Mappati solo in minima parte ed esplorati per meno dell’1% della loro estensione, gli abissi marini sono praticamente un altro pianeta sulla Terra. Profondi canyon, altissime montagne e sconfinate pianure si sviluppano a migliaia di metri sott’acqua, ospitando innumerevoli specie ancora sconosciute. Lontanissimi e ignoti eppure a noi strettamente connessi, gli ecosistemi abissali sono alla base della nostra stessa esistenza. Proteggere il loro delicato equilibrio e il loro patrimonio di biodiversità dagli impatti di attività come lo sfruttamento minerario sarà dunque sempre più fondamentale per la salute e il futuro del pianeta.
Ne abbiamo parlato con Diva Amon, biologa marina fra i massimi esperti di ecosistemi abissali, membro dell’esecutivo della Deep-Ocean Stewardship Initiative e della comunità di scienziati Friends of Ocean Action del World Economic Forum. 

Diva Amon a bordo di un HOV (foto Solvin Zanki)

Cosa sappiamo oggi sugli ecosistemi abissali? A che punto sono le ricerche?

Da oltre un secolo ormai le profondità marine sono oggetto di studio scientifico e le nostre conoscenze sono cresciute in modo esponenziale grazie all’emergere di nuove tecnologie. Tuttavia, l’esplorazione dei fondali abissali è ancora agli inizi. Per fare un esempio, le mappe che abbiamo della Luna, di Marte e di Venere sono molto più accurate rispetto a quelle dei nostri fondali marini, che non sono ancora stati mappati nella loro interezza. Tuttavia, la mappatura non è che l’inizio dell’esplorazione: meno dell’1% delle profondità marine – qualcosa come lo 0,0001% - è stato effettivamente visto da occhio umano o da una telecamera. Non abbiamo idea di cosa viva là sotto. Non conosciamo l’ecologia delle specie abissali e non sappiamo come potrebbero affrontare l’impatto delle attività umane, né ovviamente come mitigare tale impatto. Abbiamo ancora molto da imparare. Sono del tutto sicura che le profondità marine nascondano molte incredibili scoperte ancora da fare, nonché potenzialmente qualche soluzione ad alcune delle più grandi sfide che ancora attendono l’umanità.

Ad esempio?

Le risorse genetiche marine, o MGR: sono preziose per la medicina, i prodotti farmaceutici, i biomateriali e così via. Produciamo già molti medicinali da specie raccolte in acque poco profonde, ma è molto probabile che in futuro ne potremo ricavare ancora di più dalle profondità marine.

Quali tecniche di esplorazione vengono utilizzate oggi?

Utilizziamo una serie di tecnologie diverse, tra cui sistemi di mappatura, reti a strascico e metodi di campionamento molto più sofisticati, come i veicoli a comando remoto o ROV (remotely operated vehicles). Si tratta essenzialmente di robot che inviamo nelle profondità marine; sono collegati alla nave e siamo in grado di controllarli. Questi robot sono i nostri occhi, le nostre orecchie e le nostre mani sul fondo del mare. Inoltre, abbiamo strumenti come i veicoli subacquei autonomi, che sono simili ai veicoli a comando remoto, ma sono completamente staccati dalla nave. Si possono programmare per compiere una missione, che sia la ricerca di determinati segnali chimici o lo scatto di fotografie del fondale marino, ma c’è molto altro che possono fare. E poi, naturalmente, il nostro pezzo forte: i sommergibili o human occupied vehicles (HOV). Son in pratica delle “carrozze” in grado di scendere nelle profondità marine, ma il loro utilizzo è ancora piuttosto raro a livello globale.

Ne ha mai utilizzato uno?

Ne ho guidato più di uno, sì, in più di un’occasione. E lasciatemi dire, è un’esperienza incredibilmente magica. Guardandoti intorno, vedi questi paesaggi marini che sembrano un altro mondo, specie incredibili con comportamenti mai studiati, e spesso, molti di essi sono completamente nuovi per la scienza, e nessuno li ha mai visti prima.

Quanto in profondità è scesa?

Sono arrivata solo a circa 2600 metri di profondità. Dico “solo” perché il punto più profondo dell’oceano è di 11 chilometri, quindi ne ho percorso a malapena un quarto.

