Innovazione, creatività, cooperazione, visione: le città sono da sempre il luogo in cui ha inizio il cambiamento e si costruisce il futuro. Anche la strada tracciata dal Green Deal europeo, quindi, non può che partire dal contesto urbano.
È di questo che si è discusso nel quinto Cities Forum della Commissione europea, che il 16 e 17 marzo scorsi ha scelto come location una città italiana famosa per i suoi cambiamenti: Torino.
L’evento, occasione per il lancio della nuova European Urban Initiative (EUI), ha riunito un migliaio di delegati, rappresentanti della società civile, ricercatori, studenti, sindaci e amministratori per discutere di sviluppo urbano sostenibile e di come sfruttare al meglio nella prossima decade gli strumenti legislativi e finanziari messi a disposizione dall’Unione europea per un futuro verde, resiliente e inclusivo.
Materia Rinnovabile, presente al Forum, ne ha parlato con Hans Bruyninckx, direttore esecutivo della European Environment Agency.

Come probabilmente saprà, Torino ha il triste primato di città italiana con la peggiore qualità dell’aria. Secondo un recente report della EEA, tuttavia, è il 96% della popolazione urbana dell’Unione europea ad essere esposto a livelli di particolato che superano il limite stabilito dall’OMS. Sono numeri spaventosi. Cosa significano per la qualità della vita?

In effetti, guardando a tutto il territorio europeo, le zone più problematiche si trovano nell'Europa centro-orientale, come ad esempio i distretti industriali belgi nella Renania Settentrionale-Vestfalia, e, appunto, la Pianura Padana, dove sono soprattutto i livelli di particolato finissimo, o PM 2,5, ad avere un grave impatto sulla salute umana.
Nel nostro report abbiamo utilizzato la metodologia condivisa con l'Organizzazione Mondiale della Sanità per calcolare le morti premature: più di 300.000 persone in Europa muoiono prematuramente ogni anno a causa della cattiva qualità dell'aria. È un numero scioccante, ma il problema è ancora più esteso. Vanno considerati anche gli anni di vita in buona salute che si perdono, tutte le persone che soffrono di malattie polmonari e respiratorie, il numero di bambini che convivono con queste patologie, gli anziani che sono più vulnerabili all’inquinamento atmosferico. O anche le persone che hanno subito un trapianto di organi e che, se vivono in un ambiente con un forte inquinamento atmosferico, hanno un tasso di sopravvivenza inferiore.

Si parla anche di impatti sulla salute mentale e sui livelli di stress.

SÌ, principalmente perché i luoghi con una cattiva qualità dell'aria presentano spesso anche altre forme di inquinamento, come quello acustico e luminoso, e questo si traduce in molteplici pressioni sulla nostra salute, compreso il benessere mentale.

Quali strategie sono dunque state adottate a livello europeo?

È chiaro che la situazione è inaccettabile. Ma allo stesso tempo in Europa, dietro la spinta della legislazione, abbiamo assistito a continui miglioramenti, anche se non per tutti i parametri: i miglioramenti dei livelli di PM 2,5 e di ozono troposferico, ad esempio, sono ancora troppo lenti. Lo Zero Pollution Action Plan, che ha l’obiettivo di ridurre l'inquinamento a livelli non più dannosi per la salute umana e per l'ambiente, ha fissato target concreti per il 2030 e oltre. Inoltre è stata di recente presentata una proposta di revisione della direttiva Qualità dell'aria ambiente, che allineerà gradualmente gli standard europei a quelli dell'OMS. 
Bisogna poi considerare altre parti dell'agenda europea. Ad esempio il passaggio a una  mobilità sempre più sostenibile ed elettrica avrà un effetto positivo sulla qualità dell'aria, la transizione energetica e le politiche di efficienza contribuiranno ad alleggerire gli impatti, così come la direttiva sulle Emissioni industriali (IED) che stabilisce standard sempre più severi. Tutti questi interventi dovrebbero nel tempo fa diminuire le fonti di inquinamento atmosferico fino a livelli che non rappresentino più una minaccia immediata per la salute umana.
È necessario, inoltre, considerare la dimensione sociale del problema. Gli impatti dell’inquinamento non sono infatti “distribuiti” equamente a tutti livelli della società. Ci sono soggetti più vulnerabili, come le persone anziane, quelle con patologie croniche, ma anche i bambini piccoli che stanno ancora sviluppando i loro organi. E poi ci sono le persone ai livelli più bassi della scala del reddito, che ovviamente non abitano sulle colline intorno a Torino, ma vivono nei pressi di zone industriali, lontane da aree naturali. Come Agenzia europea per l’Ambiente ci occupiamo anche di questa dimensione sociale e infatti tra un paio di mesi pubblicheremo un atlante online che combina una serie di dati sui fattori di inquinamento, la salute, le aree verdi e la distribuzione sociale. Chiunque potrà controllare, ad esempio, la qualità dell’aria nel luogo in cui vive o altri fattori inquinanti e individuare l’area verde più vicina.

