Senza incentivi e prezzi dell’energia elettrica più competitivi, l’Italia rischia di rimanere tagliata fuori dalla corsa all’idrogeno green, tra i vettori energetici più importanti della transizione. I 3,64 miliardi di euro da fondi PNRR e i target di decarbonizzazione non stanno bastando a stimolare la domanda e la produzione, ancora troppo penalizzate dalle debolezze del sistema energetico italiano.  

Guidati dall'industria pesante, soprattutto da raffinerie e poli chimici, i consumi nazionali annuali di idrogeno superano i 500 chilotoni, di cui solamente 0,17 sono da fonte rinnovabile. Anche la produzione rimane limitata a impianti di piccola taglia che utilizzano per la quasi totalità gas fossile. Ad oggi gli obiettivi della strategia nazionale per l’idrogeno e del Piano nazionale Energia e Clima (PNIEC), sembrano ormai irraggiungibili: entro il 2030 l’Italia dovrebbe installare una capacità di elettrolisi di 3 GW e raggiungere una domanda complessiva di idrogeno rinnovabile pari a 250 kton.  

Gli incentivi per avviare il mercato 

Il 2026 potrebbe essere un anno di ripartenza per l’idrogeno rinnovabile. Secondo la roadmap proposta da Agici, boutique di ricerca e consulenza economico-strategica che venerdì 21 ha presentato a Milano il paper Policy e strategie per il presente e il futuro dell’idrogeno: è ora di agire!, per centrare parte dei target servirebbero 4 miliardi di euro nei prossimi 5 anni. Supporto che, a meno di grandi sorprese, arriverà parzialmente dell'atteso decreto tariffe, un incentivo variabile sulla produzione. 

Per creare mercato gli operatori si aspettano inoltre che il governo italiano reintroduca gli obiettivi sull’idrogeno rinnovabile nella direttiva RED III. “L’esclusione degli articoli che introducevano le soglie di penetrazione dell’H2 è avvenuta per ragioni tecniche e contabili, non di scelta politica”, ha chiarito Alessandro Noce, direttore generale della direzione generale mercati e infrastrutture energetiche del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE). “Ma sappiamo bene che senza i target l’Italia sarebbe sicuramente soggetta ad una procedura d’infrazione europea, senza considerare che questi obiettivi sono fondamentali per far partire la domanda interna di idrogeno”. 

I sussidi e un quadro regolatorio più coerente potrebbero anche convincere le industrie hard to abate a scommettere in modo più deciso sull’idrogeno rinnovabile. Finora i settori delle ceramiche e della siderurgia si sono dimostrati piuttosto “attendisti” nel pianificare la loro decarbonizzazione a idrogeno verde. Segno che il fossile continua ad essere molto più conveniente anche per l’hard to abate, nonostante i costi del sistema europeo di scambio di quote di emissione (ETS).  

Il nodo dei costi energetici  

Al contrario di altri paesi europei, in Italia è il gas che determina il prezzo marginale dell’elettricità. Dopo il picco di 304 euro/MWh nel 2022, il prezzo medio si è infatti stabilizzato attorno ai 110 euro/MWh, ben superiore a quello di Germania (77), Spagna (71), Francia (54) e dei Paesi nordici che si aggira intorno ai 44 euro al megawattora. Secondo i calcoli di AGICI, l’'idrogeno da energia rinnovabile prodotto in Italia ha il costo medio più alto in Europa, pari a 13 euro/kg, significativamente superiore al gasolio, che si colloca tra 5 e 6, e il gas naturale che oscilla tra 2 e 3 euro/kg. Insomma i costi operativi dell’elettrolisi oggi non sono competitivi nel nostro Paese. 

“Al momento sono i progetti nel settore dei trasporti a trovare più mercato perché il gap tra idrogeno e petrolio è meno marcato”, commenta a Materia Rinnovabile Francesco Elia, Responsabile Hydrogen Unit di Agici. Secondo Elia ci può essere “domanda” solo se si abbattono i costi, e non basteranno piccoli incentivi a cambiare le cose.  

Agici nel report raccomanda l'introduzione di un meccanismo incentivante dinamico, basato sull’andamento dei costi dei combustibili fossili da sostituire, utile a completare i primi progetti PNRR e costruire un track record di iniziative di successo da replicare sul territorio nazionale.  “Questo strumento può abilitare una pianificazione accurata degli investimenti, per un’allocazione ottimale delle risorse pubbliche e private e un modello di sviluppo in grado di rispondere alle diverse esigenze della domanda nazionale”.  

Corridoio Sud 

Le peculiarità del sistema energetico italiano non lasciano intravedere grandi sviluppi sul fronte della produzione, almeno nel breve termine. Così l’Europa guarda sempre più verso Sud. L’obiettivo europeo di importare 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde entro il 2030 valorizza la posizione geografica dell’Italia, destinata a diventare il nuovo ponte energetico tra il Nord Africa e l’Europa centrale. Il cosiddetto “Corridoio Sud”, idrogenodotto di 3.300 chilometri, ha già ottenuto il via libera da Austria, Germania, Tunisia e Algeria e potrà trasportare fino a 4 milioni di tonnellate di idrogeno all’anno. Grazie all’abbondanza di sole e ai costi competitivi dell’elettricità nel Nord Africa, il Corridoio Sud potrebbe coprire oltre il 40% del fabbisogno di importazioni previsto dal Piano REPowerEU e sbloccare la domanda dell’industria italiana.  

Secondo il Mase l’idrogenodotto “rientra nello spirito del piano Mattei, che mira a partenariati reciprocamente vantaggiosi con i Paesi africani”, ma numerose organizzazioni della società civile sono contrarie. Lo scorso marzo una coalizione di 87 Ngo ha chiesto ai governi, a Bruxelles e alle istituzioni africane di fermare gli investimenti in progetti di idrogeno su larga scala che ostacolano una transizione energetica equa e democratica per le comunità in Europa e in Africa. 

“Mega-progetti come il Corridoio Sud dell’Idrogeno sono schemi neocoloniali che esternalizzano la responsabilità della decarbonizzazione sul Sud globale”, ha dichiarato Saber Ammar, North Africa Program Assistant del Transnational Institute (TNI). “Questi progetti rischiano di imprigionare i Paesi esportatori in un modello dipendente dalle emissioni di carbonio e di spostare i costi socio-ecologici, le ingiustizie collegate all’accesso a terra e acqua e le violazioni dei diritti umani sulle comunità della periferia, perpetuando un sistema ingiusto ed estrattivo”.