Dalle parole ai fatti. È questa in sintesi la richiesta lanciata all’Unione europea dalla quarta Conferenza degli stakeholder della bioeconomia che si è tenuta a Utrecht, nei Paesi Bassi, il 12 e il 13 aprile, nella modernissima sede della Rabobank Nederland. Serve la politica, quella con la P maiuscola, capace di prendere subito decisioni anche scomode con un orizzonte di medio-lungo periodo, per affrontare il cambiamento climatico – la più grande minaccia che grava oggi sull’umanità – e favorire l’approdo a una società post-petrolifera. “Serve una vera leadership”, è scritto anche nell’introduzione del Manifesto che rappresenta il lascito di questa conferenza a beneficio della Commissione europea. Ma si sa, non è più il tempo di Adenauer, Schuman o De Gasperi. Lo sguardo della politica è a breve distanza, ancorato alle elezioni e ai voti. Si nutre di sondaggi e di emozioni. Non è un caso, quindi, che il tema dell’educazione e dell’informazione dell’opinione pubblica sia stato uno dei principali protagonisti della conferenza olandese. 

Per discutere di bioeconomia si sono riunite, sotto la presidenza olandese dell’Unione europea, oltre 400 persone in rappresentanza di grandi e piccole imprese, cluster, università e associazioni di settore industriali e agricole. Obiettivo: elaborare un Manifesto che sarà alla base della nuova strategia europea, attesa per la fine dell’anno. 

Se la Conferenza di Copenaghen nel 2012 era stata l’occasione per il lancio della strategia, Dublino e Torino – rispettivamente nel 2013 e 2014 – due momenti dedicati alle prime valutazioni dei risultati raggiunti nella sua implementazione, Utrecht ha rappresentato senza dubbio un punto nodale per un cambiamento di marcia che chiama le istituzioni europee e nazionali alle proprie responsabilità: “L’enorme transizione da un’economia basata sui combustibili fossili a una bioeconomia sostenibile – si legge nel Manifesto – implica un lavoro ambizioso e interventi coordinati. I governi e le imprese europee dovrebbero investire a piene mani in ricerca e sviluppo, produzione sostenibile, lancio sul mercato, innovazioni, potenziamento delle industrie e normative intelligenti.”

Ma la transizione richiede anche un ruolo attivo della società, richiamato a gran voce da molti degli intervenuti. A partire da John Bell, il direttore della Direzione Bioeconomia della Commissione europea, che ha definito la società come “forza trainante della bioeconomia”, fino a Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, per la quale “la bioeconomia è una grande opportunità per ricongiungere l’economia alla società”. 

Come fare? “Servono – ha affermato la manager della società di Novara – programmi educativi che coinvolgano privati, istituzioni pubbliche e fondazioni, anche finalizzati alla creazione di green jobs”, insieme a “un sostegno alla domanda di nuovi prodotti biobased attraverso un sistema di Green Public Procurement”.

L’introduzione di nuove politiche sul fronte della domanda è stato un altro degli argomenti maggiormente dibattuti nei Paesi Bassi. L’ha definita “una misura necessaria” anche Pekka Pesonen, il segretario generale di Copa Cogepa, la più grande associazione di agricoltori e di cooperative agricole in Europa. “Con gli attuali prezzi del petrolio bassi – è scritto nel Manifesto conclusivo – la bioeconomia ha poche possibilità di emergere. Serve introdurre obiettivi obbligatori e ambiziosi per prodotti di origine biologica negli appalti pubblici, un programma volontario di etichettatura, come nel BioPreferred Program degli Stati Uniti. Si dovrebbe prestare anche particolare attenzione alle Pmi, sostenendo le loro innovazioni, attraverso, per esempio, politiche di appalti pubblici.”

La Conferenza di Utrecht viene dopo il Bioeconomy Investment Summit di Bruxelles e il Global Bioeconomy Summit di Berlino, che sono stati, lo scorso novembre, importanti vertici di confronto tra la Commissione europea e gli stakeholder e hanno consegnato indicazioni precise sul fronte delle politiche e degli investimenti necessari a dare impulso al settore. Ma – soprattutto – viene dopo la presentazione del pacchetto sull’economia circolare da parte della Commissione e la COP21 di Parigi dello scorso dicembre, che ha rappresentato – a detta di tutti – una grande spinta sull’acceleratore per la bioeconomia. 

