casali

 

Casali, mille casi di danni ambientali ogni anno in Italia, quasi tre al giorno. Come siete arrivati a questa stima?

In Italia manca un dato ufficiale univoco su quanti casi effettivamente si registrano di contaminazione o, più in generale, di deterioramento delle risorse naturali. La nostra stima è frutto di un consulto con ISPRA e dei dati che vengono comunicati dalle singole ARPA. Come consorzio che si occupa di assicurare i rischi di danno all'ambiente per conto di tutte le compagnie aderenti, che rappresentano gran parte del mercato assicurativo e riassicurativo italiano, abbiamo poi un punto di vista privilegiato. In questi 45 anni di attività abbiamo visto migliaia di casi, di vario genere, tutti rientranti nella normativa ambientale. Casi che comportano per il responsabile obblighi di bonifica, di ripristino oppure di risarcimento di terzi danneggiati.

Quali sono le principali sorgenti di danno ambientale?

A prescindere dal fatto che il danno all'ambiente lo faccia una raffineria, un ecocentro o un'azienda alimentare, succedono bene o male le stesse cose. Tra gli otto scenari che abbiamo registrato, quello in assoluto a maggiore frequenza sono le perdite derivanti da elementi interrati, come serbatoi, vasche o condutture. Il dato emerge dai nostri database, ma possiamo dire che questo è un problema molto diffuso e riguarda tutta l'Europa. In Francia, per esempio, c'è un pool molto simile al nostro che conferma tale evidenza.

E cosa determina questa frequenza?

La causa più frequente è la corrosione associata a parti di impianto. La corrosione è un fenomeno assolutamente naturale ma altrettanto prevedibile ed evitabile attraverso manutenzione ordinaria. Con verifiche regolari è possibile determinare se un serbatoio ha un livello di corrosione avanzata e quindi un rischio molto elevato di perdite o cedimenti.

Tra le cause di danno, oltre alla scarsa manutenzione (52%), indicate anche l’errore umano (17,1%). Perché? 

Sì, è la seconda causa più frequente. Errore umano significa manovre sbagliate, errori nell'assemblaggio o a volte anche nella formulazione di prodotti che poi generano reazioni incontrollate. È una componente su cui si può lavorare migliorando o introducendo dispositivi che impediscano di compiere determinati errori, banalmente un'etichettatura con indicazioni chiare. Oppure una formazione regolare continua. Certo non è possibile ridurre a zero la possibilità di errore, ma potrebbe sicuramente ridurne la frequenza.

Quali sono le ragioni alla base della scarsa manutenzione?

Svolgendo una manutenzione regolare agli impianti, anche attraverso una semplice manutenzione ordinaria, si possono prevenire tantissimi casi di danno. Chi ci legge potrebbe chiedersi perché non sia obbligatoria. In realtà non è assolutamente scontato che un'impresa gestisca correttamente i rischi ambientali e che faccia manutenzione agli impianti secondo, magari, le indicazioni del produttore e del suo installatore. La gestione dei rischi di danni all'ambiente nel nostro Paese è assolutamente un gap molto forte che non riguarda solo le PMI ma tutte le imprese, veramente a 360 gradi, anche quelle più strutturate, anche quelle più grandi. E il fatto che le istituzioni non parlino praticamente mai di questo tema contribuisce a far sì che tale tipologia di rischi sia sistematicamente sottovalutata. Ci si pone il problema quando ormai la frittata è fatta. Quando ormai la tubazione si è rotta, il serbatoio comincia a perdere e c'è già una contaminazione in atto. A quel punto ti ritrovi con falde acquifere inquinate e specie distrutte.

Un'altra problematica che cercate di portare all'attenzione in questo rapporto è il fatto che quando poi si concretizza il danno sono pochissime le imprese in grado di ottemperare agli obblighi di bonifica. Leggo: “Solo lo 0,45% delle imprese italiane ha attivato una copertura assicurativa di responsabilità ambientale”.

