La COP30 si è chiusa senza definire una roadmap per la gestione delle foreste globali e senza notizie di rilievo sul fronte della finanza climatica, in particolare relativamente ai mercati del carbonio. Questo stallo ha riguardato soprattutto la finalizzazione delle regole operative per l'Articolo 6 dell'Accordo di Parigi.

Alla mancanza di ambizione globale si affianca però fortunatamente l’iniziativa di molte imprese che guardano con interesse a progetti integrati di riforestazione caratterizzati dal triplice scopo di mitigazione-adattamento-biodiversità, oltre che a strumenti innovativi di compensazione laddove l’innovazione e la pianificazione ancora non riescono a incidere a fondo nel processo di decarbonizzazione.

Abbiamo discusso di come progetti di rigenerazione e carbon market stanno evolvendo con Paolo Viganò, fondatore di Rete Clima, per capire quali saranno le tendenze nel 2026 del mercato. In attesa di tempi migliori per il multilateralismo ambientale della COP.

 

Cosa ci portiamo a casa di positivo da COP30?

Uno degli annunci più importanti è il Tropical Forest Forever Facility, il fondo da 25 miliardi di dollari per la tutela forestale lanciato dal governo brasiliano a COP30, insieme al suo meccanismo “payment-for-performance” che utilizza standard e sistemi concordati di monitoraggio satellitare per ricompensare i paesi che promuovono la conservazione delle proprie foreste. L’elemento interessante è il fatto che almeno il 20% dei finanziamenti dovrà essere dedicato alle comunità indigene e locali: è un messaggio importante che ribadisce la necessità di un impatto sociale condiviso dei progetti forestali, come già capita spesso rispetto ai “co-benefici” dei progetti di carbon offsetting. Questo approccio è fondamentale per garantire la sostenibilità a lungo termine e l'equità sociale dei progetti ambientali (i cosiddetti co-benefici, appunto, o SDGs del progetto), superando la mera contabilità del carbonio. Ci si attende peraltro che sempre di più le aziende e i governi cercheranno progetti di rigenerazione con co-benefici socio-ambientali.

Pensi che il Tropical Forest Forver Fund funzionerà come grande progetto di rimozione della CO2 dall’atmosfera?

Il Brasile detiene la gran parte della foresta amazzonica per cui sicuramente si potranno sviluppare tantissimi progetti e già tanti ne sono stati fatti. Alcune realtà brasiliane hanno però mostrato alcuni limiti nella gestione di questi progetti, con particolare riferimento a episodi (circoscritti) di limitata trasparenza di alcuni progetti: alcuni di questi sono stati anche sospesi, segno che comunque il sistema di monitoraggio periodico dei progetti è funzionante e valido rispetto all’eliminazione dal sistema di alcuni limiti. L’efficace inclusione delle comunità locali dovrebbe costituire un ulteriore meccanismo di salvaguardia delle foreste proprio grazie al ruolo attivo che le comunità potrebbero avere nella tutela delle proprie foreste, in una logica di conservazione forestale come fonte di lavoro e di reddito.

Riforestazione e rafforzamento della biodiversità a Belém sono state incluse negli indicatori per l’adattamento. Che ruolo possono avere?

Come abbiamo raccontato con il nostro progetto Bioforest, serve sviluppare progetti che siano pensati in maniera integrata, per poter promuovere contemporaneamente adattamento climatico (contribuendo così a ridurre gli impatti e i danni del climate change), mitigazione (promuovendo ecosistemi sani in grado di assorbire CO2) e tutela della biodiversità (che a sua volta garantisce la salute degli ecosistemi), in un circolo virtuoso di impatti positivi. Le foreste devono essere sempre più viste per il loro ruolo multifunzionale, cioè ecosistemi in grado di portare resilienza ai territori, di ospitare biodiversità, di mitigare gli impatti meteorologici del clima mutato, di offrire spazi di benessere e salute.

Poca l’attenzione ancora sui carbon market, con i negoziati che hanno fatto pochi progressi sull’implementazione dell’Articolo 6 dell'Accordo di Parigi.

Una buona notizia è arrivata prima della COP dalla collaborazione tra GHG Protocol e ISO per la costruzione di un framework metodologico condiviso per il calcolo delle emissioni di CO2. È importante dire che però non basta calcolare l’impronta carbonica. È un passo certamente importante, ma serve lavorare − a livello aziendale − su quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo di Belém, cioè la decarbonizzazione. Ci sono ancora troppe realtà che fanno accounting della carbon footprint e pospongono la realizzazione di progetti di riduzione. L’azione climatica è urgente e il miglioramento delle performance climatiche delle organizzazioni deve essere altrettanto urgente: serve peraltro un confronto tecnico franco e onesto in merito al tema del carbon market, dei crediti di carbonio volontari, delle azioni di offsetting e di insetting.

