È arrivata una nuova generazione di poliesteri biodegradabili ad alte prestazioni, ottenuti da co-prodotti o scarti di zucchero, ricavati da barbabietola, patate, glicerolo, estratti di scarti di frutta e verdura. Pioniera di questa rivoluzione, è la Bio-on di Castel San Pietro Terme, che a metà strada tra Bologna e Imola, in Italia, ha aperto un nuovo stabilimento per un costo di 20 milioni di euro. Qui gli scarti provenienti da aziende agroalimentari, vengono trasformati in polimeri di poliestere completamente naturale. Il prodotto finale è costituito da poliidrossialcanoato (PHAs), materiale versatile utilizzabile in svariati settori, dalla cosmesi all’ingegneria biomedica. 

Ma come si ottengono i PHAs? Sono ricavati da “batteri amici dell’uomo da milioni di anni, un materiale che potrà essere mangiato da altri batteri, perché la natura trova sempre una soluzione”. Lo racconta Marco Astorri, presidente e amministratore delegato di Bio-on, che nel 2007 insieme al socio fondatore Guy Cicognani, si è lanciato in questa avventura alla ricerca di un biopolimero naturale al 100%. La loro forza? Aver investito quanto guadagnavano in ricerca, brevetti, certificazioni e pubblicazioni.

 

Come è nata Bio-on?

“La nostra azienda nasce quasi per caso. Inizialmente, io e il mio socio Guy Cicognani avevamo una piccola quota di una società produttrice di Radio Frequency Identification (Rfid), per consentire l’identificazione di prossimità dei biglietti, senza lo strisciamento della banda magnetica. Fino a quando, un giorno, un nostro cliente avanza una richiesta diversa dal solito: voleva dei biglietti fatti di materiale differente da carta e da plastica, idrorepellente, ma compostabile. Mi confronto con Guy e da questo input iniziamo a ricercare informazioni riguardanti i biomateriali. Con grande sorpresa, scoprimmo un settore ancora agli inizi. Per lo più le aziende producevano acido polilattico (PLA), un polimero ottenuto dalla fermentazione della canna da zucchero, con caratteristiche fisiche identiche al polietilene, ossia indistruttibile e poco green. Quindi, decidiamo di vendere la nostra quota e di investire il denaro ricavato in questo nuovo progetto. Era il 2007 e i primi sei mesi li abbiamo trascorsi chiusi in ufficio davanti ai computer, a fare ricerca e a studiare.” 

 

Come si è evoluta la ricerca?

“Siamo degli imprenditori, non avevamo una base scientifica alle spalle, è stato essenziale approfondire. Da una nostra indagine sui biopolimeri costituiti da amido o PLA, ci siamo resi conto di come le aziende produttrici di plastica green avessero dei problemi. Innanzitutto, i loro prodotti non avevano le stesse prestazioni della plastica ricavata dal petrolio; inoltre usavano enormi quantità di solventi organici per l’estrazione e modificavano geneticamente le piante impiegate. Insomma, le aziende cosiddette ecocompatibili, alla fine non lo erano. Il nostro obiettivo era molto diverso: volevamo trovare qualcosa in grado di rivoluzionare la chimica. Solo perseguendo il nostro scopo ci siamo imbattuti in ciò che stavamo cercando, ovvero il poliidrossialcanoato (PHA).” 

 

Perché i PHAs?

“I PHAs sono un poliestere lineare completamente naturale. Si tratta di un prodotto sintetizzato all’interno di batteri non patogeni, non modificati, i quali cibandosi di fonti di carbonio, con un ciclo di 40 ore, riescono a produrre una riserva di energia: per loro è grasso, per noi è un poliestere lineare, ovvero plastica. La scoperta risale al 1920, rimasta poi quiescente senza venir ulteriormente sviluppata. Probabilmente, il periodo storico in cui nacque ne ha impedito la sua applicazione. Nel dopoguerra, infatti, con l’avvento della chimica moderna e della scoperta del propilene da parte di Natta, è stata presa la via della plastica conosciuta oggigiorno: cancerogena, indistruttibile e inquinante.”

 

Esistevano dei progetti già avviati?

“Nella nostra ricerca avevamo individuato studi svolti in Giappone, in Francia, in Portogallo. E alle Hawaii: qui l’Università delle isole aveva depositato cinque brevetti. Accompagnati dal nostro avvocato, siamo andati a Honolulu, dal professor Jian Yu. Un incontro che ha sancito l’inizio della nostra avventura, con l’acquisto dell’intero set di brevetti e l’esaurimento le nostre risorse economiche. La soluzione è arrivata ben presto, ci siamo rivolti a tre grandi zuccherifici italiani per chiedere di investire su di noi. Otteniamo la loro collaborazione e con 3 milioni di euro in più, avviamo l’azienda. Tra il 2008 e il 2013 ne recuperiamo altri 10, riuscendo a realizzare il piano industriale. In giro di poco tempo, ci siamo trovati a rispondere a richieste sempre più numerose.”