Una volta ha detto che potrebbero esserci un Grand Canyon o una catena dell’Himalaya in fondo al mare, e semplicemente non lo sappiamo.

Esattamente! Alcune delle montagne più alte del pianeta si trovano in realtà nell’oceano, ci sono depressioni profonde chilometri. Le formazioni sul fondale marino sono incredibilmente simili a quelle sulla terraferma, ma per certi versi sono ancora più grandi di quelle che conosciamo.

Che tipo di servizi ecosistemici dipendono dagli abissi oceanici?

Il cittadino medio non interagisce con gli abissi marini su base quotidiana, o è convinto di non farlo. Le nostre vite, però, sono intrinsecamente legate a essi e ne traiamo beneficio ogni singolo giorno. Svariati servizi ecosistemici sono forniti dalle profondità del mare per mantenere il pianeta abitabile e consentire a noi e a ogni altra forma di vita di sopravvivere. Come dicevamo, gli abissi forniscono risorse genetiche marine e risorse non viventi, come petrolio e gas. Potrebbero essere una fonte di minerali in futuro ed energia rinnovabile, come l’energia eolica o geotermica. E potenzialmente sono anche fonte di ispirazione per l’innovazione ispirata alla natura, come la biomimetica. Oltre alle cose tangibili, ce ne sono molte altre che non lo sono, come i modi in cui le profondità marine aiutano a regolare il pianeta. Gli ecosistemi abissali sono una componente fondamentale dei cicli biogeochimici, dei cicli degli elementi, dei nutrienti e sostanze chimiche e della regolazione del clima, e l’oceano contribuisce ad assorbire il calore ed è fondamentale per sequestrare e immagazzinare carbonio. Sappiamo anche che svolge un ruolo importantissimo nel garantire le riserve ittiche, da cui dipendono miliardi di persone in tutto il mondo.
Infine, una cosa che spesso si sottovaluta è il valore culturale degli abissi marini. Utilizziamo l’oceano per la ricerca scientifica, ne beneficiamo in termini di educazione, ha un valore di intrattenimento, storico, emotivo e spirituale per molte comunità in tutto il mondo. Quindi sono davvero innumerevoli le cose che ricaviamo dalle profondità marine, non solo il valore intrinseco della loro biodiversità.

A proposito di sfruttamento di risorse, ultimamente si sta parlando molto di deep sea mining. Quali rischi comporterebbe per gli ecosistemi?

Ad oggi sono state concesse 31 licenze per l’esplorazione come fase preliminare dello sfruttamento dei minerali nelle profondità marine. L’utilizzo della tecnologia e dei metodi attualmente proposti potrebbe causare danni significativi a ecosistemi oceanici essenziali, alcuni dei quali sono tra i luoghi più incontaminati del pianeta. E potrebbe farlo su scale enormi, mai viste prima nell’oceano.
Tra i possibili impatti ci sono la rimozione diretta e la distruzione dell’habitat del fondale marino, insieme alla fauna unica che lo abita. Visto che gran parte di questi organismi non è in grado di spostarsi, perché si tratta praticamente di “chiazze” immobili, sono in pericolo specie come coralli, spugne e molte altre.
Il processo di estrazione creerebbe poi pennacchi di sedimenti simili a tempeste di polvere. Ci sarebbero due tipi di pennacchi, uno dal processo di estrazione dal fondale marino e uno dal ritorno delle acque reflue. Questi pennacchi potrebbero estendere l’impronta dell’attività estrattiva potenzialmente per decine o centinaia di chilometri oltre i siti di estrazione veri e propri. Sappiamo anche che il processo estrattivo provocherebbe il rilascio di sostanze contaminanti, nonché un aumento del rumore e della luce che non è mai stato osservato in questi habitat marini molto sensibili. Quindi il deep sea mining causerà essenzialmente perdita di biodiversità e degrado degli ecosistemi, con un possibile impatto su molti dei servizi ecosistemici di cui abbiamo parlato.

