L’oceano, che fornisce all’umanità servizi ecosistemici fondamentali, dalla pesca alla regolazione del clima, occupa uno spazio sempre più centrale nei dibattiti internazionali. Il 2025 è stato un anno di risultati contrastanti: da un lato importanti passi avanti, come l’entrata in vigore dell’Accordo sui sussidi alla pesca e la ratifica da parte di più di sessanta paesi del Trattato sull’alto mare; dall’altro, significativi arresti, dovuti in particolare alla posizione di alcuni stati. Tra questi, gli Stati Uniti hanno frenato l’adozione del Net-Zero Framework per la riduzione delle emissioni nel settore del trasporto marittimo, mentre il Trattato globale sulla plastica non ha trovato un’intesa.
La terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano
Tra gli eventi che hanno segnato l’anno ormai prossimo alla conclusione c’è senza dubbio l’UN Ocean Conference (UNOC), che si è tenuta lo scorso giugno a Nizza, in Francia. Un appuntamento con lo scopo di rafforzare l’attuazione dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile 14 delle Nazioni Unite, Vita sott’acqua, dedicato alla tutela e all’uso sostenibile dell’oceano, dei mari e delle risorse marine. Nonostante alcuni progressi, molti osservatori hanno giudicato la conferenza complessivamente deludente, confermando che la strada da percorrere resta lunga. A Nizza sono state intraprese alcune azioni positive, come la creazione e l’ampliamento di aree marine protette (AMP), passi avanti verso la ratifica del Trattato sull’alto mare, nuovi investimenti e rinnovati appelli a fermare il deep-sea mining.
Il documento finale della terza UNOC, il Nice Ocean Action Plan, comprende una dichiarazione politica dal titolo Il nostro oceano, il nostro futuro: uniti per un’azione urgente e oltre 800 impegni di natura volontaria. Tuttavia, per molti questi impegni non sono sufficienti. Come ha osservato Tom Pickerell, Global Director dell’Ocean Program del World Resources Institute, “da Nizza emerge un vero slancio, ma restano ancora molte questioni irrisolte. Era un momento cruciale per colmare le lacune nella protezione degli oceani. Qualche passo avanti è stato fatto, ma non tutti i governi hanno saputo coglierne appieno l’importanza”.
Particolarmente critica resta la questione delle risorse economiche, anche perché il goal 14 presenta tutta una serie di obiettivi complessi come ridurre l’inquinamento e l’acidificazione degli oceani, proteggere e ripristinare gli ecosistemi marini, promuovere una pesca sostenibile, oltre a eliminare i sussidi che alimentano l’overfishing e rafforzare la ricerca scientifica per migliorare la salute dei mari. Tutti obbiettivi che per essere raggiunti hanno bisogno di grandi investimenti nei prossimi anni.
“Non possiamo salvare l’oceano con finanziamenti marginali”, ha sottolineato Pickerell. “La finanza blu sta finalmente attirando attenzione, ma mancano ancora circa 550 miliardi di dollari all’anno rispetto a quanto sarebbe necessario per garantire la salute degli oceani nel lungo periodo.” Senza investimenti urgenti e strutturali, ricorda l’esperto, il rischio è quello di accelerare il collasso della biodiversità marina, compromettere la sicurezza alimentare di miliardi di persone e indebolire uno degli alleati più potenti nella lotta al cambiamento climatico, uno dei più grandi carbon sink presenti sul nostro pianeta.
