Ma, dopo una rapida crescita, nei prossimi decenni l’impiego degli idrocarburi vedrà con ogni probabilità un rallentamento e una successiva riduzione del loro impiego, principalmente a causa dei vincoli posti dai cambiamenti climatici.

In alcuni ambiti la loro centralità sta già incrinandosi. Sul fronte della generazione di elettricità si assiste in diversi paesi alla rapida crescita delle fonti rinnovabili. Il potenziale di queste fonti è enorme e in grado di soddisfare la domanda elettrica dell’umanità in uno scenario di uso efficiente dell’energia.

La situazione è diversa sul fronte della “materia rinnovabile”, dei biomateriali che trovano un mercato grazie alle loro caratteristiche e al valore aggiunto ambientale. Attualmente la loro produzione è ancora inferiore all’1% rispetto a quella della chimica tradizionale. Nel lungo periodo il loro ruolo potrebbe crescere sensibilmente, anche se non con le stesse dinamiche delle rinnovabili, a causa della necessità della biochimica di condividere l’uso dei suoli con le vocazioni alimentari, energetiche e di produzione di materie prime. Oggi per le bioplastiche si usa solo lo 0,03% del totale della terra arabile del pianeta, per cui in realtà i margini di evoluzione del comparto sono notevoli. Quindi, per dare un ordine di grandezza, nella seconda metà del secolo con lo 0,6% della superficie agricola si potrebbe soddisfare un quarto della domanda di materie plastiche.

I biomateriali possono garantire prestazioni ambientali migliori rispetto ai prodotti della chimica industriale. Le filiere ben gestite favoriscono la chiusura dei cicli produttivi e attivano sinergie virtuose tra il mondo biologico e quello dell’industria. Inoltre, spesso la produzione prevede minori emissioni. Il loro utilizzo, infine, è in grado di aumentare il valore aggiunto dei prodotti e lo smaltimento è favorito dalla biodegradabilità. 

L’Unep ha stimato in 75 miliardi $/anno i danni ambientali legati all’impiego delle plastiche, per un terzo attribuibili alla produzione e per il 17% all’impatto delle 10-20 milioni di tonnellate rifiuti che annualmente vanno a finire negli oceani.

Sono queste caratteristiche che consentono ai biomateriali di affermarsi, malgrado i costi di produzione siano di sovente superiori rispetto a quelli della chimica convenzionale. Inoltre, la rapida innovazione dei processi porterà a significativi miglioramenti delle prestazioni tecnologiche e a riduzione dei prezzi che faciliteranno il raggiungimento della competitività.

Su questo punto, un elemento determinante nel confronto economico con i prodotti chimici è dato dalle quotazioni degli idrocarburi. 

È interessante dunque capire, per esempio, come la drastica riduzione dei prezzi del metano indotti dallo shale gas sul mercato statunitense stia influenzando la produzione di biopolimeri. 

Alcune lavorazioni, come il bioetilene e il biopropilene, ne sono risultate svantaggiate, tanto che importanti multinazionali hanno bloccato investimenti per miliardi di dollari in Brasile. Il successo dello shale gas ha reso infatti decisamente più conveniente la produzione dell’etilene negli Stati Uniti a partire dal metano a basso costo. 

Al tempo stesso ci sono altri biopolimeri che si vedono avvantaggiati. Alcuni prodotti infatti, come l’isobutilene e il butadiene, che venivano ricavati nell’ambito del processo di produzione dell’etilene a partire dal petrolio, adesso scarseggiano. Si tratta di intermedi per la lavorazione di prodotti importanti, come la gomma sintetica e il nylon. Ecco perché alcuni biopolimeri stanno diventando economicamente interessanti negli Stati Uniti.

Facciamo un’ultima osservazione sull’evoluzione di lungo periodo dei biomateriali, alla luce di un possibile serio accordo sul clima. 

Una conseguenza, che potrebbe materializzarsi entro 10-20 anni, è il drastico deprezzamento delle riserve dei combustibili fossili, la cosiddetta “carbon bubble”. Se infatti, a seguito di un’intensificazione del riscaldamento del pianeta, si dovessero definire rigorosi obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti, una quota elevata delle riserve fossili appartenenti alle multinazionali energetiche o agli stati produttori rischierebbe di non potere essere utilizzata. 

Quali sarebbero gli impatti sui prezzi degli idrocarburi? E inoltre, che ripercussioni potrebbe avere la limitazione del loro impiego come fonte energetica rispetto all’utilizzo come materia prima? 

La questione è aperta. Da un lato, visti gli imponenti investimenti effettuati nelle esplorazioni e trivellazioni, il prezzo di approvvigionamento dell’industria petrolchimica potrebbe calare, favorendo nuove applicazioni in sostituzione dei metalli (come nell’impiego di materiali compositi per le carrozzerie delle auto). 

Dall’altro la restrizione all’impiego degli idrocarburi avverrebbe attraverso l’attribuzione di un valore elevato alla CO2, anche superiore ai 100 euro/t, rendendo decisamente favorite le lavorazioni di biomateriali con emissioni nettamente inferiori a quelle della petrolchimica.