“Vi chiedo di adottare un modo di pensare differente e di essere flessibili.” “Dobbiamo trovare un terreno comune” e intraprendere “una strada che sia abbastanza larga per tutti”, “una via non convenzionale.” “Ora serve pragmatismo.” E per finire, in caso l’idea non fosse stata chiarita a sufficienza, “dobbiamo trovare un modo per garantire l’inclusione del ruolo dei combustibili fossili”.

Hanno ben poco di subliminale i messaggi con cui il Sultano al-Jaber, presidente della COP28, ha condito il 30 novembre il suo discorso di apertura della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite. Il Ministro dell’Industria degli Emirati Arabi nonché CEO della Abu Dhabi National Oil Corporation, come previsto, non può che fare l’avvocato del diavolo e tenere le parti dell’industria Oil&Gas.

Ma se la 28ª Conferenza delle Parti ha già riservato delle sorprese con l'istituzione, ieri 30 novembre, del fondo Loss&Damage, non è detto che alla fine non smentisca anche le catastrofiche aspettative sul fronte phase out dalle fossili. La “COP dei petrolieri”, come da mesi è stata ribattezzata, segna infatti un vero e proprio momento della verità per il comparto del petrolio e del gas: se i governi, come è auspicabile, manterranno i propri impegni nella transizione energetica, la domanda globale di combustibili fossili vedrà un drastico calo a partire dal 2030, compromettendo gravemente le economie dei Paesi che da essi dipendono.

È quello che emerge da due report pubblicati in questi giorni: il rapporto speciale The Oil and Gas Industry in Net Zero Transitions della IEA, uscito una settimana fa, e lo studio Petrostates of Decline del think-tank Carbon Tracker, divulgato proprio questa mattina, venerdì 1 dicembre.

Il declino dei combustibili fossili

“L’industria del petrolio e del gas si trova ad affrontare il momento della verità alla COP28 di Dubai. Con il mondo che soffre gli effetti di una crisi climatica in peggioramento, continuare con il business as usual non è socialmente né ambientalmente responsabile. I produttori di petrolio e gas di tutto il mondo devono prendere decisioni radicali riguardo al loro futuro posto nel settore energetico globale.” Più che come un appello, suonano come un duro monito le parole che Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), ha scelto per introdurre il rapporto speciale The Oil and Gas Industry in Net Zero Transitions.

In oltre 200 pagine di dati e contesto, gli scienziati della IEA delineano gli scenari probabili (e auspicabili) fino al 2050 per quanto riguarda la produzione e il consumo di energia da fonti fossili, facendo il punto sullo stato (pessimo) della transizione verde nel comparto Oil&Gas. Il documento riprende uno studio analogo pubblicato nel gennaio 2020. Da allora, nonostante siano trascorsi poco meno di quattro anni, molte cose sono cambiate: la pandemia e la crisi energetica globale legata al conflitto in Ucraina hanno, di fatto, spinto gli investimenti in rinnovabili che – registra la IEA – sono cresciuti del 40%. E questo significa, secondo le previsioni basate sugli scenari attuali, che il picco delle fossili potrebbe arrivare prima del 2030. Una stima assolutamente inedita che, nota Birol, se non assicura un drastico calo della domanda subito dopo il picco, dovrebbe però mettere in allarme produttori ed economie dei cosiddetti petrostati.

“La scomoda verità con cui l’industria deve fare i conti – scrive il direttore della IEA ‒ è che le transizioni verso l’energia pulita generano una domanda molto più bassa di petrolio e gas, il che significa ridimensionare le attività in ambito oil&gas, non espanderle. Non c'è modo di aggirare la questione.”

Se i governi, si legge nel report, mantenessero pienamente gli attuali impegni nazionali in materia di energia e clima, entro il 2050 la domanda di fossili scenderebbe del 45%. Mentre se l’impegno fosse maggiore, cioè se gli Stati perseguissero l’obiettivo net zero al 2050, come sarebbe necessario per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C, il consumo di petrolio e gas diminuirebbe addirittura del 75%.

 

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La vulnerabilità dei petrostati

Che cosa questo calo della domanda di combustibili fossili significherà per le economie che dipendono quasi totalmente dalle entrate di gas e petrolio, lo spiega bene il report Petrostates of Decline, redatto dal think-tank Carbon Tracker.

Il documento è stato reso pubblico questa mattina, venerdì 1 dicembre, al secondo giorno di lavori della COP28, e si concentra sull’analisi delle economie di 40 Paesi, i cosiddetti petrostati, che entro il 2040 potrebbero vedere le entrate derivanti dall’Oil&Gas ridursi quasi della metà rispetto alle attese. Si parla, in totale, di una riduzione dei ricavi dai 17.000 miliardi di dollari previsti a 9.000 miliardi di dollari. Nell’occhio del ciclone sarebbero in particolare 28 Stati, che perderebbero oltre la metà delle loro entrate previste, fra cui gli stessi Emirati Arabi Uniti che ospitano la COP.