Anche proteggere e ripristinare la biodiversità, che è uno degli obiettivi del Green Deal, può aiutare a rendere le città luoghi più sani e resilienti in cui vivere.

Si assolutamente. Soprattutto nelle aree urbane, penso che le persone stiano finalmente cominciando a capire che la natura e la biodiversità non sono solo una prerogativa delle aree protette, della campagna o della montagna. Riguardano anche la città. Non solo c’è una maggiore comprensione del ruolo della biodiversità urbana, ma anche dei suoi vantaggi concreti: parchi e alberi in città migliorano la qualità dell'aria, contribuiscono alla resilienza climatica e mitigano l’effetto isola di calore, e funzionano inoltre molto bene come luoghi per la socialità.
Combinando il verde con l’elemento blu, cioè i punti di acqua pubblica, si può migliorare moltissimo la qualità della vita in città. Mi stupisce che non ci siano più sindaci e amministrazioni cittadine che si concentrano su questi aspetti nella pianificazione urbana, visto che si tratta di interventi relativamente a basso costo e che non richiedono grandi opere infrastrutturali. Quello che serve è un diverso approccio urbanistico: dare spazio al verde e al blu, piuttosto che a parcheggi e spazi cementificati, spesso non è molto dispendioso, ma richiede un pensiero diverso e un po' di coraggio. Appena tocchi i posti auto la gente si lamenta, ma una volta fatto, poi lo apprezza. È una sorta di blocco mentale che dobbiamo superare. Ci sono fantastici esempi di città che hanno trasformato gli spazi pubblici in spazi verdi, città che stanno puntando sui cosiddetti micro-parchi: si prende la mappa e si fa in modo che tutti abbiano anche solo un piccolo spazio verde a non più di 200 o 300 metri di distanza. Sappiamo da alcune ricerche che anche un solo grande albero in un quartiere ha un impatto positivo su ogni aspetto della vita.

Un esempio di città che ha adottato questo approccio?

Cracovia, in Polonia, che è un’altra città con una pessima qualità dell’aria. Ma hanno un piano per i micro-parchi, specialmente per i quartieri dove gli abitanti hanno meno accesso a spazi verdi. E fra le ragioni di questa iniziativa c’è anche l’adattamento climatico.

Cosa fa l’Unione europea per promuovere e supportare questo genere di iniziative?

L'Europa sta facendo diverse cose. Innanzitutto c'è, ovviamente, il programma LIFE, che agevola i finanziamenti anche nelle aree urbane. In secondo luogo, ci sono i fondi della DG REGIO per l'integrazione regionale, che ha un'agenda importante anche per le città e si concentra sempre più sulla sostenibilità declinata nella dimensione del verde. Infine, abbiamo oggi una migliore conoscenza, e anche meglio condivisa, sull'adattamento climatico delle città e sul verde urbano. Quindi, amministrazioni e sindaci non hanno più scuse: hanno le conoscenze, i finanziamenti e le buone pratiche a cui fare riferimento. È tutto a portata di mano.

Come EEA state monitorando il miglioramento delle città nell'adattamento climatico e nella resilienza?

Sì, abbiamo un sito web dedicato - Climate Adapt - che gestiamo, ma in realtà è una collaborazione con la Commissione europea e la sua DG CLIMA e anche con altri partner come il Joint Research Centre, il Patto dei sindaci e altri. Ci sono molte informazioni sul sito e abbiamo realizzato con l'Agenzia un'intera serie di rapporti sulla resilienza urbana, l'adattamento, le città sostenibili, i green building.

A proposto di green building, gli edifici, insieme alla mobilità, sono responsabili della maggior parte delle emissioni di carbonio delle città europee. La loro riqualificazione e progettazione sostenibile saranno cruciali sia per adattarsi ai cambiamenti climatici sia per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione dell'UE.