L’aspetto particolarmente preoccupante non è solo la scala spaziale (alcune proiezioni per l’area di maggiore interesse prevedono operazioni estrattive su circa 500.000 chilometri quadrati di fondale), ma anche la scala temporale. Nelle profondità marine la vita si sviluppa molto lentamente, e ciò significa che è altamente vulnerabile alle perturbazioni ed estremamente lenta a riprendersi. Quindi, in molti di questi habitat che in futuro potrebbero divenire oggetto di deep sea mining, come le pianure abissali ricoperte di noduli polimetallici della Clarion-Clipperton Zone, la rigenerazione richiederebbe milioni di anni. I noduli polimetallici, oggetto di interesse delle compagnie minerarie, richiedono milioni di anni per formarsi e più del 50% delle specie di queste aree li utilizza come substrato per vivere. La natura del danno comporterebbe una distruzione irreparabile, il che implica che se si commettono errori, l’ecosistema non sarà in grado di riprendersi. Le preoccupazioni per l’avanzamento dell’attività estrattiva sono certamente molte, soprattutto per i tempi molto rapidi che molti vorrebbero.

L’International Seabed Authority (ISA) inizierà (probabilmente) ad accettare le richieste per l’estrazione mineraria su scala industriale nelle acque del Pacifico già nel luglio 2023. Molti Paesi e scienziati chiedono ora una moratoria. Pensa che sia ancora possibile?

Come ha sottolineato anche lei, questo è un anno particolarmente significativo per l’industria mineraria. Quello che possiamo dire con certezza è che l’ISA non dispone ancora delle conoscenze scientifiche necessarie per guidare la gestione delle attività estrattive in acque profonde. Inoltre, i regolamenti di sfruttamento sono ancora incompleti e non è stato stabilito alcun meccanismo finanziario per condividere i benefici dell’estrazione. Si tratta di un aspetto critico, se si considera che i minerali presenti nelle acque internazionali sono un patrimonio comune dell’umanità e dovrebbero andare a beneficio di tutti, comprese le generazioni future. Per mettere a punto questi tre elementi critici e poter poi decidere se l’estrazione possa avvenire proteggendo allo stesso tempo l’ambiente marino, l’opzione migliore è una moratoria o una pausa precauzionale. Ed è ancora assolutamente possibile.
Certo, ormai si tratta di una corsa contro il tempo, ma il movimento cresce: attualmente sono 13 i Paesi che si sono fatti avanti e hanno chiesto una moratoria o una pausa, e la Francia ha addirittura chiesto il divieto totale di deep sea mining. A ciò si aggiungono la società civile e numerose aziende, come Google, BMW, Volvo e Volkswagen, che si impegnano a non utilizzare minerali provenienti dalle profondità marine. E poi ci sono più di 700 esperti e scienziati che hanno chiesto una pausa. Le voci sono davvero tante e sempre più numerose. La domanda è se saranno in grado di crescere abbastanza rapidamente, dato che l’orologio quest’anno continua a ticchettare.

Questa bomba a orologeria è stata innescata dal governo di Nauru, che vuole costringere l’ISA ad accettare le richieste di deep sea mining, anche se non sono stati fissati degli standard, appellandosi alla “regola dei due anni”. Ma perché uno Stato insulare sta spingendo così tanto per avviare l’estrazione in acque profonde?

Nauru ha dichiarato di volere l’estrazione mineraria per diversi motivi. Uno è che possono ottenere i minerali attualmente necessari per la transizione energetica, per combattere la crisi climatica. Ovviamente ci sarebbe un guadagno economico dalla vendita di questi minerali. Tuttavia, vorrei ribattere a questa affermazione dicendo che l’oceano è il nostro più grande alleato per combattere la crisi climatica e il deep sea mining non farà altro che diminuire la sua capacità di aiutarci in questo. In sostanza, lo sfruttamento delle profondità marine per risolvere il problema del cambiamento climatico è come fumare per ridurre lo stress: in definitiva, stiamo facendo un danno a lungo termine per un piccolo guadagno a breve termine.

La società americana Impossible Metals sta attualmente lavorando su tecnologie sostenibili per la raccolta di metalli sui fondali abissali. Pensa che un deep sea miningsostenibile” sia davvero possibile?