 

Quando è avvenuta la vera svolta?

“Probabilmente nel 2013, quando abbiamo vinto un premio come azienda più innovativa, in Gran Bretagna. Ci era stato consegnato da TATA Group e dal Financial Times. In quell’occasione, abbiamo sentito per la prima volta parlare di investimenti in Borsa. Fino a quel momento, il nostro modello di business era di quelli tradizionali, spendevamo solamente il guadagno netto, per evitare debiti e per proteggere la nostra idea. Allora ci venne proposto di quotarci in Borsa e a distanza di anni possiamo dire di aver fatto la scelta giusta. Da quel 10% quotato timidamente, abbiamo recuperato i primi 9 milioni di euro, permettendo all’azienda di crescere sempre più. Infatti, dal 2014 a oggi, la quotazione di un nostro titolo è passata da 5 a 60 euro. E a fine 2018 abbiamo stipulato accordi con importanti aziende come, per citarne alcune, l’azienda russa TAIF JSC, uno fra i principali gruppi industriali della Federazione Russa, leader nel settore delle materie plastiche, con un contratto da 17,6 milioni di euro. Grazie a questa intesa nascerà nella Repubblica del Tatarstan il primo impianto per la produzione di bioplastica PHAs con tecnologia Bio-on. Inoltre, il gruppo TAIF JSC investirà nel polo produttivo 90 milioni di euro. Un altro esempio è Unilever con cui ci stiamo apprestando a lanciare una nuova linea di solari sul mercato con il brand MyKay, il primo prodotto in assoluto che sostituirà le microplastiche con il nostro biopolimero.”

 

Che caratteristiche ha invece il nuovo impianto qui in Emilia?

“Bio-on si basa sull’Intellectual Property Business Model (Ipbm), dunque sulla cessione di licenza. Questo nuovo impianto era necessario per poter standardizzare delle applicazioni con prestazioni elevate, da poter cedere a fronte di nuove richieste. Abbiamo così scoperto altri campi in cui i PHAs, sotto forma di polveri di biopolimeri, sono applicabili, come nella cosmetica, nel 3D professionale. Questo impianto, da mille tonnellate annue, ci è costato più di 20 milioni di euro e mantenendo l’Ipbm, riusciamo a garantire una redditività elevata.”

 

Quali tipi di applicazioni state progettando?

“Investiamo molto nella ricerca, collaborando con una ventina di università di tutto il mondo. Sperimentiamo sempre nuove applicazioni. Se all’inizio volevamo ottenere qualcosa di semplice per realizzare una posata o uno shopper biodegradabile, andando avanti con le sperimentazioni abbiamo compreso di avere tra le mani un prodotto piattaforma, utile per la sostituzione di molti altri materiali: il polietilene espanso (Epe), il polietilene ad alta intensità (Hdpe), le poliammidi e tante altre plastiche. Se ci fossimo fermati alla letteratura avremmo investito nel PLA. E ora non saremmo qua. La nostra sfrontatezza ci ha ripagato, perché i PHAs hanno un potenziale enorme. Siamo partiti da piccole cose, ora affrontiamo grandi progetti, come il mercato dell’estetica. Abbiamo applicazioni anche in campo biomedico, in retine per ernie o instent cardiaci. Crediamo nella protezione dei nostri brevetti e nel loro sviluppo. Sicuramente la nostra forza risiede nell’essere un centro CNS (Cosmetic, Nanomedicine e Smart Materials), con 25 scienziati in 350 metri quadrati. Nella struttura nuova triplicheremo le persone, perché il settore dei PHAs è ancora inesplorato e in evoluzione.”

 

Quali vantaggi hanno i PHAs rispetto alla plastica in polietilene?

“Sono un prodotto biocompatibile, biodegradabile e non idrosolubile. Tuttavia, se dovesse finire in mare o nel terreno, ci saranno dei batteri pronti a degradarlo come substrato di crescita. La buona notizia è che la plastica può essere sostituita.”

 

Quali sono le parti organiche che vengono usate nella fermentazione?

“Tutte le fonti di carbonio, quindi tutti gli zuccheri. Ci sono tantissimi scarti che non vale la pena recuperare nel ciclo di produzione alimentare quindi finirebbero dispersi nell’ambiente. Questi batteri mangiandoli producono PHAs; la notizia straordinaria è che è possibile produrre bioplastica, in maniera efficace e veloce ovunque nel mondo.”

 

Sarà possibile garantire l’utilizzo di soli scarti agricoli o bisognerà consumare ettari di terreno per soddisfarne il bisogno? 

“La nostra azienda non consuma un millimetro di terreno per creare un biopolimero. Ci sono miliardi di tonnellate di scarti provenienti dal settore agricolo inutilizzati, bisogna partire da questi. La nostra tecnologia permette di utilizzare qualcosa che sarebbe stata gettato via.” 

 

 

Bio-on, www.bio-on.it/index.php