Se le imprese tendono a sottovalutare questi rischi, non mettono da parte risorse e accantonamenti. Se poi non si ricorre a una copertura assicurativa, quando c’è bisogno di pagare magari 2 milioni di euro di danni per la contaminazione di una falda acquifera, cosa succede? Spesso e volentieri succede che le aziende sono dichiarate in fallimento, le spese rimangono a carico della Regione e poi di conseguenza anche dei contribuenti, dei cittadini. Il punto è questo: in realtà l'azienda, anche con poche centinaia o poche migliaia di euro, può evitare che si determini un evento anche grave, il cui ripristino richiede invece centinaia di migliaia o milioni di euro. Quindi un ordine di grandezza totalmente lontano da quello della manutenzione.

Una vera e propria fuga dal principio “chi inquina paga”?

Alcuni anni fa la Corte dei Conti europea evidenziava in un rapporto che se non facciamo sì che chi ha inquinato abbia le risorse economiche per pagare, il principio resta astratto. E difficilmente sarà applicato anche in Italia, infatti sono rari i casi dove effettivamente chi ha inquinato riesce a sostenere le spese di bonifica.

Passando alle soluzioni, cosa si potrebbe fare per nutrire di prevenzione il tessuto industriale italiano?

Abbiamo contribuito alla redazione della Proposta di legge numero 445 depositata il 4 maggio 2023, la cui prima firmataria è l'onorevole Maria Chiara Gadda. La proposta prevede degli incentivi fiscali. L'abbiamo fatta prima della finanziaria e oggi come oggi, anche grazie al Superbonus, probabilmente ci scordiamo una misura di credito d'imposta per il costo della polizza o a supporto di questi interventi. Sicuramente resta il bisogno di valorizzare il fatto che un'azienda che oggi decide di investire per mettere in sicurezza un vecchio serbatoio interrato deve avere almeno la somma e lo stesso riconoscimento ‒ se non di più ‒ di un'azienda che investe la stessa cifra, per esempio, in un green label o nel packaging ecologico. Altrimenti siamo nel paradosso.

Questo però riguarda gli incentivi. Per quanto riguarda gli obblighi?

Rispetto all’efficacia degli incentivi, come cittadina mi sentirei molto più tranquilla a sapere che le aziende sono sottoposte almeno a un minimo di obblighi. Per cui, per esempio, se un serbatoio mono parete compie più di 15 anni, preferirei sapere che l'azienda è costretta se non altro a fare una verifica o una verifica strutturale o magari a sostituirlo. Per esempio, negli Stati Uniti i serbatoi interrati sopra i 25 anni sono illegali, di qualunque tipologia siano. Sopra i 25 anni vanno sostituiti. In Italia abbiamo tantissimi impianti e anche parchi serbatoi che derivano ancora dal dopoguerra, realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Altro che vent’anni, sono nella terza età.

Cosa ferma l’introduzione di queste politiche?

Come sempre è il settore petrolifero ad aver avuto tantissimo peso, almeno in questi ultimi venti vent'anni, nel fare lobby per evitare che ci fossero norme che dessero fastidio e che costringessero magari anche i gestori di punti carburante a fare controlli e manutenzione. Il risultato è che in Italia non c’è nessun tipo di obbligo.

Il rapporto contiene un decalogo di interventi prioritari. È a tutti gli effetti un documento di indirizzo?

L’idea del rapporto nasce sia per rappresentare le evidenze di cui abbiamo parlato sia per provare a chiedere alle istituzioni un intervento, magari istituendo un tavolo di lavoro anche con le aziende. Con Confindustria sono anni che proviamo a intavolare una discussione su questi temi. C'è molta diffidenza. C’è sempre la paura che poi si vadano a prevedere obblighi e oneri per le “povere imprese”. Ma qui stiamo parlando dell’acqua senza la quale non possiamo sopravvivere o del terreno fertile senza il quale non possiamo coltivare il nostro cibo.

Un'immagine della conferenza stampa di presentazione del rapporto Pool Ambiente 2024

 

Immagini: Espresso Communication

 

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