Da Bruxelles - In Europa non discutiamo più se il cambiamento climatico esista: lo stiamo vivendo. Ondate di calore che battono record storici, siccità sempre più lunghe, incendi estivi ricorrenti e inondazioni invernali violente non sono anomalie, ma la nuova normalità. Eppure, proprio mentre gli impatti climatici diventano più evidenti e costosi, negli ultimi 18 mesi si è assistito a un arretramento progressivo e poco visibile di alcuni pilastri centrali del Green Deal europeo.
Non un rigetto esplicito, ma una sequenza di rinvii, eccezioni, flessibilizzazioni e revisioni che ne riducono l’ambizione originaria. Nel corso del 2025 questo processo ha subìto una netta accelerazione, senza che siano state condotte valutazioni d’impatto adeguate sulle conseguenze economiche, industriali, sociali e ambientali di fermare a metà una trasformazione che resta indispensabile.
Dietro questo cambio di rotta agiscono interessi ben identificabili: una parte dell’agroindustria intensiva, segmenti dell’industria automobilistica ed energivora tradizionale, il settore del gas, alcuni stati membri e forze populiste ed estremiste, ma sempre di più anche partiti “mainstream” che vedono il successo delle campagne contro le “follie green”. La strategia è nota: sfruttare crisi economiche e geopolitiche, amplificare i costi immediati della transizione e oscurare quelli, molto più elevati, dell’inazione climatica.
È bene precisare che questa “deregulation” indiscriminata non risponde ad alcuna richiesta precisa di cittadini, amministrazioni locali e degli attori economici più innovativi, ma è il frutto di una specie di furia ideologica e di pressioni di alcuni settori di “incumbent” particolarmente vicini alla destra politica e che hanno trovato un facile accesso in Commissione e governi.
In questo momento c’è il rischio reale di svuotare il Green Deal della sua forza trasformativa se non si mette in atto rapidamente un’azione forte e coesa di imprese, politica e società civile per contrastarla. Non è impossibile, ma bisogna recuperare una mancanza di reazione anche e soprattutto da parte delle imprese che hanno già fatto la scelta della trasformazione ecologica, e della politica, che deve tornare a ridare priorità a questo tema.
Il Green Deal, lanciato dopo le elezioni europee del 2019 come strategia di crescita e di risposta ai cambiamenti climatici, si fondava su tre obiettivi: neutralità climatica entro il 2050, riduzione delle emissioni di almeno il 55% entro il 2030 e disaccoppiamento tra crescita economica e uso delle risorse. In pochi anni l’Unione ha costruito un quadro normativo senza precedenti.
Oggi però la rimessa in questione precoce di leggi già approvate ma non ancora in vigore o in fase di applicazione sta diventando prassi. Il segnale che ne deriva è grave: la stabilità regolatoria europea, uno dei principali fattori di attrattività per investitori e imprese, non è più garantita. La “semplificazione” è stata concentrata in un portafoglio estremamente ampio, affidato a un commissario, Valdis Dombrowski, con un ruolo trasversale e una visione storicamente scettica verso l’agenda verde, che incide sulle competenze di molti altri membri della Commissione.
A questo si aggiungono problemi seri di metodo. Le decisioni sulla semplificazione vengono sempre più spesso sottratte ai circuiti tecnici ordinari. Nel Consiglio, il gruppo di lavoro incaricato non coincide con le strutture normalmente competenti per queste materie; le proposte arrivano all’ultimo momento al gruppo Antici, che prepara le riunioni del Coreper 2, composto dagli ambasciatori e tradizionalmente dedicato ad affari generali, interni ed esterni. I tecnici e chi ha negoziato le norme originarie vengono così sistematicamente esclusi. L’obiettivo dichiarato è evitare resistenze al cambiamento da parte di chi ha negoziato quegli stessi testi, ma l’effetto reale è aggirare il confronto di merito e le procedure di qualità legislativa che la Commissione si è data. Non è un dettaglio procedurale: è una tendenza precisa verso meno trasparenza e accountability.
L’agricoltura è un caso emblematico. Nella primavera del 2024 la Commissione ha ritirato la proposta SUR, che mirava a ridurre del 50% l’uso e il rischio dei pesticidi entro il 2030. È stato il primo grande arretramento: dopo forti pressioni dell’agroindustria e un voto negativo del Parlamento, la Commissione ha scelto di abbandonare il dossier invece di negoziare un compromesso.