L’oceano a COP30
Anche la COP30, svoltasi a Belém, ha dato più spazio alle questioni legate all’oceano. Oltre agli eventi che si sono tenuti a lato delle negoziazioni, nei Nationally Determined Contributions (NDC) presentati dai paesi, le menzioni dell’oceano sono quadruplicate rispetto a una decina di anni fa, con una maggiore attenzione per questi temi da parte dei paesi costieri e insulari. Tra le iniziative più citate figurano la conservazione e la protezione degli ecosistemi marini. Tuttavia, l’azione più efficace per ridurre l’impatto della crisi climatica sull’oceano resta l’abbandono dei combustibili fossili, un obiettivo non raggiunto a Belém, dove non si è trovato consenso su una roadmap condivisa per l’uscita dalle fonti fossili
Sempre durante la COP30, il Brasile, il cui PIL proviene per il 19% da attività legate in modo diretto o indiretto al mare, è diventato il diciannovesimo paese a entrare a far parte dell’High Level Panel for a Sustainable Ocean Economy. “Il Panel per l’oceano rappresenta una gamma diversificata di paesi, ma la nostra ambizione rimane la stessa: l’oceano deve essere al centro del nostro futuro collettivo”, ha dichiarato Surangel S. Whipps Jr., presidente di Palau e copresidente dell’Ocean Panel. “Il Brasile presiede un’area oceanica vastissima e, impegnandosi per una gestione 100% sostenibile, rafforza non solo il proprio futuro, ma anche quello di tutte le nazioni che dipendono dall’oceano.”
Il Trattato sull’alto mare
Quando si osserva l’oceano nel suo insieme, oltre due terzi della sua superficie rientrano nel cosiddetto alto mare: un’area di straordinaria ricchezza biologica e di fondamentale importanza ecologica. Proprio le acque internazionali, tuttavia, sono state a lungo penalizzate da una governance frammentata, da un coordinamento insufficiente e dalla mancanza di regole chiare, fattori che hanno favorito il sovrasfruttamento delle risorse e reso questi ecosistemi vulnerabili all’inquinamento.
Come accennato in precedenza, uno dei principali risultati della terza UN Ocean Conference è stato il deposito delle ratifiche del Trattato dell’Alto Mare da parte di altri 19 paesi. Un passo significativo, ma ancora insufficiente per consentirne l’entrata in vigore. La svolta è arrivata alcuni mesi dopo: a settembre è stata infatti raggiunta la soglia delle 60 ratifiche necessarie, condizione che renderà il Trattato vincolante a livello internazionale a partire dal 17 gennaio 2026.
Frutto di oltre vent’anni di discussioni, l’accordo mira a fornire un quadro giuridico chiaro per creare reti di aree marine protette nelle acque internazionali, contribuendo all’obiettivo globale di tutelare almeno il 30% degli oceani entro il 2030. Prevede inoltre un rafforzamento della trasparenza e del ruolo della comunità internazionale nelle decisioni relative ad attività potenzialmente dannose per la biodiversità marina in alto mare, punta a garantire una condivisione equa dei benefici derivanti dalle risorse genetiche marine e a promuovere il rafforzamento delle capacità e il trasferimento di tecnologie, sostenuti da uno specifico meccanismo di finanziamento.
“Raggiungere 60 ratifiche non è il traguardo finale, ma solo il punto di partenza”, ha dichiarato a settembre Rebecca Hubbard, direttrice dell’High Seas Alliance. “La vera forza del Trattato risiede nella partecipazione universale. Pur celebrando questo straordinario progresso, esortiamo tutti i paesi che ancora mancano a aderire a questo Accordo storico e ad aiutarci a passare da 60 a una partecipazione globale prima della prima Conferenza delle Parti (CoP).”
A dicembre, il numero di stati che hanno ratificato il Trattato è salito a 80. Mancano però ancora all’appello oltre sessanta paesi, tra cui l’Italia, il Regno Unito, l’Australia, il Canada e, soprattutto, gli Stati Uniti, la cui ratifica appare altamente improbabile alla luce dell’orientamento dell’amministrazione Trump.
Il Trattato globale sulla plastica
Se passiamo dall’alto mare alla plastica, i risultati sono molto meno incoraggianti. Ad agosto, a Ginevra, la quinta sessione del Comitato intergovernativo per un Trattato globale sulla plastica (INC-5.2) si è conclusa senza un accordo e senza progressi significativi, rinviando la prosecuzione a una data e un luogo ancora da definire.
