Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di rating ESG. Perlomeno da quando nel 2006 l’introduzione di fattori ambientali, sociali e di governance nelle analisi finanziare delle imprese venne resa popolare grazie al report delle Nazioni Unite Principles for Responsible Investment.

Da allora la loro notorietà nel contesto internazionale non si è mai fermata. Basta infatti googlare ESG per indicizzare oltre 800 milioni di risultati e scoprire che la frequenza di ricerca del famigerato acronimo è oggi doppia rispetto a gennaio 2021. Numeri che nei fatti potrebbero tuttavia nascondere un senso di confusione generale, visto che secondo varie stime gli standard ESG sono ormai oltre 600. Mentre i mercati stentano a dare un segnale univoco, potrebbe essere arrivato il tempo di una semplificazione?

Rating ESG, sempre più diffusi ma sempre più carenti

Metodologia di valutazione che si affianca al tradizionale profilo di rischio di credito, i rating ESG nascono per rendere visibili agli investitori le performance ambientali (E), sociali (S) e di governance (G) di aziende, emittenti, fondi e Paesi. Allo stesso tempo, oltre a orientare le decisioni d’investimento, per le stesse imprese e organizzazioni valutate i rating servono come cartina di tornasole per verificare la propria capacità di affrontare rischi e opportunità in termini di sostenibilità.

Facce diverse della stessa medaglia, la crescente attenzione dei mercati finanziari e la necessità di autovalutazione hanno quindi spinto la proliferazione dei provider. MSCI, Morningstar, S&P, Moody’s o Refinitiv sono infatti solo alcune delle agenzie più conosciute, ciascuna tuttavia con le proprie metriche. Del resto, come confermato dal report Rate the Raters 2023, oggi “trovare investitori che non utilizzano i prodotti di rating ESG è sempre più difficile”. Quasi il 100% degli investitori intervistati dai ricercatori si affida a questo strumento.

Nonostante l'elevato utilizzo, collocatori e società sono tuttavia frustrati dalle carenze dei rating. A preoccupare sarebbero soprattutto le metodologie “black box” (caratterizzate dall’impossibilità di conoscere il loro funzionamento interno) e l'accuratezza discutibile dei dati. “Il 52% delle aziende e il 59% degli investitori hanno solo una moderata fiducia che i rating ESG riflettano accuratamente le performance ESG”, si legge nel rapporto. L’insoddisfazione passa poi da un altro segnale: gli investitori scelgono sempre più spesso di costruire in house sistemi di analisi e rating ESG, utilizzando i valutatori solo come fornitori di dati. Una tendenza che potrebbe “creare pregiudizi verso i rating ESG”.

Come invertire allora la tendenza? Dal sondaggio emerge che più della metà degli investitori e quasi la metà delle aziende auspicano “una maggiore coerenza e comparabilità tra le metodologie di rating” e “una migliore qualità e divulgazione della metodologia”.

I mercati suggeriscono un’evoluzione

Se è vero che i rating sono cruciali per incentivare le aziende ad agire e a mettere in evidenza le proprie prestazioni ESG agli occhi degli investitori, allora può essere utile guardare alla risposta dei mercati. Dopo i flussi record raggiunti durante la pandemia di Covid-19, anche grazie al rialzo del prezzo del petrolio, l’ESG investing nel 2022 ha iniziato a perdere richiamo. Una rotta invertita dopo due anni soltanto nel quarto trimestre 2023, peraltro non in tutte le piazze.

Secondo Morningstar, a livello globale gli asset dei fondi ESG sono aumentati dell’8% nel quarto trimestre arrivando a quasi 3.000 miliardi di dollari. Dopo mesi di deflussi dovuti ai cambiamenti normativi e un calo delle sottoscrizioni a fine 2023, l’Europa è rimasta comunque capofila (+3,3 miliardi di dollari) nel quarto trimestre; l’opposto negli Stati Uniti, dove gli investitori hanno prelevato 5 miliari di dollari. Per quanto riguarda l’Asia (Giappone escluso), il patrimonio totale dei fondi ESG è salito invece del 5% su base trimestrale, raggiungendo i 61 miliardi di dollari. Soprattutto grazie ai fondi domiciliati a Taiwan.

“Il mio punto di vista sullo stato attuale degli investimenti ESG a livello globale? Guardiamo all'Unione Europea, che si sta attrezzando per il futuro e sta guidando il processo. L'Asia è davvero in ritardo in questo spazio”, commenta a Materia Rinnovabile Carlo Chen-Delantar, Head of ESG presso Gobi Partners, società di venture capital pan-asiatica presente in 15 Paesi con 1,6 miliardi di dollari di asset in gestione. “Penso che in qualsiasi settore l'ESG stia guadagnando molta attrattiva. Ma gli ESG in generale non sono immuni da hype o controversie. Noi continuiamo a credere che l'ESG debba essere il futuro e che debba essere incorporato nelle prassi. Per investitori o una firm come la nostra pensiamo che sia parte integrante del concetto di responsible investing”.

