Negli ultimi anni, l'inquinamento dovuto alle microplastiche ha assunto una rilevanza crescente nel dibattito ambientale globale. Le microplastiche sono minuscole particelle, con dimensioni inferiori a un millimetro, derivanti dalla degradazione di materiali plastici più grandi. Questi inquinanti emergenti si sono ormai insinuati in ogni angolo del nostro pianeta, dai fondali oceanici alle cime montuose.

Nel 2022, gli scienziati dell'Università di Utrecht hanno rilevato tracce di microplastiche persino in campioni di ghiaccio prelevati dai circoli polari Artico e Antartico. Di recente, uno studio condotto dall'Università degli Studi di Milano in collaborazione con Greenpeace Italia ha invece rivelato una nuova frontiera tutta europea di questa contaminazione: i ghiacciai alpini.

Le microplastiche nei ghiacciai alpini

Sostenuta da Ortovox, azienda specializzata in attrezzatura tecnica per le attività alpine, la ricerca ha evidenziato la presenza di microplastiche nell'80% dei campioni prelevati sul Ghiacciaio dei Forni e nel 60% di quelli dal Ghiacciaio del Miage, due dei più importanti ed estesi ghiacciai dell’arco alpino, tra Lombardia e Valle d’Aosta. Dati che sollevano preoccupazioni per l'ambiente e per le comunità che dipendono da queste preziose riserve d'acqua.

L’analisi sulla presenza di microplastiche nei ghiacciai dei Forni e del Miage è stata possibile grazie ai campioni raccolti durante l'estate 2023 da Greenpeace Italia. I campioni sono stati analizzati con il sostegno del Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano e del Dipartimento per lo sviluppo sostenibile e la transizione ecologica (DiSSTE) dell’Università del Piemonte Orientale. “Le analisi confermano che la contaminazione da microplastiche è ormai ubiquitaria e ampiamente diffusa anche sui ghiacciai italiani”, afferma Marco Parolini, docente di ecologia presso il Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano.

Tra le microplastiche individuate le fibre rappresentano oltre il 70% dell’impronta di contaminazione. Nello specifico, il cellophane è il polimero prevalente (55%), seguito dal polietilene-polipropilene (35%) e dal nylon (10%). “Questa evidenza risulta particolarmente importante in un periodo storico in cui l’aumento delle temperature globali può determinare il rilascio di inquinanti immobilizzati all’interno dei ghiacciai in fusione, contribuendo a contaminare gli ecosistemi acquatici e terrestri che si trovano a valle”, conclude Parolini.

Attività di campionatura sul Ghiacciaio dei Forni. Foto: Ortovox

Le cause dell’inquinamento da microplastiche

Il monitoraggio ha inoltre permesso di ipotizzare le possibili cause e fonti dell’inquinamento da microplastiche. Le attività turistiche e alpinistiche, comprese la presenza di impianti sciistici e di risalita, potrebbero costituire una delle principali fonti di contaminazione locale da plastica. La maggior parte dell’attrezzatura e dell’equipaggiamento tecnico da montagna è infatti realizzata in polimeri plastici e potrebbe contribuire al rilascio di fibre e frammenti.

“Tra le fonti dell’inquinamento si aggiungono degradazione e frammentazione di rifiuti plastici di grandi dimensioni abbandonati sui ghiacciai, come gli imballaggi alimentari”, si legge in un comunicato. Studi recenti hanno inoltre confermato che le microplastiche possono raggiungere gli ecosistemi glaciali trasportate dalle correnti atmosferiche.

Attività di campionatura sul Ghiacciaio dei Forni. Foto: Ortovox

L’impegno di Ortovox

Nell’ultimo secolo i ghiacciai delle Alpi hanno perso oltre il 50% della propria estensione, e di questa metà circa il 70% è andato perduto negli ultimi 30 anni. Le proiezioni basate sugli scenari climatici suggeriscono inoltre che entro il 2060 fino all’80% della superficie dei ghiacciai italiani alpini sarà scomparsa. È questa consapevolezza ad aver spinto l’azienda dell’outdoor Ortovox a supportare i ricercatori, fornendo materiale e abbigliamento tecnico per le loro attività. Come racconta a Materia Rinnovabile Stefano Finazzi, CEO Schwan-STABILO Outdoor Italia, società distributrice di Ortovox nel nostro paese, l’azienda non si è limitata ad adottare un approccio basato sul rischio e a monitorare il rispetto della Guida alla Gestione e Conformità Chimica, imposta ai propri fornitori.

“Stiamo cercando di abbandonare completamente il riciclo da PET, cioè l'utilizzo di fibre derivanti da materiali riciclati ad esempio dalle bottigliette di plastica. Il grande problema dell’outdoor, ma in generale di fashion e abbigliamento, è che si ricicla circa l’1% dei capi. Essendo miste, dal punto di vista dell’efficienza le fibre portano delle difficoltà nella creazione di una filiera di riciclo. È questo uno dei motivi per cui noi abbiamo sempre puntato alla lana. Certo, anche noi usiamo un mix con altre fibre, ma cerchiamo di fare prodotti molto puri, vicino al 100% di lana. In questo modo abbiamo la potenzialità di riciclarla totalmente.”

La lana merino di Ortovox. Foto di Sarah Rhodes

 

Immagine di copertina: Eberhard Grossgasteiger, Unsplash

 

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