Ora però bisogna evitare che la Commissione europea guidi con un piede sull’acceleratore e l’altro sul freno. Sono molte le questioni ancora aperte. Innanzitutto – reclamano gli stakeholder nel Manifesto – non c’è parità di trattamento tra prodotti biobased e prodotti fossili. “Secondo le stime del Fmi, i sussidi globali per i combustibili fossili nel 2015 ammontavano a 5.300 miliardi di dollari. Non chiediamo un equivalente europeo di questo sussidio, però vorremmo che una modesta quota di tale somma venisse investita in bioeconomia: 5 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2017-2025 in un programma di investimenti europei che comprendano iniziative faro, progetti pilota, ricerca e innovazione e apprendimento reciproco.”

Ma non solo: non considerare il costo delle esternalità negative causate dai prodotti di origine fossile crea distorsioni nel mercato. 

In sostanza: chi paga per i danni causati dalle emissioni di CO2? La necessità di una carbon tax è stata condivisa a Utrecht. Il primo a sollevare la questione è stato Bertholt Leeftink, direttore generale Impresa e Innovazione al ministero degli Affari economici olandese. Si tratta di un passo in avanti sostanziale nella discussione europea. 

In Svizzera, dunque nel cuore dell’Europa, la tassa sulla CO2 rappresenta uno strumento fondamentale per raggiungere gli obiettivi nazionali legati alla lotta ai cambiamenti climatici. Si tratta di una tassa d’incentivazione riscossa dal 2008 sui combustibili fossili, come l’olio da riscaldamento o il gas naturale: la tassa fa lievitare i prezzi, incentivando a ridurre il consumo di questi combustibili e a impiegare maggiormente prodotti o energie senza emissioni o a basse emissioni di CO2. Ogni anno, circa due terzi dei proventi della tassa sono restituiti alla popolazione e alle imprese a prescindere dal consumo. Un terzo, invece, (al massimo 300 milioni di franchi) confluisce nel Programma edifici che ha lo scopo di promuovere misure di riduzione delle emissioni di CO2 (come i risanamenti energetici e le energie rinnovabili) e altri 25 milioni vengono investiti nel fondo per le tecnologie. 

Un modello, quello svizzero, certo non facile da imitare per un’Unione europea che non ha ancora una politica economica e fiscale unica e appare sempre più debole sul fronte della coesione politica.

La conferenza ha lasciato comunque a tutti una certezza: l’Europa non è all’anno zero della bioeconomia. Ci sono un’agricoltura e un’industria in grado di innovare e di investire, come testimonia anche la presenza di alcune delle più importanti bioraffinerie al mondo, di seconda e terza generazione. Il livello d’eccellenza delle università e dei centri di ricerca non è mai stato in discussione. Le partnership pubblico-private lanciate negli ultimi anni, come la Bio-based Industries Joint Undertaking da 3,7 miliardi di euro, hanno permesso un nuovo e vigoroso slancio. E un numero sempre maggiore di regioni europee e di stati si sono dotati di una strategia: proprio a marzo scorso la Spagna ha pubblicato la propria e in Francia è attesa prima dell’estate.

Anche al di là dell’Atlantico oggi l’Europa viene guardata con ammirazione. La stessa Dsm, il colosso biotech olandese, ha annunciato a Utrecht che presto molti degli investimenti realizzati negli Stati Uniti saranno riportati nel Vecchio Continente.

“Il passaggio alla bioeconomia è irreversibile”, ha affermato John Bell, l’uomo che ha assunto un ruolo sempre più centrale e di leadership nella bioeconomia europea. Un concetto condiviso da tutti i 400 stakeholder riunitisi a Utrecht. Non resta che renderne consapevole la società. E la classe politica. 

 

European Bioeconomy Stakeholders Manifesto, bioeconomyutrecht2016.eu/Static/bioeconomyutrecht2016.eu/Site/Manifest.pdf