Parallelamente, la politica agricola comune è stata progressivamente indebolita nei suoi elementi ambientali: nel 2024 la condizionalità verde è stata resa più flessibile; nel 2025 il Parlamento ha ulteriormente indebolito i requisiti ambientali, con una spinta ulteriore alla rinazionalizzazione, in parte recuperati con l’accordo finale con il Consiglio, votato questa settimana in plenaria al Parlamento.
Queste scelte non rispondono alle esigenze reali degli agricoltori, che chiedono soprattutto reddito e valorizzazione dei prodotti, ma a quelle di un’agroindustria intensiva, fortemente dipendente da pesticidi e combustibili fossili. I dati però raccontano un’altra storia: la perdita di impollinatori riduce i rendimenti agricoli del 7-8% e il reddito delle aziende di circa il 10%. Pratiche alternative – gestione integrata dei parassiti, controllo biologico, rotazioni colturali, agricoltura di precisione – consentono di ridurre l’uso di pesticidi del 30-50% senza perdita di produttività, e talvolta aumentando la redditività.
Un destino simile ha colpito la Legge sul ripristino della natura. La proposta originaria prevedeva il ripristino vincolante del 20% degli ecosistemi degradati entro il 2030. La versione approvata nel 2024 è molto più debole: molti obiettivi sono diventati indicativi, gli impegni per l’agricoltura sono stati quasi azzerati, è stata introdotta una clausola di “emergenza alimentare” che consente di sospendere gli obblighi, la Commissione ha perso capacità di supervisione e non è stato previsto un finanziamento dedicato. La struttura formale della legge sopravvive, ma in forma fortemente diluita e ancora sotto pressione per ulteriori modifiche.
Dal febbraio 2025 la Commissione utilizza in modo sistematico lo strumento degli “Omnibus” per riaprire normative chiave del Green e del Digital Deal, spesso ancora in fase di applicazione. Queste riaperture non seguono le procedure legislative ordinarie: mancano valutazioni d’impatto complete, consultazioni strutturate e trasparenza. Le decisioni avvengono attraverso contatti diretti tra vertici politici, alcuni alti funzionari, stati membri e grandi interessi economici, talvolta senza coinvolgere nemmeno le direzioni generali competenti.
Secondo la Commissione, i risparmi amministrativi già previsti ammontano a quasi 11 miliardi di euro, con un obiettivo di 37,5 miliardi annui entro il 2029. Ma non esiste alcuna valutazione degli effetti complessivi di queste revisioni su decarbonizzazione, ambiente, cittadini e competitività. Non a caso la mediatrice europea ha rilevato violazioni dei princìpi di buona amministrazione, tra cui trasparenza, inclusività e legislazione basata su dati.
Le prime vittime sono state la direttiva sulla due diligence delle imprese (CSDDD) e quella sulla rendicontazione di sostenibilità (CSRD). La CSDDD è ora limitata alle imprese con oltre 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato, escludendo oltre 10.000 aziende, circa due terzi di quelle inizialmente previste. È stato inoltre abbandonato l’approccio ai settori ad alto rischio, proprio quelli in cui si concentrano deforestazione, violazioni dei diritti umani e inquinamento.
La CSRD è stata ridotta alle imprese con più di 1.000 dipendenti e fatturati intorno ai 450 milioni di euro, lasciando fuori l’80-90% del tessuto produttivo medio-grande. Il risultato è una drastica riduzione dei dati comparabili disponibili per investitori, banche e assicurazioni, mentre aumenta la concorrenza sleale verso le imprese che avevano già investito in tracciabilità e piani climatici.
I benefici della “semplificazione” appaiono peraltro dubbi. I risparmi per le imprese escluse sono modesti, temporanei e concentrati su costi di compliance che molte avrebbero comunque sostenuto per soddisfare mercati, clienti e finanza globale. In cambio, l’UE indebolisce la prevedibilità regolatoria, rimanda a normative nazionali frammentate e si priva di strumenti cruciali per ridurre rischi che già oggi costano decine di miliardi di euro l’anno in danni climatici.