In definitiva, dipende da quale sia la definizione di “sostenibile”. A prescindere dalla scala o dal metodo con cui viene effettuata l’estrazione in profondità, ci sarà una perdita di biodiversità e di habitat. Impossible Metals sostiene di poter raccogliere selettivamente i noduli, in modo da lasciare da parte quelli in cui vengono rilevate forme di vita, e di prelevarne solo una certa quantità per garantire la conservazione di gran parte dell’habitat. Se questo è il caso, si tratta certamente di un metodo migliore di quello proposto da molte altre aziende. Tuttavia, non ho ancora visto la tecnologia e, per quanto ne so, l’effettiva sostenibilità non è ancora stata dimostrata. Ma Impossible Metals è solo una delle aziende che stanno pensando di ricorrere al deep sea mining: ce ne sono più di 20, e non stanno pensando di utilizzare questa tecnologia. Quindi, quello che sta per accadere ora è essenzialmente un’espansione rapida e incontrollata di un’estrazione mineraria molto distruttiva in un ecosistema marino profondo quasi incontaminato, e questo a mio avviso non supporta l’uso sostenibile delle risorse naturali negli ecosistemi.

Oltre all’estrazione mineraria, quali altre forme di sfruttamento comportano rischi per gli ecosistemi abissali?

Gli abissi marini sono stati sfruttati dall’uomo per decenni, se non addirittura per secoli. Sono stati utilizzati per scarichi legali e illegali, per l’estrazione di petrolio e gas, per la raccolta di risorse genetiche marine, per la ricerca scientifica e anche, sempre più spesso, per il turismo. Stiamo assistendo a una spinta sempre maggiore verso le profondità marine, con l’emergere di molte nuove industrie. Ci sono anche iniziative per affrontare la crisi climatica, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio o altre forme di geoingegneria, come l’affondamento dei sargassi. Ma quello che stiamo imparando è che, come ho detto in precedenza, gli ecosistemi abissali sono molto fragili e vulnerabili all’impatto dell’uomo, e quindi dobbiamo assicurarci, prima di procedere con qualsiasi forma di sfruttamento, di capire quali potrebbero essere i rischi.

Il Trattato dell’Alto Mare potrà essere uno strumento efficace per proteggere le profondità marine e regolarne lo sfruttamento?

Ritengo che il Trattato dell’Alto Mare sia un’enorme vittoria per l’umanità, grazie agli innumerevoli negoziatori, scienziati e rappresentanti della società civile che hanno lavorato per decenni al suo raggiungimento. Ma, in ultima analisi, il successo e l’efficacia del Trattato dipendono dalla sua implementazione. Al momento, è solo un pezzo di carta. Spero sinceramente che sia un’opportunità da cogliere con entrambe le mani, non solo per gestire efficacemente l’oceano e le sue risorse, ma anche per garantire che i benefici per l’umanità siano condivisi equamente.

Che cos’è la Deep Ocean Stewardship Initiative, di cui lei fa parte, e qual è la sua missione?

Faccio parte dell’esecutivo del DOSI e ne vado molto fiera. Si tratta di una rete globale di esperti che integra numerosi argomenti diversi, dalla scienza alla tecnologia, dalla politica alla legge e all’economia. Forniamo consulenza sulla gestione delle profondità marine e su come mantenere l’integrità dei suoi ecosistemi a livello globale. La nostra missione è utilizzare risultati scientifici indipendenti per sostenere una gestione basata sugli ecosistemi e sviluppare strategie e soluzioni per gli abissi marini per il futuro.

I decisori politici vi ascoltano?

È quello che vogliamo, idealmente! Facciamo del nostro meglio per portare la scienza occidentale in molti di questi grandi negoziati sugli oceani e sul clima, al fine di garantire che le profondità marine siano incluse in queste conversazioni. A volte ci riusciamo. Abbiamo lavorato molto per il Trattato sull’Alto Mare, per le COP sul clima, con l’ISA e per vari negoziati sulla pesca. Ma spesso è molto difficile perché la scienza, la politica e la comunicazione operano con linguaggi completamente diversi. Il nostro obiettivo è quindi quello di lavorare in modo collaborativo e paziente, costruendo relazioni durature. Perché, in ultima analisi, abbiamo bisogno di scienza, comunicazione e politica: sono tutte chiavi per creare un cambiamento positivo per gli oceani.

Immagine in apertura: Diva Amon (Novus Select_bioGraphic)

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