Il report di Carbon Tracker si basa in buona parte sulle previsioni della IEA, registrando tuttavia come l’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) sia di parere diverso, prevedendo al contrario una crescita della domanda di petrolio fino a 116 milioni di barili al giorno entro il 2045. Una narrazione controcorrente che sostiene, purtroppo, i continui investimenti nell’industria petrolifera. Per fare un esempio, proprio la ADNOC, la compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi di cui al-Jaber è il CEO, già decimo produttore mondiale di petrolio e gas, prevede di aumentare ulteriormente ed “enormemente” la produzione. “Una follia che mette a repentaglio il futuro dell’umanità”, hanno commentato gli analisti delle Nazioni Unite. Ma una follia anche su un piano meramente economico, stando alle proiezioni di Carbon Tracker.

L’analisi del think-tank, più che fare nuove previsioni, si concentra infatti sulla vulnerabilità dei Paesi troppo dipendenti dalle entrate derivanti dal settore Oil&Gas, che nel decennio 2030-2040, in uno scenario di “moderata” transizione (con un goal di 1,8°C), potrebbero ritrovarsi in serie difficoltà. Si tratta per la maggior parte di Stati dell’Africa e dell’America Latina in cui spesso c’è anche una situazione politica instabile, il che è una pessima notizia dal punto di vista geopolitico.

Tra quelli più a rischio ci sono proprio gli Emirati Arabi Uniti che, si legge nel report, “fanno affidamento sul petrolio e sul gas per il 40% delle entrate pubbliche, anche se i ricavi della produzione potrebbero essere inferiori del 60% rispetto alle previsioni”. Anche l’Arabia Saudita, il più grande esportatore di petrolio al mondo, si trova in una situazione simile. Ci sono poi “ben sei Stati africani che vedono oltre il 60% del loro bilancio totale a rischio: Nigeria, che ospita 215 milioni di persone, Angola, Ciad, Congo, Guinea Equatoriale e Gabon”. Infine, il già provato Venezuela è uno dei Paesi a maggior rischio: qui “le finanze pubbliche dipendono interamente dalle entrate del petrolio e del gas e queste potrebbero essere inferiori di oltre l'80% rispetto a quanto previsto”.

 

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Oil&Gas, è ora di scegliere da che parte stare

Per sfuggire alla crisi annunciata, a petrolieri e petrostati non resta che prendere sul serio la transizione energetica e cominciare a cambiare rotta.
Gli analisti di Carbon Tracker suggeriscono ai Paesi come prima cosa ‒ abbastanza ovvia per chi non abbia gli occhi coperti di petrolio – di diversificare le proprie economie e investire in nuovi settori.

A tutto il comparto Oil&Gas, sia pubblico che privato, si rivolge invece l’appello/rimprovero della IEA, che sottolinea come un’industria che fornisce attualmente più della metà dell’approvvigionamento energetico globale e impiega quasi 12 milioni di lavoratori in tutto il mondo sia stata finora, “nella migliore delle ipotesi”, una forza marginale nella transizione energetica. “Le compagnie petrolifere e del gas – si legge nel report ‒ rappresentano oggi solo l’1% degli investimenti in energia pulita a livello globale, e il 60% di questi proviene da sole quattro società” (cioè Equinor, TotalEnergies, Shell e BP).

Investimenti molto pompati dal marketing, ma vergognosamente esigui, se si pensa che a fronte di 800 miliardi di dollari attualmente investiti ogni anno in Oil&Gas, il comparto ne investe solo 20, cioè il 2,5%, in energia rinnovabile.

E anche quella che al momento è, per molte aziende dell’Oil&Gas, il fulcro delle loro strategie di presunta sostenibilità e abbattimento delle emissioni, cioè la carbon capture, va decisamente ridimensionata nel suo ruolo. Fatih Birol a questo proposito è piuttosto tranchant: è necessario – dice – “abbandonare l’illusione che la cattura di quantità irrealistiche di carbonio possa essere la soluzione”. La IEA fa proprio i conti: “Limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C richiederebbe la cattura di 32 miliardi di tonnellate di carbonio entro il 2050, una cifra del tutto inconcepibile” visto che “la quantità di elettricità necessaria per alimentare queste tecnologie sarebbe maggiore dell’attuale domanda di elettricità a livello mondiale”.

Archiviata anche questa scappatoia, non resta dunque che un’unica soluzione sensata: cominciare a investire davvero in rinnovabili. Approfittando magari di certi vantaggi tecnologi che l’industria Oil&Gas potrebbe effettivamente avere. Secondo il report IEA, infatti, il settore è già “ben posizionato per potenziare alcune tecnologie cruciali per le transizioni verso l’energia pulita”. Nello scenario di un sistema energetico completamente decarbonizzato nel 2050, circa il 30% dell’energia, secondo IEA, proverrà da tecnologie che potrebbero essere sviluppate anche grazie alle competenze e alle risorse dell’Oil&Gas: ad esempio l’idrogeno, l’energia eolica offshore e i biocarburanti liquidi.

Insomma, per il mondo dell’Oil&Gas è arrivato il momento di scegliere da che parte stare, e sarebbe meglio, anche per una mera questione di tornaconto, che la scelta ricadesse sul lato giusto della Storia. 

 

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Cover photo by UNFCCC, Kiara Worth