Lo stesso schema si ripete con il regolamento contro la deforestazione (EUDR), la cui applicazione è stata rinviata e che verrà sicuramente ulteriormente modificata nei prossimi mesi, ancora prima di entrare in vigore. L’UE è responsabile di circa il 10% della deforestazione globale legata al consumo; ogni anno il mondo perde circa 10 milioni di ettari di foreste e la deforestazione genera circa il 10% delle emissioni globali di CO₂. Indebolire l’EUDR significa rinunciare a uno standard capace di orientare i mercati globali e aumentare la fragilità delle catene di approvvigionamento europee.
Nel settore dei trasporti e dell’industria, la revisione dello standard Euro 7 è stata approvata in forma attenuata. Ancora più significativa è la riapertura del dibattito sullo stop alla vendita di auto a combustione dal 2035, proposta dalla Commissione il 16 dicembre: un obiettivo che era stato concordato con i produttori di auto e che sembrava consolidato, ma che è stato rimesso in discussione anche potendo contare su una potente campagna di disinformazione, minando un percorso industriale che avrebbe dovuto dare certezza a produttori, investitori, consumatori e rispondere anche se in grande ritardo, per errori strategici gravi di produttori e governi, alla mancanza di auto elettriche accessibili in Europa.
Eppure i dati sono chiari: l’auto elettrica riduce del 73% le emissioni lungo il ciclo di vita, è tre volte più efficiente, abbassa la dipendenza dalle importazioni energetiche e rappresenta già una quota importante delle nuove immatricolazioni (intorno al 20%). Senza contare che la data del 2035 si riferisce alla vendita di nuove auto a combustione interna e non ovviamente al loro utilizzo fino a fine vita.
Nel pacchetto presentato dalla Commissione il quadro formale non cambia: resta il target di riduzione del 100% delle emissioni di CO₂ per le nuove immatricolazioni nel 2035, ma nei fatti viene abbassato a circa il 90%. Ciò avviene attraverso tre leve: crediti gratuiti legati all’uso di e‑fuels e biocarburanti, crediti extra per chi usa acciaio “verde” europeo e “supercrediti” per le piccole auto elettriche prodotte in Europa.
Combinando queste flessibilità, fino a circa il 23-25% delle nuove auto vendute nel 2035 potrebbe ancora essere costituito da ibride plug‑in con motore a combustione, che in condizioni reali emettono solo circa il 19% in meno delle auto a benzina o diesel.Nel complesso, il quadro che emerge è di una politica che si ferma a metà strada: da un lato investe nell’industria e tutela la produzione europea, dall’altro attenua la pressione regolatoria su CO₂, qualità dell’aria e sicurezza, rischiando di rallentare la transizione proprio mentre la concorrenza globale accelera.
A ciò si aggiungono il rinvio dell’ETS2 al 2028, che riduce il ruolo del Fondo sociale per il clima, e la proposta di revisione dell’Ecodesign per gli apparecchi di riscaldamento, che elimina la messa al bando delle caldaie a gas dal 2029. L’Omnibus ambiente presentato l’11 dicembre 2025 interviene su numerose direttive ambientali, con risparmi stimati intorno a 1 miliardo di euro per alcuni settori, ma al prezzo di un indebolimento strutturale delle tutele ambientali e sanitarie e dell’introduzione di una logica di deroga permanente.
Il 16 dicembre la Commissione europea ha presentato anche un altro pacchetto “Omnibus” di semplificazione sulla sicurezza alimentare e dei mangimi che modifica numerose norme UE, dai pesticidi agli OGM e ai controlli alle frontiere. Nonostante gli avvertimenti scientifici, la proposta apre ad autorizzazioni a tempo indeterminato per alcuni pesticidi, con solo limitate rivalutazioni. Le modifiche, presentate senza valutazione d’impatto, indeboliscono in modo significativo le tutele su pesticidi, sicurezza alimentare e diritti dei consumatori. Nel complesso, la semplificazione rischia di compromettere il principio di precauzione sancito dal regolamento UE sui pesticidi.
I cittadini europei, intanto, non chiedono arretramenti: l’81% sostiene la neutralità climatica, l’84% considera il clima una priorità anche per la salute e il 90% chiede più investimenti per l’adattamento. La vera domanda non è se l’Europa possa permettersi il Green Deal, ma se possa permettersi di fare marcia indietro a metà strada. Tutti i dati indicano che arretrare ora è una scelta irrazionale, dai benefici non dimostrati e dai costi certi, che mette a rischio competitività, coesione sociale, biodiversità e qualità democratica dell’Unione.
In copertina: immagine Envato