I negoziati hanno messo in luce divisioni profonde: la High Ambition Coalition spinge per un trattato vincolante che regoli l’intero ciclo di vita della plastica, mentre il Like-Minded Group, guidato dall’Arabia Saudita, vorrebbe un accordo volontario limitato alla gestione dei rifiuti. Altri paesi, come il Brasile, mantengono posizioni meno definite, mentre gli Stati Uniti si sono apertamente opposti all’introduzione di limiti alla produzione.
Emissioni marittime
Nella primavera del 2025, il Comitato per la protezione dell'ambiente marino dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO), l’autorità globale di regolamentazione del settore, ha approvato il Net-Zero Framework (NZF), pensato per guidare il comparto verso emissioni nette zero entro il 2050 attraverso misure sia tecniche sia economiche. Tra queste, c’è uno standard globale sui carburanti che fissa ogni anno, fino al 2035, obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, con penalità per chi non li rispetta. Il framework prevede inoltre un sistema di scambio di crediti, che consente alle navi più virtuose dal punto di vista ambientale di vendere i propri crediti a quelle più inquinanti, incentivando così una transizione verso una navigazione più sostenibile.
L’adozione del piano, originariamente prevista per lo scorso ottobre, è però stata bloccata dagli Stati Uniti, con il supporto di altri paesi, tra cui Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Prima del voto, il presidente statunitense Donald Trump aveva commentato sul suo social Truth: “Sono indignato che l’Organizzazione marittima internazionale stia votando a Londra questa settimana per approvare una tassa globale sul carbonio. Gli Stati Uniti non accetteranno questa truffa verde globale sulle tasse al trasporto marittimo”.
Il risultato è stato il rinvio del voto sull’adozione del NZF al prossimo anno, con 57 voti contrari e 49 favorevoli. L’incertezza che ne deriva, ormai molto diffusa in diversi settori economici (basti pensare all’incognita dei dazi per gran parte dell’anno), frena inevitabilmente investimenti e pianificazione aziendale. Come ha sottolineato Thomas A. Kazakos, segretario generale dell’International Chamber of Shipping, “l’industria ha bisogno di chiarezza per poter effettuare gli investimenti necessari a decarbonizzare il settore marittimo, in linea con gli obiettivi previsti dalla strategia sulle emissioni di gas serra dell’IMO”.
Stop ai sussidi alla pesca eccessiva
Ci sono voluti circa vent’anni di negoziati per regolamentare i sussidi che danneggiano gli stock ittici. Dopo la sua adozione nel 2022, lo scorso settembre l’Accordo sui sussidi alla pesca è entrato in vigore, tutelando non solo le specie marine ma anche le comunità che dipendono dall’oceano per sostentamento, lavoro e reddito. L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) ha celebrato questo traguardo, sottolineando come l’accordo impegni i paesi membri a ridurre di miliardi di dollari la spesa annuale destinata ai sussidi più dannosi per gli stock ittici.
In un contesto geopolitico sempre più frammentato, in cui il multilateralismo appare indebolito, la direttrice generale del WTO, Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato: “In un momento in cui il sistema commerciale internazionale affronta sfide profonde, l’Accordo sui sussidi alla pesca invia un segnale forte: i membri del WTO possono collaborare, in uno spirito di cooperazione e responsabilità condivisa, per offrire risposte concrete alle sfide globali. L’entrata in vigore di questo accordo ci ricorda che molte delle difficoltà più grandi possono essere affrontate in modo più efficace a livello multilaterale. Persone e paesi hanno bisogno di un multilateralismo che produca risultati, ed è per questo che la giornata di oggi rappresenta un segnale incoraggiante”.
In particolare, l’accordo prevede il divieto di sovvenzioni per chi pratica pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, per la pesca di stock sovrasfruttati (con alcune eccezioni) e per la pesca in alto mare sostenuta da fondi governativi. Secondo il rapporto FAO Esame dello stato delle risorse ittiche marine mondiali, nel 2021 il 35,5% degli stock ittici era soggetto a sovrasfruttamento, con una crescita di circa un punto percentuale all’anno negli ultimi anni.
In copertina: immagine Envato