Cosa è, e quanto è importante oggi, il carbon insetting?

Quando si parla di carbon insetting si fa riferimento a una strategia e a un piano di gestione delle emissioni di gas serra all’interno della filiera produttiva aziendale, la cosiddetta “value chain” dell’azienda: il piano si attua attraverso soluzioni di carbon avoidance (prevenzione di future emissioni, quindi riduzioni in filiera) e/o di carbon removal (rimozione e sequestro della CO2 dall’atmosfera tramite NBS, Natura Based Solutions) nell’ambito dei fornitori e dei territori coinvolti nell’approvvigionamento delle materie prime per la produzione. Il carbon insetting è una pratica meno normata a livello tecnico rispetto a quanto non sia il carbon offsetting, che è invece stato da tempo oggetto di numerosi standard tecnici, metodologie, registri. Oggi è però utile che una terza parte possa intervenire a validare i risultati di riduzione/assorbimento carbonico ottenuti nelle varie filiere, per poter contabilizzare con sicurezza e rendicontare con tranquillità i benefici carbonici ottenuti. Questo sistema di garanzia potrebbe aprire scenari importanti per le soluzioni di carbon removal, come per esempio nel caso del carbon farming: si tratta di un ambito di lavoro che in Italia rischia di essere poco appetibile, sia per la scarsa dimensione degli appezzamenti nazionali – la superficie agricola utile (SAU) media in Italia è di 11 ettari contro i 70 della Francia – e sia per il potenziale costo eccessivo qualora lo si volesse indirizzare verso la strada del carbon offsetting. Un approccio di insetting permette di allineare l'azione climatica aziendale con gli obiettivi di sostenibilità della propria catena del valore (Scope 3), rendendo i benefici più tangibili e diretti per l'impresa e il territorio a essa collegato. Conteggiare quindi il carbon farming come strumento di insetting potrebbe allora essere una strategia vincente per valorizzare le pratiche agricole valide ed efficienti dal punto di vista climatico.

In Italia?

Recentemente in Italia è stato approvato un Decreto che istituisce il Registro nazionale del carbonio, che però a oggi è limitato solo alla parte forestale. Rimangono infatti per ora esclusi dal Registro il mondo agricolo e il carbon farming, che rimane ancora maggiormente da esplorare da un punto di vista tecnico, essendo un settore complesso, con assorbimenti limitati, e un intrinseco limite alla certificazione di gruppo. Questo non significa che il carbon farming non potrà decollare anche in Italia, considerato peraltro che è la base di una delle tre strategie di carbon removal prioritarie per la UE, all’interno del Carbon Removals and Carbon Farming (CRCF) Regulation: è però interessante riflettere sul fatto che probabilmente − tanto più in Italia − il carbon farming non dovrà tanto gestito quale strategia di offsetting, ma forse più in una logica rigenerativa, cioè quale strumento di insetting e di tutela di suolo e biodiversità. In questo contesto, il Registro nazionale del carbonio si configura come strumento per certificare crediti generati da attività forestali addizionali, offrendo un meccanismo trasparente e di qualità per il mercato volontario italiano, in attesa che l'Articolo 6.4 entri pienamente in funzione a livello globale.

L’obiettivo climatico al 2024 reintroduce la possibilità per gli stati e le imprese dell’UE di usare “crediti di carbonio internazionali” per contribuire a coprire fino al 5% delle emissioni complessive rispetto al 1990. Come dovremo garantire la qualità dei progetti che dovranno generare questi crediti?

Sicuramente basandoci sui criteri tecnici della EU Carbon Removals and Carbon Farming (CRCF) Regulation del 2024, che istituisce il primo quadro volontario a livello dell'UE per la certificazione della rimozione del carbonio, dell'agricoltura a basse emissioni di carbonio e dello stoccaggio del carbonio nei prodotti durevoli in Europa: il CRCF stabilisce i criteri di qualità relativi ai carbon removal europei e definisce processi di monitoraggio e rendicontazione. I quattro criteri fondamentali di qualità che il CRCF pone sono: quantificazione, addizionalità, permanenza e sostenibilità (QU.A.L.ITY). Il CRCF potrà facilitare gli investimenti in tecnologie innovative di rimozione del carbonio e in soluzioni sostenibili di agricoltura a basse emissioni di carbonio, affrontando al contempo il problema del greenwashing. In questo modo si potrà riuscire a favorire progetti solidi, con crediti di qualità.

 

In copertina: Luke Paris, Unsplash