Una spinta per la semplificazione

Prima di aprire ai possibili scenari futuri bisogna ribadire il bisogno di base dei vari attori presenti sul mercato: la chiarezza. Indipendentemente da come si scelga di sciogliere il nodo del se e come procedere a una semplificazione degli oltre 600 standard di rating ESG, è infatti evidente che l’ecosistema del reporting non finanziario sarà tanto più solido – e quindi attrattivo per i capitali e promotore di best practices – quanto più le informazioni saranno coerenti, affidabili, comparabili tra le varie agenzie e aree geografiche. Qualità emerse già nel 2020, quando CDP, Climate Disclosure Standards Board (CDSB), Global Reporting Initiative (GRI), International Integrated Reporting Council (IIRC) e Sustainability Accounting Standards Board (SASB) firmarono una dichiarazione congiunta per ribadire il loro impegno a coinvolgere tutte le parti interessate per ottenere “un sistema di reporting aziendale completo e accettato a livello globale”.

Ciò non significa tuttavia eleggere uno standard unico, ma identificare un minimo comune denominatore nel rispetto di una sorta di principio di neutralità. Del resto, questa è la soluzione seguita dall’International Sustainability Standards Board (ISSB), ente istituito nel 2021 durante la COP26 sotto l’egida della Fondazione IFRS, la stessa a cui fanno capo gli standard di reporting finanziario internazionale. Ma sebbene i primi due IFRS Sustainability Disclosure Standards sul clima siano in vigore dal 1° gennaio 2024, la loro adozione si basa ancora su un regime volontario. Tutto da vedere, insomma. Un punto interessante sul quale soffermarsi, perché la pressione per una armonizzazione potrebbe aprire nuove valvole.

“L'ISSB si concentra sulla singola materialità o sulle informazioni ESG che guidano la valutazione e sono importanti per gli investitori. Questo è anche l'obiettivo della Securities and Exchange Commission (SEC), l’organo federale statunitense di vigilanza dei mercati di borsa, e quindi i mandati sono coerenti”, scrivevano nel febbraio 2022 su Harvard Business Review Bhakti Mirchandani e Robert G. Eccles dell’Università di Oxford. Tuttavia, nella legislazione UE si è già radicato il principio di doppia materialità. Mentre la singola materialità richiede che le aziende rendicontino come i fattori ESG influenzano operazioni e performance finanziarie (direzione outside-in), la doppia materialità richiede anche una valutazione di impatto su ambiente e società (direzione inside-out).

“La Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) dell'Unione Europea ha un mandato più ampio di doppia materialità”, spiegano Mirchandani ed Eccles. Ciò significa che “coprirà le informazioni di interesse per gli stakeholder anche se non sono di interesse per gli investitori. A fare da ponte emerge allora il concetto di materialità dinamica. In questo modo le questioni ESG che oggi non interessano gli investitori possono diventare importanti in futuro”. La materialità diventa così un processo in continua evoluzione: quello che oggi sembra finanziariamente trascurabile può infatti diventare velocemente cruciale per l'impresa domani. Non solo chiarezza, quindi, ma flessibilità.

Scorporare i pilastri dell’ESG?

“L'intera combinazione in un unico score di questi tre fattori, molto diversi tra loro, non ha mai avuto senso”, commenta a Materia Rinnovabile Robert Jenkins, Global Head of Research, Investment & Wealth presso LSEG. Secondo Jenkins non si può incorporare qualitativamente la materialità all'interno di una sola metrica. “Se un'azienda ha un ottimo bilancio ambientale, ma un pessimo bilancio sociale o di governance, finisce in mezzo al gruppo e viceversa. Non è possibile distinguere quale dei due pilastri sia vincente.”

Quale sarebbe la soluzione, allora? “Separiamo i pilastri, sbarazziamoci del termine ESG. Eliminiamo l'idea di cercare di combinarli in un'unica cosa. Comprendiamo che la loro definizione è molto personale e che ci sono alcuni filoni di analisi sottostanti che dobbiamo misurare. E cerchiamo di capire come misurarli”, spiega Jenkins. “In questo modo gli investitori potranno guardare una dashboard con le diverse analisi riguardanti una società, un fondo o un ETF e dire: sì, mi piace quello che rappresenta, non condanna i combustibili fossili, per esempio. Oppure: sto investendo in aziende che stanno attuando una transizione positiva della propria attività e riducendo la propria impronta. In questo modo si può scegliere ciò che si preferisce. Credo che ci stiamo muovendo su questa strada.”

Le ragioni di uno scorporo sarebbero contemporaneamente sostenute dalla necessità di scongiurare accuse di greenwashing e dal sempre più massiccio utilizzo dell’AI in campo finanziario. “Avendo lavorato a lungo nel campo dell'analisi ESG, il problema più grande è la quantità eccessiva di informazioni. Per analizzare davvero se un'azienda sta effettuando una transizione efficace, se lo sta facendo in modo redditizio, sostenibile e minimizzando i rischi è importante combinare metriche non finanziarie tradizionali con metriche tradizionali relative al profitto. Ci sono un sacco di regole per capire come mettere insieme questi diversi set di dati e integrarli in un'unica metrica. E comunque – conclude Jenkins – questo processo è diverso per ogni settore.”

 

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In foto: L.O.V.E. “Libertà. Odio. Vendetta. Eternità.” conosciuta anche come “Il Dito”, statua di Maurizio Cattelan (2010) situata in Piazza Affari di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa di Milano.

 

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