Sì, ci sono diversi livelli da considerare. Per prima cosa il patrimonio edilizio esistente, che in molti Paesi necessita di ristrutturazione, motivo per cui l'Europa parla di una renovation wave nell'ambito del Green Deal. Riqualificazione può significare isolamento termico, sistemi di riscaldamento e climatizzazione più efficienti, migliori infissi. Può anche significare de-impermeabilizzare il suolo intorno alle case, perché di solito si tratta di superfici cementificate, mentre un giardino potrebbe rendere l'area più resiliente al clima. Ci sono molti interventi che si potrebbero fare sugli edifici esistenti, ma non è semplice perché ovviamente le persone ci abitano e perché occorrono molti soldi che le fasce più povere non possono permettersi. Perciò darei la priorità alla riqualificazione sostenibile dell'edilizia sociale, visto che in genere sono proprio le persone che non possono permettersi i lavori di ristrutturazione quelle che trarrebbero i maggiori benefici da edifici meno energivori e più salubri.
Ci sono poi interventi che si possono realizzare a livello collettivo, come i sistemi di teleriscaldamento. Ad esempio, a Copenaghen si sfrutta il calore generato dagli inceneritori per riscaldare la città, immettendolo in un sistema di tubazioni con acqua calda. Non sto ovviamente promuovendo la pratica dell’incenerimento dei rifiuti, ma realisticamente se quel calore viene prodotto, è meglio sfruttarlo in qualche modo. In alcune città, come Gent in Belgio, si utilizza invece il calore degli stabilimenti industriali per alimentare il sistema di teleriscaldamento, e in altre ancora si usa l'energia geotermica.

Poi c’è la progettazione dei nuovi edifici...

Anche in questo caso, non ci sono più scuse per non progettare edifici che siano completamente, o quasi, climate neutral. La tecnologia c'è e dovrebbe diventare la norma, perché è ciò che ci richiede il futuro. Non si tratta tuttavia solo di approntare nuovi codici edilizi, ma anche di formare e riqualificare i lavoratori, e di fornire i giusti incentivi per realizzare i progetti. Soprattutto nelle città che sono ancora in pieno sviluppo edilizio, come Copenaghen, che sta crescendo piuttosto velocemente.
Tuttavia, è un’idea integrata di città sostenibile che dovrebbe fare da linea guida per questi interventi. Non si tratta solo di progettare o ristrutturare edifici e condomini. Città sostenibile significa accesso ai trasporti pubblici, significa un modello di “Città a 15 minuti”, cioè una città che cammina e non che guida un’automobile, con scuole, uffici pubblici, strutture sanitarie, piccoli supermercati, tutti raggiungibili a piedi. È un aspetto davvero fondamentale se vogliamo uno sviluppo urbano davvero orientato al futuro. E anche in questo caso non mancano certo le conoscenze.

Smart city, green city, circular city, città dei 15 minuti… Guardando al prossimo futuro, quale sarà la sfida più grande per un nuovo modello di città?

L’integrazione. Penso che la città sia per definizione un luogo dove non si può fare altro che integrare tutti questi elementi: la dimensione sociale, la dimensione climatica, quella della natura, la dimensione educativa. Il contesto urbano si può guardare attraverso varie lenti, ma alla fine è una città, di cui la green city o la circular city sono solo diverse facce, non separabili dalle altre. È una realtà dinamica, che ha dei problemi, ma che di solito è anche piena di creatività e innovazione.
Quello che penso sia davvero fondamentale quando si guarda al Green Deal e ai suoi obiettivi - ambiente, clima, biodiversità - è la dimensione socio-economica. Se non troviamo modi per essere più inclusivi, non solo per parlare alle persone ma anche per lavorare con le persone, allora non penso che funzionerà. Spesso ci viene chiesto di dare spiegazioni chiare ai cittadini. Sì è importante, ma oltre che parlare ai cittadini, dovremmo parlare con i cittadini. È una cosa molto diversa.
Faccio un esempio, La città di Anversa, in Belgio, ha collaborato con le università e alcuni gruppi della società civile per un progetto chiamato Curious Noses. Sono stati installati un migliaio di dispositivi di monitoraggio in città e i cittadini nelle loro case potevano misurare la qualità dell'aria. Prima Anversa aveva solo una manciata di stazioni di monitoraggio ufficiali, ma ora ha mille punti di raccolta dati che hanno consentito di mappare l’inquinamento atmosferico in città e collegarlo alla mobilità, al traffico, al verde urbano, ecc. I risultati del progetto sono stati presentati in un grande teatro, mostrati su un maxischermo e commentati da scienziati e cittadini, si è creato un dibattito, uno scambio. Questa è citizen science.
Ciò di cui abbiamo bisogno è considerare la città come un luogo vivace, in cui è possibile coinvolgere direttamente le persone nel trovare soluzioni ai problemi che le riguardano. Ci si rivolge troppo spesso ai cittadini solo come consumatori. Certo, consumiamo tutti, ma non siamo consumatori, siamo cittadini.

Dovremmo tornare al concetto di Polis greca?

Esattamente. Politeia significa cittadinanza ed è di questo che si occupa la politica. Di come interagisci, ispiri e governi questo luogo che ora chiamiamo città. Credo che oggi non si presti abbastanza attenzione a questo aspetto. Ma è solo con il coinvolgimento delle città come contesto integrato che possiamo raggiungere gli obiettivi del Green Deal.

Immagine: Torino, Lungo Po (ph Andreas Patsalides Unsplash)